CH. XIV
«Non so più come dirtelo, Victoir: non devi uscire di notte per nessun motivo, mai.»
L'irritazione leggibile sul volto emaciato di papy è più tagliente del freddo che fino a qualche minuto prima gli ha sferzato le guance. Victoir è finalmente al calduccio, ma l'aria della sua camera è così elettrica che forse preferirebbe tornarsene in giardino. L'uomo coi capelli come il fuoco è scappato, la sua famiglia lo ha cercato ovunque ma sembra sparito.
Il bambino stringe la presa sulla coperta che frena i tremiti infreddoliti delle sue spalle, si sporge in avanti e fronteggia senza paura l'uomo che torreggia su di lui. «Ma─»
«Niente ma!» lo interrompe papy.
Benché il suo tono non ammetta repliche, a quel punto per Victoir è una questione di principio. Curva ancora di più la schiena in avanti, lasciandosi inondare dalla luce dell'alba che esplode attraverso la finestra e gli punge gli occhi. Il calore che sente non viene da fuori: nasce dall'istinto di ribattere, di costringere l'uomo ad ascoltarlo e comprenderlo.
«Ma!» alza la voce e serra i pugni sulle pieghe della stoffa ruvida, non sapendo come altro esternare la propria frustrazione.
Papy si massaggia la fronte, sembra che tutta la stanchezza della notte in bianco gli sia all'improvviso piombata addosso. Sospira e mormora: «Tra tutte le cose che potevi prendere da me, perché proprio l'insubordinazione? Sei davvero una birba...»
Victoir aggrotta le sopracciglia davanti all'ennesima parola sconosciuta. «Io non sono unabirba! Sono Victoir!»
Tutti lo chiamano in modi strani o sgradevoli: anomalia, ottuso, faccia da morto, unabirba... non può fare a meno di chiedersi se ci sia qualcosa di sbagliato in ciò che è, in Victoir.
Per un po' rimangono a fissarsi, col fischio del vento che fa vibrare le finestre e il ritmo dei passi al piano di sotto a rendere il silenzio ancor più soffocante.
Il fastidio agli occhi si trasforma in un velo di lacrime che distorce in modo buffo il viso di papy; Victoir comincia a battere forte le palpebre. Non vuole piangere, ma le sue emozioni sono fuori controllo e persino il suo corpo non gli obbedisce più: la sua voce è sempre monocorde e l'espressività del tutto sparita.
Le parole sono un mezzo troppo difficile da padroneggiare per comunicare con un mondo esterno da cui si sente sempre più disconnesso. Desidera essere capito ─ essere capito da lui, il suo eroe ─, ma non sa come comunicare in maniera efficace e questo lo frustra. Qualcosa in lui sta cambiando. È come se dentro di lui ci fossero due Victoir in costante lotta: l'uno indifferente e annoiato, l'altro terrorizzato e alla disperata ricerca di aiuto da parte dei suoi genitori. Ma più passa il tempo, più il secondo diventa nient'altro che un riverbero lontano.
«Io volevo solo aiutare!» butta fuori con la poca foga di cui è capace, scuotendo la testa. «Ho pensato che se divento forte come mamy e coraggioso come te, allora potrò aiutare gli altri e nessuno avrà più paura di me! Mi vorranno tutti bene, come voi!»
Le sue urla stentate non hanno tuttavia l'effetto sperato: papy stira le labbra e abbassa gli occhi celesti, che nel bagliore vermiglio dell'alba perdono la loro tipica brillantezza. È una visione devastante per Victoir, abituato a vederlo di rado così sconfortato e vulnerabile.
«Io volevo solo aiutare...» la sua voce trema, rotta dal pianto.
Voleva solo aiutare e invece ha sbagliato ancora, per di più facendo del male alle persone che ama di più. È una constatazione che gli impregna la bocca col sapore amaro del fallimento misto a umiliazione, un amalgama che ha già assaporato molte volte a scuola.
Papy sospira e lo osserva attentamente, con un'espressione che il bambino non riesce a decriptare. Se non avesse la gola annodata chiederebbe scusa per avergli disubbidito, per averlo fatto preoccupare e soprattutto di non riuscire a capire i suoi sentimenti.
«Victoir, non è così che funziona.»
Nonostante le parole dure, nel tono del genitore si affaccia una dolce comprensione di cui Victoir pensa di avere bisogno. Papy si muove nel suo campo visivo annacquato e si siede sul letto, per poi trascinare lui e la sua coperta in un abbraccio morbido, in cui il bambino rilassa all'istante ogni muscolo del corpicino contratto.
