II -Un brusco risveglio

'Booom!'

Un improvvisa stretta al cuore mi contorse, come se qualcuno lo avesse preso in mano ed avesse deciso di stringerlo così forte che sarebbe tranquillamente potuto implodere.

Fu la prima sensazione che riuscii ad avvertire dopo molto tempo;
percepii anche come se un possente macigno mi schiacciasse il petto in modo talmente forte da non concedermi di respirare, pareva che le costole fossero state legate comprimendo i polmoni.

Stavo malissimo, non ci sono parole nel dizionario per descrivere le atrocità che mi comportava il corpo in quel momento, eppure, il mio pensiero razionale ebbe la meglio anche in tale occasione, tanto che mi chiesi subito di cosa la fitta al cuore avvertita poco prima potesse essere la conseguenza.

Probabilmente non avevo ancora fornito il tempo necessario ai miei tessuti cerebrali per riconnettersi perché subito le mie domande furono sovrastate da una nuova implacabile sensazione, più debole della morsa ma ugualmente fastidiosa, avvertii l'irrefrenabile istinto di liberare la gola, come se da ciò dipendessero tutte le funzioni del mio organismo, non feci in tempo a reagire che subito fui costretta ad aprire la bocca per far uscire ciò che ormai era sulla buona strada.
Avvertii nell'immediato una mano stranamente gommosa spostarmi con un gesto assai privo di delicatezza il volto in direzione del lato destro, mi accorsi allora di essere stata spiaccicata, come un insetto, su qualcosa di vagamente morbido che faticai molto a ricondurre ad un cuscino in lattice, di quelli che si utilizzano nelle sale rianimazione degli ospedali.

Non dovetti aspettare che ogni neurone si ricongiungesse all'interno della mia testa per dedurre che mi trovavo in una qualche clinica, tuttavia le riflessioni riguardo cosa fosse accaduto e cosa stesse succedendo non ebbero tempo di accomiatarsi nella mia mente, poiché ben presto essa fu pervasa da una nuova percezione di allucinante sofferenza: avvertivo sulla pelle un bruciore esterno ed intenso, che mi causava un intollerabile torpore interno il quale mi rendeva incapace di rimanere immobile.

Iniziai a scalciare e dimenarmi con tutta la forza che avevo tentando invano di alleviare il dolore; riuscii appena ad avvertire il pizzico di una siringa all'interno dell'avambraccio sinistro che subito fui pervasa da una sensazione d'immensa calma: il torpore insopportabile non era scomparso, ugualmente smisi di muovermi, non riuscivo più a sentire nessun muscolo del mio corpo, passarono appena pochi istanti e mi ritrovai a perdere nuovamente i sensi.

Dovevano essere trascorsi diversi giorni dal mio primo risveglio, poiché ogni ombra di quelle sensazioni percepite sì intensamente allora, si era dissolta nel nulla, come fossero state solo un frutto della mia mente,
il ricordo di quelle sofferenze però, era in me troppo vivido per essere circoscritto ad un sogno o ad un illusione.

Con immensa fatica sollevai le palpebre, lo spettacolo che mi si prostrò dinnanzi agli occhi non fece che confermare la mia tesi originale riguardo il luogo in cui mi stessi trovando.

Era sicuramente una clinica, di prim'ordine avrei osato dire, captai immediatamente una differenza dal episodio precedente: sotto la nuca questa volta non avevo una sottiletta di lattice, bensì due morbidi cuscini candidi accavallati l'uno sull'altro a sorreggermi il busto più esile del solito: avevo sicuramente cambiato reparto.

Tentai di sollevarmi per accomodarmi, ma mi accorsi presto di non poterlo fare essendo costretta da cinte bianche che mi trattenevano, quasi immobilizzandomi al letto.

-Ti pareva- dissi sommessa, rimasi colpita: la voce che fuoriuscì non somigliava minimamente alla mia voce.
Le parole che avevo pronunciato somigliavano quasi ad un sussurro, nulla a che vedere con la solita voce suadente ed autoritaria che in quasi diciassette anni non mi aveva mai abbandonata.

Intuì che il mio corpo doveva essere particolarmente debole, e mi accorsi che lo era anche la mia mente, purtroppo, non riuscivo a contemplare pienamente la realtà che mi circondava;
l'unica certezza che mi attanagliava fu la solitudine di quella stanza, vuota, ad eccezione della mia presenza.

'Per quale motivo ti stupisci?' pensai, 'chi diavolo assisterebbe una ragazza come te?' ribattei internamente. In quel preciso istante avvertii qualcosa infrangersi come vetro dentro di me, sgretolarsi nelle profondità del mio animo, immediatamente, mi sentii sola, completamente sola.

