I -Elvis

Immaginate di essere dispersi chissà dove e chissà quando,
in un alone di mistero che vi fa perdere il senno,
immaginate di essere reclusi in un area circoscritta senza poter uscire autonomamente è senza la speranza che qualcuno venga a prendervi,
immaginate di perdere la capacità di percepire lo scorrere delle ore e lo scivolare del tempo,
come essere bloccati in una dimensione che non esiste,
immaginate di perdere tutti i vostri sensi assieme nello stesso istante,
come morire e rinascere nello stesso momento,
come possedere la capacità di gestire tutta la vostra esistenza e nonostante ciò lasciarvela sfuggire.

Questo è ciò che io ho reso possibile, io, soltanto io: un prodigio scientifico di appena sedici anni è stata in grado di realizzare la più potente droga che un qualsiasi individuo potesse mai desiderare, capace di raggiungere finalmente quello che avevano sempre rincorso tutti gli uomini da Adamo ad Armstrong.

È da otto mesi che ci sto lavorando, da quando decisi di iniziare a vivere, vivere sul serio.


Dato il mio q.i. logico tre volte superiore alla media era da una decina d'anni che non avevo la fortuna di condurre un esistenza "normale": prima di finire l'asilo avevo gia le competenze della terza elementare, in prima svolsi l'esame di quinta e così via.

Non fu affatto gratificante, come non lo è mai per quelli come me, arrivare alle superiori a soli undici anni quando, mentre la mia mente era posta ad un livello pari a quello dei miei compagni, il mio aspetto era completamente l'opposto.
Anzi, se possibile in simili circostanze, addirittura mi ostacolava: sebbene tuttora la mia statura sia piuttosto ridotta, allora dimostravo si e no l'età di una studentessa delle medie, e sentirsi chiamare tutti i giorni 'Guendalina la bambina' non fu un fatto positivo.

Per questo e motivi simili, a dodici anni decisi di smettere la scuola ordinaria e anonima in cui ero andata, e intraprendere gli studi da privatista, per poter frequentare durante il giorno un accademia militare formativa di primo livello offerta dall'esercito.

Sicuramente passare da un liceo ad una scuola militare sovvenzionata dallo stato poteva apparire una scelta azzardata e priva di un fondamento logico sotto diversi punti di vista, ma forse era proprio questo che ricercavo:
avevo bisogno di ritrovarmi in un ambiente estraneo all'interno del quale non avrei avuto alcuna competenza.

Contemporaneamente, decisi di allenare le mie "doti" intellettuali, se così possono essere chiamate, conseguendo studi autonomi che svolgevo durante la permanenza con la mia famiglia.

Così credetti di aver trovato il mio equilibrio, avevo preso un dottorato in chimica avanzata e mi stavo accingendo a studiare filosofia online collaborando con un prestigioso collegio svizzero.

Purtroppo la vita non sempre segue i nostri piani.

Alla tutt'altro che veneranda età di quattordici anni, con la promozione a Cadetto conobbi Jorhel, un diciassettenne russo mandato in accademia come punizione dalla propria madre per essersi fatto sorprendere a spacciare all'interno dell'istituto che frequentava.

Tuttora non mi giustifico il motivo per cui quell'idiota mi attraesse tanto.
Era muscoloso, ma come tutti nella struttura, un vero gigante stupido, quei capelli rosso-arancio da pel di carota e quegli occhi di ghiaccio che riflettevano come una finestra sfondata il suo animo gelido, assieme all'industriale quantità di piercing che adornano il suo viso e di tatuaggi sparsi lungo in corpo, non potevano che conferirgli quell'aria da cattivo ragazzo che a noi incaute e sciocche ragazzine piace tanto.

Con Jorhel i miei interessi cambiarono, o meglio: il mio unico interesse divenne lui, in sua presenza tutto il mio q.i. scompariva, rendendomi un ameba amorfa in grado solo di annuire e di contemplare quello sguardo glaciale.

Iniziai a lasciar perdere le lezioni con il collegio e durante quelle all'accademia, delle quali era obbligatoria la frequenza, divenni instabile ed incontenibile, sviluppando il carattere fastidioso e irriverente nei confronti delle autorità, che ancora oggi mi porto dietro.
Essendo palese quanto l'esercito sia colmo di autorità, è inutile dire che non tardarono ad arrivare problemi, richiami e punizioni varie.

