Epilogo

Victoir Evans pensava di essere una persona tutto sommato fortunata.

Il fato era stato meschino con lui e l'aveva condannato a un'esistenza liminale, sul confine tra umano e mostruoso, lecito e illegale, vizio e virtù. Come gli oggetti dell'agire umano che nella filosofia stoica sfuggivano alla distinzione tra buono e malvagio, anche lui si districava dai rigidi argini delle categorizzazioni e si elevava in un territorio neutrale, considerato da molti potenzialmente pericoloso. Come una sorta di adiaphora umana.

Nonostante tutto, mentre la Black Court lo accoglieva nel suo abbraccio soffocante e l'obbligo a un'obbedienza cieca e sorda tornava a gravare sulle sue spalle appena diciottenni, Victoir Evans realizzò di essere una persona tutto sommato fortunata.

Perché aveva una famiglia che lo amava a dismisura, indipendentemente dai suoi limiti.

Perché Lorraine era ancora al suo fianco, coraggiosa come una guerriera e fulgida come una stella.

Perché aveva trovato in Alaric Langdon e Arthur Coleman delle mani protese per aiutarlo, non per tirare i suoi fili.

Perché era ancora vivo, sebbene ogni giorno più vicino alla propria esecuzione per mano degli aguzzini che serviva come un mastino.

E probabilmente non l'avrebbe mai capito senza Alcor East, senza Elijah Griffiths.

Con questi pensieri nella mente e gli occhi cerulei sereni come il cielo estivo, Victoir aveva fissato il giudice Marianne Fitzgerald per tutto il tempo del suo rapporto. Non erano passate neanche quarantotto ore dal loro rientro sulla titanica città volante, ma qualcuno tra le alte sfere doveva essersi detto insoddisfatto del lavoro di Lorraine, quindi erano stati tutti chiamati a testimoniare quanto accaduto nel Durham. Per loro fortuna, il giudice Fitzgerald si era subito proposta per occuparsi personalmente di tutto.

Omettere informazioni non era un problema per Victoir: l'inespressività che imbiancava il suo volto come pallore cadaverico era un'ottima risorsa quando voleva nascondere qualcosa. Possedere una faccia da morto aveva i suoi lati positivi. Ne avrebbe fatto a meno al cospetto di una donna che rispettava, ma i segreti di Alcor East sarebbero dovuti rimanere tali a qualunque costo.

«Dunque mi confermi che non c'è altro?» incalzò il giudice all'altro capo della scrivania. «Avete solamente aspettato che il ricercato si facesse vivo?»

Victoir scrollò le spalle con indolenza. «È stata una lunga settimana bianca.»

Marianne si concesse un sorriso. «Sembra che questa lunga settimana bianca ti abbia fatto bene, Victoir. Non immagini quanto mi renda felice vederti...»

Le parole sembravano sfuggirle, così il ragazzo le diede un piccolo aiuto. «Truce e letale come sempre?»

«Felice.» completò lei, materna e calorosa. «Sai che per me sei come un nipote, solo i tuoi genitori potrebbero essere più fieri di te di quanto lo sono io.»

Il cacciatore si ammutolì e abbassò la testa. Normalmente avrebbe rifiutato dimostrazioni d'affetto che non poteva ricambiare, ma aveva promesso a se stesso che avrebbe smesso di scappare e aperto le porte agli altri. Quello era il momento di aprire una porta.

Così tornò a ricambiare lo sguardo della nonna mancata, abbozzando un sorriso un po' goffo e sbilenco, ma sincero. «Grazie, Marianne.»

Il momento di convivialità terminò con un movimento meccanico delle mani di Marianne, che batté un paio di volte sul banco la decina di fogli che stringeva tra le mani nodose. Si trattava del rapporto stilato con cura da Lorraine, che, a giudicare dai bordi sgualciti nonostante fosse stato redatto appena un giorno prima, doveva essere passato per decine di mani poco premurose.

«Mi mancherà il giudice Coleman, era una delle poche persone con cui intrattenere un discorso davvero stimolante... beh, non siamo fatti per inseguire la felicità?» Marianne mise da parte il rapporto e intrecciò le dita, tornando seria. «Riguardo la richiesta per formare una squadra... sei proprio sicuro di voler cedere il ruolo di leader a Lorraine? Potrebbe essere la tua occasione per cominciare a farti un nome.»

«Non sono io quello a cui interessa farsi un nome o una carriera.» Victoir scosse la testa, determinato come non era stato per tutto il colloquio. «La presenza di Lorraine ha fatto la differenza, senza il suo sacrificio non avrei avuto occasione di colpire il ricercato. Merita una ricompensa, perciò voglio che questa squadra sia la squadra Winchester.»

La sua voce rimbombò per tutto lo studio, abbattendosi sulle spaziose vetrate oltre le quali Londra viveva di fumi di fabbriche e pioggia scrosciante.

Il giudice Fitzgerald aggrottò la fronte, ma qualunque dubbio avesse annebbiato i suoi pensieri si dissolse presto e la pace tornò a regnare sovrana sul suo viso.

«D'accordo, Victoir. Squadra Winchester sia.» sentenziò.


Comodo presso l'ultima scrivania del corridoio dedicato alla filosofia antica, Victoir osservava distrattamente la pioggia picchiettare con insistenza contro il vetro appannato, come per distrarlo da una faccenda che una parte del suo cuore non aveva ancora trovato il coraggio di affrontare. Doveva fare presto, aveva i minuti contati: presto la biblioteca avrebbe chiuso le porte al pubblico e accolto l'abbraccio della notte.

Ikaros non aveva smesso di zampettare sullo scrittoio da quando erano arrivati, scrutando i dintorni solitari coi suoi occhi di zaffiri. Sembrava così curioso, così vivo.

Victoir si costrinse a concentrarsi sul foglio bianco, sulla penna che stringeva tra le dita e che aveva intinto nell'inchiostro almeno sei volte per poi lasciarla a un centimetro dalla carta, sul discorso che avrebbe dovuto impostare.

Doveva essere forte, doveva avere fiducia.

Inspirò l'aria densa del profumo dei libri e tracciò la prima parola. Superato quell'ostacolo, il resto venne da sé come acqua finalmente libera di fluire.

" Caro padre... "

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