«Non puoi costringere gli altri a volerti bene, ma soprattutto non puoi fare del male a te stesso o metterti in pericolo per comprare l'affetto delle persone. Purtroppo ci saranno persone che non ti ameranno mai come tu desideri, indipendentemente da quanto vorrai il loro amore e lotterai per conquistarlo. Ma non per questo devi disperare, perché ci saranno anche delle persone che ti ameranno senza chiederti niente in cambio...»
Le lunghe dita da pianista di suo padre gli accarezzano dolcemente i riccioli, attente a non tirare neanche un nodo.
«Come io ho trovato la tua mamma, anche tu troverai qualcuno che ti amerà... e capirai che l'amore di una sola persona speciale ti renderà più felice dell'amore del mondo intero.»
Victoir sente un bacio sfiorargli la testa, le sue lacrime cominciano a rallentare.
«Il tuo desiderio di aiutare era così forte da averti fatto deragliare. Hai fatto un errore, ma succede a tutti. Anch'io ho fatto innumerevoli errori e continuo a farne... e a crescere. Quindi piangi quanto vuoi, finché non ti rialzerai con una lezione imparata e i tuoi obiettivi più chiari di prima.»
«Tu non mi odi, papy?» il bambino ha un tuffo al cuore, e impaurito dalla possibile risposta si aggrappa forte al gilet del padre per impedirgli di andare via.
Ma lui ride sottovoce e continua a coccolarlo, serafico. «Assolutamente no. Anche se commetterai migliaia di errori sarai sempre il mio Victoir.»
***
«... Victoir? Victoir!»
Una voce rotta dalla paura lo chiamava, ma la presa della sua coscienza sulla realtà era troppo debole per riconoscerla.
Stordito, Victoir lottò per tornare a galla come chi, inabissandosi, allunghi una mano verso la superficie brillante del mare.
«Dio, quanto sangue... come tolgo questa roba senza ucciderti?»
I suoi ricordi si fermavano a un caleidoscopio di rossi: un cielo di filamenti di fumo che si intrecciavano all'arancione delle fiamme, schizzi purpurei strappati al suo corpo goccia dopo goccia, una cascata di capelli fulvi su iridi che del ghiaccio avevano solo il colore. Se aprire gli occhi significava immergersi di nuovo in quell'inferno, allora preferiva continuare a colare a picco nel buio pervaso da brusii lontani.
«Mi dispiace, Victoir... farà male.»
La sua rassicurante gabbia di alienazione fu fatta a pezzi dalla realtà. Un dolore lancinante partì dallo stomaco e lo attraversò dalla testa ai piedi, strappandogli un grido sofferente e costringendolo a spalancare le palpebre sullo scenario apocalittico che era rimasto lì, ad aspettarlo con sadica pazienza.
Dardeggiò con gli occhi febbrili e gonfi di lacrime su ogni angolo del campo visivo: il cielo era ancora una tavolozza di rosso e nero, il suo corpo preda delle convulsioni sembrava capace solo di vomitare sangue e urla, una figura massiccia torreggiava su di lui stringendo con entrambe le mani l'impugnatura della baionetta.
Per quanto tirasse, Alaric non riusciva a estrarre la lama dal suo fianco.
«Mi dispiace, ma non c'è altro modo!» ripeté il medium senza distogliere lo sguardo dal suo lavoro.
Tirò di nuovo e la schiena del mezzo vampiro si inarcò, la punta rimase però saldamente piantata a terra. Allora il mercenario appoggiò senza convenevoli un piede a lato della ferita e tentò ancora.
Victoir sentì il taglio della lama che apriva le sue carni come burro, se possibile persino più doloroso di quando Elijah Griffiths lo aveva infilzato. Di quel passo sarebbe morto o, peggio, svenuto. Il solo pensiero di dover affrontare una terza volta quella tortura al risveglio lo convinse ad aiutare Alaric e afferrare la lama. Era debole come accadeva di rado e i guanti, già lacerati, proteggevano così poco le mani che presto si ritrovò a scivolare e sguazzare nel proprio sangue tra spasmi violenti e incontrollabili.
Perse la cognizione del tempo. A scandire i minuti restarono solo i battiti disperati del suo cuore, accompagnati dagli incoraggiamenti del medium a tenere duro.
Infine, dopo un'eternità, la terra sputò la baionetta e la punta percorse all'indietro il passaggio scavato attraverso il suo corpo.