Fui alquanto stupita di ricondurre a me sentimenti simili, insulsamente convinta di aver già provato tutta la sofferenza di questo mondo, mi spaventai all'idea di ciò che stava accadendo: io, Guendalina Moriarti, tirata su con le proprie mani sin da quando lasciai il nido materno, in quel momento non percepivo altro che un immensa solitudine e, senza un motivo apparente, mi misi implacabilmente a piangere, piangere come una bambina, piangere come una stupida.

Dovevo aver svegliato qualche paziente esanime al di là delle pareti della bianca e scarna camera rettangolare, poiché sentii il chiaro suono di un campanello seguito da uno scalpitio di zoccoli plurisoni, che dovevano appartenere almeno a quattro persone.

Udii gli individui bisbigliare dinnanzi alla mia porta, come incerti sul da farsi, si zittirono di colpo alla comparsa del suono di un paio di tacchi a spillo di metallo raggiungere in gran fretta la loro postazione.

Mi imposi immediatamente di smettere di piagnucolare
'farlo è inutile ed insensato, solo uno spreco di energie!', mi ripeteva sonoramente mia madre, quando tornavo dal liceo con le lunghe trecce bionde che mi contornavano il viso e per le quali i miei compagni mi prendevano tanto in giro, piena di lacrime e tristezza.

Non feci caso alle affermazioni dei medici che ordinavano alla donna di fare il proprio ingresso, ridiscesi nella realtà solo quando questa spalancò la porta, trasalii. Mi ritovai ai piedi del letto una donna sulla quarantina, bionda con un carrè alla spalla ed una frangetta para, indossava alti stivali neri scamosciati ed un lungo trench color ciliegia che gli copriva gli abiti scuri, il suo volto era il ritratto della tristezza, i suoi occhi tondi color nocciola stracolmi di lacrime.

-Mamma-
dissi distogliendo lo sguardo, non avrei retto neanche per un attimo il confronto con quegli occhi tanto sgombri di felicità per colpa mia.

Lei non rispose, la sentii soltanto sospirare, non mi ci vollero parole per capire il suo profondo stato di delusione. Deglutii, nonostante il dolore che mi causava quel gesto, immaginai di doverle parlare, spiegare, ma non ce la feci.
Avvertii il suo sguardo pesarmi incredibilmente: io non volevo deluderla, io non volevo cacciarmi in questo pasticcio, io non volevo mamma, scusami.

-Scusa- dissi,
cercando di mettere in quella mia affermazione più forza di quanta ne possedessi, lei si irrigidi all'improvviso, come se la mia parola l'avesse ferita più di quanto avesse fatto il mio stato.

Non capirò mai perché reagì cosi male a quel mio tentativo maldestro di rattoppare la situazione, ricordo solo le sue parole di ghiaccio condannarmi:

-Guendalina vattene!-

il mio cuore sprofondò fino a raggiungere la bocca dello stomaco;

-esci dalla mia vita, per favore.-

'Ahia...' questa faceva male.

La donna deglutì, come se avesse un grosso groppo alla gola che non riusciva a mandar giù, avrei detto che proferiva quelle parole con amarezza, ma il suo stesso discorso la smentiva

-io e Giovanni abbiamo trovato una nuova scuola, e questa volta ci resterai anche se non ti piacerà- riprese aria e sbatté le palpebre un paio di volte,

-hai una settimana per ristabilirti, poi di te si occuperanno gli assistenti sociali.-

Concluse quella frase con suono grave ma deciso ed incredibilmente distaccato, non aggiunse mai altro, non la biasimai, anch'io sarei rimasta delusa da una figlia come me.

La settimana passò lentamente tanto da permettermi di contare ogni singolo attimo ma, ciononostante, molto più in fretta di quanto ebbi sperato;
passai le mie giornate tra quelle quattro bianche mura, alzandomi di rado ed affacciandomi oltre le tende in organza celestina che coprono le inferriate del mezzo quadro, passeggiando a vuoto tra il letto ed i mobili squadrati in legno chiaro, in una profonda e suadente aura silenziosa, che sicuramente resterà ciò che più ho preferito di questo posto.

L'implacabile silenzio veniva talvolta rotto dagli inservienti che mi portavano i pasti su vassoi candidi che circa mezz'ora dopo venivano a riprendere esattamente come li avevano lasciati, mangiare è l'ultima delle mie preoccupazioni.

Non percepisco il bisogno di nutrirmi, sono certa che il vuoto che sento dentro non si colmerebbe affatto con del cibo, forse tornerò a salutare ana, ma che mi importa?! Nessuno si occupa di me ora.