Nulla di tutto ciò poteva tuttavia scalfirmi anzi, data l'assenza quasi totale della mia famiglia, sia a casa che nei rapporti, ahimè, era piuttosto semplice intercettare le lettere di richiamo facendo così sì che in quel lungo e buio periodo della mia vita in cui ne avevo più bisogno, i miei non si accorgessero di nulla.

Come se non fosse sufficiente, ogni macchia sulla mia fedina costituiava un punto a favore nel curriculum per entrare a far parte della family, la crew dei "cattivi ragazzi" a cui mi ero ufficialmente proposta come candidata mettendomi con Jorhel.

Passarono quasi due anni con la crew, periodo in cui il mio ruolo all'interno crebbe notevolmente grazie al mio ingegno, il quale mi permetteva di rifornire tutti i ragazzi del gruppo di soldi, grazie alle piccole rapine che organizzavo, e di varie droghe, che smerciavamo per strada attrezzandoci al meglio per tagliarle e guadagnarci qualche altro spiccio.

Durante questi piccoli reati, non mi ritrovai mai ad essere il braccio, nonostante le mie doti atletiche risultassero valide almeno quanto quelle degli altri membri, preferivo sempre starmene seduta nel covo ad organizzare ogni azione nei minimi dettagli, convincendomi che fosse il miglior modo per usufruire del mio cervello.

Con il compimento dei miei sedici anni tuttavia, anche la mia nuova situazione cambiò.

Terminai di fatto l'obbligo imposto dalla scuola militare, perdendo così il diritto ad alloggio e sovvenzionamento da parte dello stato tramite l'esercito;
Jorhell allora mi disse che sarebbe stato giusto andare a vivere con lui.

La proposta sarebbe apparsa quasi romantica, se non fossi stata invitata ad alloggiare in uno sporco ambiente rozzo e malsano in cui anni addietro aveva avuto luogo una vetreria, che pel di carota e i suoi amici avevano scambiato per un appartamento.

Nonostante la materia prima fosse alquanto scadente, presi comunque l'offerta di Jorhel come un gesto di premura, suppondendo che volesse porgermi un aiuto anziché controllarmi, come scoprì troppo tardi essere sua intenzione, ed accettai la sua proposta.

L'idea dell'idilliaco mondo che mi ero figurata in cui io e Jorhel facevamo l'amore dalla mattina alla sera, non tardò a sgretolarsi nella mia mente, le eccitanti avventure con la family ormai avevano perso di ogni minimo fascino ed io inziai a vivere quella quotidianità come una trappola, per nulla diversa dal liceo, dall'accademia, e dal resto della mia vita.

Più riflettevo durante le lunghe giornate vuote alla vetreria, più non riuscivo a capire quale fosse il mio problema, ogni situazione che mi si proponeva dopo relativamente poco tempo perdeva la sua attrattiva, ogni prospettiva di vita possibile mi appariva monotona, odiavo tutti i limiti dell'esistenza, non riuscivo a contemplare l'idea di dover passare il tempo nella stessa maniera più di una sola volta, di ritrovarmi negli stessi schemi predefiniti, nella stessa dimensione.

Allora, l'illuminazione, finalmente capì cosa mi serviva, di cosa più di tutti e tutto avevo bisogno, ed iniziai a concepire che l'unico modo per non sentirmi oppressa dalle barriere della realtà era abolirle.

Riaprii i libri e mi misi sotto, allestii un piccolo laboratorio con gli scarni residui risalenti alla vecchia vetreria e finalmente, decisi di produrre con le mie stesse mani ciò che per lungo tempo avevo faticosamente ricercato nel corso della mia vita.
Sapevo non sarebbe stato affatto difficile crearla, ricordavo a memoria tutti i principi organici e le reazioni chimiche delle sostanze, ed avevamo abbastanza conoscenze nell'ambiente che sarebbe stato facile diffonderla.

Una volta raggiunti i sintomi desiderati, anche se solo grazie alle numerose prove sulle mie cavie (quegli idioti si sarebbero iniettati tutto quello che gli davo), mi imposi di ricercare per la mia droga, il nome migliore che potesse mai venirmi in mente: doveva essere geniale e rappresentativo, ma non immediatamente associabile ad una sostanza proibita, avevo bisogno di qualcosa che calzasse a pennello con il prodotto, con me.

Chiunque ne entrasse in possesso aveva l'obbligo di intuire che lei non era nata per fare due spicci, come un qualunque sospensore dalla realtà, ma che per me che l'avevo creata e per chi ne faceva uso, consisteva nello sbarramento di un limite, di un confine interiore.