Lo sforzo sbilanciò Alaric, che scivolando sul sangue perse l'equilibrio e cadde per terra. L'arma si schiantò sul selciato con un rumore secco e Victoir, lanciando andare un ultimo grido di frustrazione, la spedì lontano da sé con una manata.
Finalmente era libero, pensò dirottando lo sguardo sul firmamento di fuoco, libero di morire dissanguato.
Alaric però sembrava avere altri piani in mente per lui; dopo aver cacciato una bestemmia a denti stretti gli si avvicinò e premette entrambe le mani inguantate sul fiume di sangue che straripava dal suo stomaco.
«Stai con me, Victoir! Come funziona la tua rigenerazione? Sei come i vampiri completi─»
«Lorraine...» lo interruppe il cacciatore, la voce già debole faticava a farsi strada tra i fiotti di sangue che gli risalivano la gola. «Lorraine è morta per colpa mia─»
«Non dire cazzate, non è morta!»
Victoir sbarrò gli occhi, il suo cuore perse un battito: d'un tratto niente era più importante del volto sporco di sangue e sudore di Alaric.
«È solo svenuta, l'ho portata al sicuro prima di venire da te. Griffiths non è riuscito a ucciderla, non gliel'hai permesso. Ricordi?»
Sì, ricordava. Non ci aveva pensato due volte a lanciarsi contro di lui e trafiggerlo. Elijah aveva liberato la ragazza dai suoi terribili poteri, ma Victoir non pensava che...
Tutte le lacrime che aveva trattenuto fino a quel momento cominciarono a scorrere senza ritegno, bagnandogli le guance e le labbra. Sale e sangue si mescolarono in un assaggio dal sapore sgradevole.
«Lorraine è viva...?» boccheggiò, incredulo e sollevato come se tutte le sue ferite fossero state curate. «È viva...»
«Sì, superuomo, è viva e sicuramente più vegeta di te. Ora mi spieghi come funziona la tua rigenerazione?»
Victoir non riuscì a trattenere un sorriso: non sapeva se l'ironia fosse per Alaric un modo per proteggersi dall'ansia, ma ringraziò che fosse così. Si puntellò sui gomiti per mettersi seduto, ignorando le vertigini, le nevralgie e i tremori che avevano trasformato il suo corpo in una macchina impazzita.
«Potresti cortesemente rispondermi?» incalzò Alaric, passandogli subito il braccio destro dietro le spalle per reggerlo.
Victoir però si ostinò a non rispondere e fissare lo squarcio sul fianco: né il dottore né il mercenario avevano fatto un lavoro certosino, la carne sbrindellata faceva capolino tra i lembi sgualciti del gilet e le dita di Alaric come i rimasugli grezzi di un macellaio inesperto. La verità era che era vivo per miracolo e non aveva idea di quanto tempo avrebbe impiegato il suo secondo marchio per rigenerare i tessuti e gli organi maciullati.
Ci sarebbe stato un trucco per accelerare il processo, ma non voleva neanche prenderlo in considerazione.
«Aiutami a rialzarmi.» ordinò, trattenendo con poco successo un nuovo eccesso di tosse. «Griffiths sta... cercando il giudice... devo proteggerlo...»
«Ma ti ascolti?» la presa di Alaric divenne più forte, minacciosa, come la voce ora più bassa. «Si può sapere cosa pensi di fare ridotto così?»
Dare ragione a un doppiogiochista era irritante, ma Victoir non aveva altra scelta che guardare in faccia la realtà: dove pensava di andare, se non riusciva nemmeno a mettersi in piedi da solo? Farfugliò a denti stretti la sua disapprovazione, ma un altro rigurgito di sangue gli gonfiò la gola e lo costrinse a piegarsi in avanti, tossendo il poco fiato rimastogli nei polmoni.
Il dolore che a ogni movimento, anche il più insignificante, cercava di strappargli un urlo non era niente in confronto alla sete, una piaga che non aveva mai avvertito così violenta e incontrollabile.
Alaric prese un lungo sospiro. «Ho capito.»
Tra le curve dei ricci impregnati di sudore che oscillavano davanti ai suoi occhi, Victoir vide la mano del mercenario sollevarsi dalla ferita. Adesso che ne aveva una visione completa era ovvio che non sarebbe mai andato lontano ridotto in quel modo, con la carne che poco sotto il torace si apriva a formare una tasca nera sanguinante.