La mia ultima esperienza con ana risale ad un anno fa, quando Jorhel mi consigliò di perdere qualche chilo sui fianchi ed io me lo imposi.
Da allora mangiare non è mai tornato un gesto naturale e innato come dovrebbe essere, quei quarantacinque chili mi pesano come zavorre sulla coscienza, anche se oggi i muscoli sudati agli addestramenti hanno coperto le ossa, continuo a credere che queste ferree convinzioni non si schioderanno con tanta facilità dalla mia testa.

Al militare il mio rifiuto per il cibo mi aveva causato non pochi problemi, ma mai quanti a casa, ad ogni piatto che rifiutavo mia madre iniziava ad urlare e solo Giovanni, suo marito, era in grado di calmarla,
l'ambiente era così invivibile, ed io me ne sentivo più che responsabile.

Non mi sono mai considerata malata o cose simili, e se prima che compissi sedici anni vi era una micro possibilità che potessero scaturire in me certi dubbi, benché minimi, magari grazie alle scenate di mia madre, dopo, nel covo con la family, questa retrograda possibilità non esisteva: ero troppo occupata ad ideare cazzate da fare con quelli che credevo i miei amici.

Altre volte, la pace di quella camera era dissolta dall'infrazione degli assistenti sociali, i quali venivano a porgermi vestiti nuovi ogni giorno, che mi spiegarono avrei dovuto indossare unicamente per il viaggio fino a Malta, dove si trova il riformatorio scelto da mia madre e il mio patrigno, poiché questo impone una sorta di divisa durante le lezioni.
Le indecenti proposte venivano puntualmente reiette perché volgarmente inadatte e infantili: il fatto che io sia alta quanto una bambina di dieci anni e che quei capi mi entrino, non significava che per me andassero bene.

Solo oggi, che è lo stesso giorno della mia partenza, riesco a farmi recapitare appena sveglia una maglia nera lunga degli ACDC, gruppo che idolatro da anni, delle calze nere velate, un paio di short di raso del medesimo colore e degli anfibi bordeaux numero 36 che staccavano dal total black di quello stile, insieme ad eye-liner e mascara che avevo espressamente richiesto con lauto anticipo.

Controllo sull'etichetta della t-shirt che la percentuale di poliestere non superi un mezzo di quella del cotone, una delle mie fissazioni più atroci, soddisfatta del risultato, mi chiudo nel bagno adiacente alla mia camera, e mi rivolgo alla me riflessa nello specchio
'Da questo giorno ha inizio un nuovo capitolo della tua vita Guen, che nessuno sa quanto sarà grande o importante.' penso.

Allo stesso tempo cerco di tenere a bada l'agitazione e l'ansia, l'idea di fuggire di nuovo mi solletica ma non posso farlo, non voglio farlo, ho già trascorso tutta la mia vita a scappare, prima dalla scuola, poi da casa, poi dalla realtà, non voglio che questo continui ad essere il mio unico destino, io sono capace di fare di più.

Mi assento dai miei pensieri vestendomi con cura, mi rialzo e torno a scoprire quel ritratto immobile nello specchio 'sembra di porcellana,' mi ritrovo a pensare, ma immediatamente mi vergogno di ciò che ha detto la mia mente, io non sono una bambola, quelle servono a far giocare gli altri, almeno finché non si rompono, e poi addio belle bamboline, ci si scorda prima di un giocattolo che di un capriccio.

Mi riconcentro sul mio aspetto, odio perdermi in mille pensieri come sempre capita, metto una spessa linea di eye-liner partendo dall'occhio sinistro e qualche chilo di mascara nelle ciglia superiori dello stesso, solo quando ho finito passo al secondo occhio, molti completano dapprima di usare l'eye-liner su entrambi gli occhi e poi passano al mascara, è una cosa che odio, le cose vanno finite prima di iniziarne altre, me lo diceva sempre mia madre: ci vuole ordine nella vita.

Guardo i miei capelli tinti di rosa,
'la piastra qui è solo un miraggio' penso tra me e me, dovrò rassegnarmi a questi boccoloni fastidiosi.
Li sposto da dietro le spalle a sopra il seno e noto con piacere che ormai in lunghezza raggiungono l'ombelico;
raccolgo la sacca per il viaggio e mi giro per uscire dal bagno, alzo gli occhi quasi per sbaglio,

sussulto,

per poco non gli sbattevo contro, apro e chiudo gli occhi per controllare che sia lui,

'Aiuto' penso 'ora chi mi salverà...'

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