Allora, decisi di indagare su chi prima di me avesse voluto al mio stesso modo disintegrare il muro della realtà, i primi a venirmi in mente furono i filosofi, ma loro si erano soffermati in maniera eccessiva sulla ragione, ed io, con la ragione, non avrei piu' voluto averci nulla a che fare, li ritenevo inoltre troppo distanti e troppo accademici, non andavano bene, avevo bisogno di qualcosa di più attuale, più vivo ..

Dopo otto mesi circa dalla mia intuizione su come dare una svolta definitiva alla mia vita, raggiunsi un verdetto, gli effetti erano stati perfezionati e finalmente avevo anche trovato il nome perfetto per lei.

La chiamai Elvis, come il grande idolo, dopo un lungo meditare ero certa che non avrei potuto trovare un nome più adatto: come Elvis lei era rivoluzionaria, avrebbe dato inizio ad una nuova generazione di droghe combinate e basate sull'equilibrio di tutti i principi attivi e dormienti innati nell'organismo umano; come Elvis lei sarebbe rimasta costantemente in un alone di mistero e leggenda che l'avrebbero contraddistinta nel mondo; per crearla usai sedici diverse droghe tra anfetamine, stimolanti e psicoattivi, le stesse sostanze rinvenute nell'organismo di Elvis alla sua morte, ognuna in dose abbastanza massiccia da far sfiorare la morte a chiunque, ma insieme, in grado di produrre la più grande magia che un uomo possa mai porsi come obbiettivo di raggiungere. Ne ero certa, Elvis avrebbe lasciato il segno.

'Finalmente', penso tra me e me.

Sono al piano inferiore del covo. La family è radunata. Siamo in cerchio. L'uno davanti all'altro mentre ci guardiamo negli occhi, ci osserviamo, ci studiamo.

Ci sono tutti: Rengo, Joe, Rico, Nikolas, Sofian, Giordano, Alessio, Gigi, Cardo, Ale, Giorgio, Luca, Salem, e ovviamente, Jorhel.

L'ultimo è alla mia destra, la sua figura e quella degli altri tredici, non potrebbero che incutere timore a chiunque, ma non a me, non in questo momento.

Non c'è più bisogno di aggiungere alcuna parola tra di noi, tutti hanno ben scanditi nelle menti i loro compiti, lo noto dai loro sguardi, sicuri e fermi.
Fra di loro, persino Rengo che normalmente non riesce a trattenere la propria serietà per più di quattro secondi, ora è quì, immoto, dinnanzi a me, concentrato a ripassare il percorso che compirà, mentre fissa il pavimento in compagnia di un altro paio di ragazzi che contemplano ciascuno i propri ruoli.
Sofian invece, ed altri come lui, si scrutano di sottecchi, come a volersi spronare e intimidire a vicenda e nello stesso momento, gonfiando ad ogni respiro gli imponenti muscoli sulle loro braccia.
E poi c'e Jorhel, che non rinuncia a fissarmi nemmeno per pochi istanti, lo odio quando fa così, mi sembra quasi che mi tolga l'aria, ma adesso non me ne importa, non ho tempo da concedermi per dare attenzione ai suoi sguardi, adesso non è il momento.

Trattengo il respiro, mi faccio forza e tiro fuori la voce:

-Compagni,- esito - oggi erigeremo il nostro impero, costruiremo le vie del nostro successo, scaveremo i passaggi per la nostra gloria.-

Mi fermo un istante, riprendo fiato, gli sguardi di Jorhel mi bucano come spine, tralascio, riprendo

-Conoscete tutti i vostri compiti, ed io confido che li eseguirete al meglio,- sorrido con malizia, come se non avessi mai desiderato così tanto qualcosa in tutta la vita -ma prima di iniziare: A noi!-.

Dico alzando una mano con all'interno un paio pasticche di Elvis, le guardo con la stessa intensità con cui un soldato in guerra guarderebbe la foto della moglie, esito un istante, in quelle due pasticche ritrovo tutto il dolore che abbia mai percepito, tutta la costrizione che abbia mai subito, non mi soffermo oltre, le avvicino alla bocca, le butto giù.

Alzo gli occhi dopo qualche istante e vedo i miei compagni contorcersi, mi chiedo cosa stia succedendo ma tutto è incomprensibilmente ovattato, cerco di strofinarmi gli occhi e al rialzare della mia testa molti sono caduti, stramazzati sul freddo pavimento, mi giro a destra per vedere Jorhel e posso solo ora accorgermi della sua presa ferrea sul mio braccio, che fino al momento prima non avevo percepito, poi: il buio.

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