Nonostante tutto non poteva desistere. Un attimo di esitazione era quasi costato la vita di Lorraine e se non avesse fermato Elijah, il giudice Coleman e tutta Alcor East sarebbero stati spacciati. Serrò lentamente i pugni, avvertendo la freddezza della neve diramarsi lungo le dita attraverso i guanti.
Il nemico, per quanto coriaceo, rimaneva comunque ferito, quindi se avesse giocato bene sul fattore sorpresa...
Un braccio nudo tagliò in due il suo campo visivo.
Il mezzo vampiro si conficcò subito i denti nel labbro inferiore, scoccando poi ad Alaric un'occhiata rovente che si scontrò con l'impassibile placidità di chi ha la situazione sotto controllo. Negli occhi chiari del medium non c'era alcuna traccia della mordace diffidenza con cui lo aveva pungolato per tanto tempo, solo una limpida determinazione. E questo era terrificante per Victoir, perché non aveva bisogno di conferme per sapere che Alaric gli stava offrendo il suo sangue pur di vincere quella lotta disperata. A lui, a un mostro.
«... No.» scosse la testa, sentendo delle gocce di sudore freddo tracciare i contorni del suo viso.
L'espressione del mercenario non mutò. «Non sei oggettivamente in grado di combattere ridotto così. Hai bisogno di sangue, vero? È così che funzionano i vampiri.»
Era vero.
La magia che scorreva nel sangue di un umano dotato come Alaric sarebbe stata un carburante fenomenale: non avrebbe solo rigenerato ogni centimetro del suo corpo, ma gli avrebbe fornito l'energia necessaria a battersi contro qualunque avversario.
«Non sono sicuro di riuscire a contenermi.» ribatté Victoir a fatica, scettico che quell'ammissione avrebbe cambiato qualcosa. «Non voglio ucciderti.»
«Non lo farai, non hai mai ucciso nessuno per fame.»
«E se tu fossi il primo?»
Adesso era Victoir a dubitare di se stesso, nonostante tutti gli sforzi per dimostrarsi una persona affidabile. Ne aveva provate tante di emozioni violente quella sera, ma la paura di vedere la scintilla della vita estinguersi negli occhi di Alaric per mano sua era forte quasi quanto quella provata per Lorraine.
«Hai capito qual era la cosa che volevi dirmi quel giorno, quando siamo andati in città?»
Il cacciatore batté le palpebre, colto di sorpresa. Le parole di Alaric erano come marchiate a fuoco nella sua memoria: volevi fare la cosa migliore, lo capisco. Ma la cosa migliore che tu possa fare per me è uccidere Elijah Griffiths. È per questo che sei uno dei migliori cacciatori della Black Court, no?
In realtà non ci aveva più pensato, ma la risposta affiorò alle sue labbra in modo del tutto spontaneo.
«Elijah Griffiths è stato ingiustamente trattato come un mostro... io volevo dargli una chance.» il mezzo vampiro chinò gli occhi sul braccio ancora steso davanti a lui. «Ma lui l'ha rifiutata...»
«Non puoi salvare qualcuno che non vuole essere salvato, Victoir.»
«Lo so, ma... io dovevo provare.» sospirò. «Ho fatto la cosa giusta... ora devo fare la cosa migliore.»
E la cosa migliore era fermare un pericoloso ricercato, anche a costo di ucciderlo. Specchiò un'ultima volta i propri occhi azzurri in quelli smeraldini del medium.
Alaric sostenne il suo sguardo. «Mi fido di te. Quindi fidati anche tu di me.»
Victoir annuì e dischiuse le labbra, accogliendo tra i suoi canini la pelle morbida del polso e la sensazione di calda familiarità di quell'atto mostruoso.
L'immenso palazzo che negli ultimi tempi aveva cominciato a considerare casa scorreva silenzioso attorno a Victoir, che con passo felpato e risoluto ne percorreva gli interminabili corridoi avvolti dalla sensazione di freddo e rischio tipica dell'estraneità. Proprio come la notte in cui erano giunti ad Alcor East, coi suoi altissimi soffitti a volta, i preziosi e pesanti lampadari di vetro e ferro battuto, le finestre contro cui i rami adunchi dei salici bussavano sospinti dal vento, casa Coleman insinuava sotto la pelle un senso di irrequietudine che avrebbe reso chiunque suscettibile al minimo rumore.
Ma non Victoir.
Victoir avanzava implacabile e sicuro di sé, attento a non provocare una sola increspatura nel mare di emozioni che avrebbe potuto allertare il suo nemico.
La mano destra sfiorava la pistola appesa al fianco, gli occhi assottigliati scandagliavano l'oscurità con l'infallibile precisione dei predatori notturni. La ferita al fianco era solo un ricordo del passato, testimoniato dal rosso del sangue di cui la camicia e il gilet sfilacciati, i pantaloni e persino gli orli degli stivali erano fittamente intrisi. Qualche debole nevralgia tentava ancora di scuoterlo, ma senza successo.
Lorraine era salva e Alaric stava bene. La languida tentazione della sete non aveva avuto la meglio sulla granitica lucidità del mezzo vampiro, dando così ragione al mercenario che, vigile seppur indebolito, gli aveva stretto una spalla e augurato buona fortuna prima di avviarsi per ricongiungersi con l'assistente.
Le due persone che aveva più a cuore erano al sicuro, e ciò era bastato a calmare l'animo irrequieto di Victoir. Era pronto a tornare la macchina da guerra che la Black Court aveva allevato: sarebbe andato fino in fondo, quel morrwen avrebbe potuto divorare fino all'ultimo filo delle sue emozioni, ma non lo avrebbe spezzato di nuovo.
La scia di sangue che attraversava i corridoi si assottigliò fino a diventare una timida pioggia di gocce sempre più rade, le quali lo condussero dove tutto era iniziato: il laboratorio del giudice. La porta a due battenti era spalancata, il legno scuro macchiato di rosso che riluceva nel bagliore delle lanterne.
Il cacciatore inarcò un angolo delle labbra, sembrava proprio che alla fine nessuno avesse seguito il piano di evacuazione.
Il silenzio spettrale fu rotto da un inaspettato e vivace cinguettio: Ikaros aveva scelto il momento peggiore per intonare la Primavera di Vivaldi, ma il mezzo vampiro non si fece scappare l'occasione per sgusciare furtivo nelle ombre fino all'anticamera.
E fu lì, aderendo con le spalle al muro per sbirciare la situazione all'interno, che vide John e Martha, due corpi privi di vita riversi a terra, in un red carpet di sangue che conduceva allo studio del giudice. Victoir prese un respiro profondo e represse qualunque alito di emozione pronto ad affiorare: conosceva abbastanza i due domestici da essere certo che avessero protetto il loro caro padrone fino alla morte.
Adesso stava a lui onorare il loro sacrificio salvando quell'uomo amato da tutti, tranne che da se stesso.
«Thomas amava Ikaros... voleva chiederti di crearne uno tutto per lui per il suo compleanno...»
La voce di Elijah Griffiths si propagò dall'altro capo dello studio, roca e affaticata nonostante si fosse appena cibato dei due domestici. Doveva essere ancora debilitato dalla ferita allo sterno. Non sembrava essersi accorto della presenza del cacciatore, che approfittò di nuovo del canto di Ikaros per liberare la pistola dalla fondina.
«Falla finita, Elijah. Uccidimi e lascia andare la mia gente─»
Arthur Coleman era sull'orlo delle lacrime: le sue parole, intrise di impotenza e rabbia, tremavano come le finestre nei telai a ogni raffica di vento.
«Thomas è stato ammazzato senza un briciolo di pietà e tu, che hai strappato la vita a un bambino, getti via la tua in questo modo, senza neanche provare a combattere? Mi prendi in giro, Arthur!»
«Hai dilaniato Alcor East, ucciso a sangue freddo i miei ultimi amici... e persino un ragazzo che non c'entrava niente─»
«Ho cercato di salvarlo ben due volte in tutta la sua vita!»
«Cosa... cosa stai dicendo, Elijah?»
Victoir scivolò dentro l'anticamera, mirò al morrwen di spalle e sparò una raffica di colpi fino a svuotare il caricatore. Ogni esplosione coincise con un suo passo avanti e l'inarcarsi sempre più accentuato della schiena del ricercato, troppo colto alla sprovvista per reagire se non con esclamazioni di dolore. La spada gli sfuggì di mano e finì a terra con un clangore metallico, lasciandolo disarmato.
Quando i fori sulla sua giacca furono abbastanza da sembrare una costellazione sanguinante e il cinguettio di Ikaros divenne acuto come le corde d'un violino, il morrwen ruotò di scatto la testa e incontrò con occhi fiammeggianti quelli glaciali del cacciatore.
«Sei ancora vivo?» ringhiò, ancora scosso da fremiti che facevano sembrare il suo corpo un meccanismo inceppato.
Victoir gli sorrise di rimando. «Mi ha tolto le parole di bocca.» ribatté, e con uno slancio lo caricò violentemente, spingendolo verso l'esterno.
L'impatto con la portafinestra frantumò il vetro e il mezzo vampiro, usando il nemico stordito come scudo umano, atterrò sul manto bianco che copriva il balcone in una pioggia di schegge taglienti. Fece perno sui gomiti per rialzarsi e piantò un ginocchio nel diaframma del morrwen, che buttò fuori un gemito assieme a tutto il fiato contenuto nei polmoni.
Cercò con lo sguardo il giudice, attonito dietro la scrivania. «Via!» gli ordinò, ricevendo in risposta un titubante cenno di diniego. «Vattene via, stupido vecchio!»
Elijah Griffiths tornò a pretendere le sue attenzioni: gli strappò la pistola di mano e lo colpì in volto con un gancio duro come la pietra, poi l'afferrò per il bavero della camicia e con un movimento deciso lo strattonò verso il basso, invertendo le loro posizioni. Victoir si ritrovò schiacciato a terra, con la nuca pizzicata dalla neve e la canna bollente della semiautomatica a pochi centimetri dalla fronte sudata, ma con prontezza ghermì il braccio del nemico e lo torse all'indietro. Un disturbante crocchiare di ossa, un grido di dolore e il tonfo sordo della pistola che cadeva sulla neve gli assegnarono un punto.
La furia del ricercato era però ben lontana dall'estinguersi.
Victoir digrignò i denti quando una mano si infiltrò nella selva corvina dei suoi capelli e strinse fino a conficcare le unghie nel cuoio capelluto. Senza dargli il tempo di reagire, Elijah sollevò la sua testa e la sbatté a terra con tanta forza da disorientarlo. Una, due, tre volte... il morrwen sembrava instancabile tanto quanto i suoi contorni, che dopo essersi sdoppiati si triplicarono.
Nella breve pausa tra il quarto e il quinto colpo, la sagoma ─ o meglio, le tre sagome ─ di Arthur Coleman si affacciò su quella del morrwen, torreggiando con un bastone da passeggio stretto tra le braccia sollevate. Il suo viso era sgombro di rughe e fermo di determinazione come il ragazzo non lo aveva mai visto. Con tutta la forza di cui era capace abbatté l'arma improvvisata sul capo dell'assassino, che addentò l'aria e si accartocciò come un foglio bruciato sul petto del mezzo vampiro. Il bastone si spezzò in due e la metà superiore rimbalzò al contatto con la neve, rotolando via.
Il silenzio tornò a dominare la scena, rotto solo dal fiato ansante del cacciatore e del ricercato, e sembrava quasi presagire la fine dello scontro. Ma proprio mentre il mondo smetteva di girare intorno a Victoir, il respiro di Elijah tornò a farsi esagitato, febbrile, e la sua voce vibrò di rabbia contro il gilet del ragazzo.
«Arthur...» il morrwen scandì ciascuna lettera di quel fatidico nome come se fosse stata una sentenza di morte.
Victoir sbarrò gli occhi: stavolta non gli avrebbe dato il tempo di usare i suoi poteri. Con il nemico addosso non aveva accesso ai pugnali allacciati alle gambe, così tastò i dintorni scivolosi di neve e sangue finché non riconobbe tra le dita la forma di una scheggia di vetro lunga e sottile. La impugnò come se fosse stata una misericordia, mentre Elijah raddrizzava la schiena e si preparava a scagliare fino all'ultima goccia del suo potere contro il giudice.
Coordinati come una coppia di ballerini, il morrwen reclinò la testa nell'esatto momento in cui il cacciatore tracciò un arco che rifletté la luce dell'incendio. La punta della scheggia tagliò l'aria e affondò nel tessuto molle dell'occhio sinistro come un coltello nel burro.
Il ricercato buttò fuori un grido simile a quello di una bestia al macello.
Si agitò convulsamente per svincolarsi, ma Victoir lo agguantò per i capelli e il giudice per le braccia. Insieme lo tennero fermo il tempo necessario perché, tra gli spasmi, la lama si aprisse una strada attraverso tutto il bulbo oculare fino all'organo responsabile dei poteri del morrwen.
Fiotti di sangue caldo si mescolarono a lacrime sul volto esangue di Elijah, riversandosi come pioggia densa e appiccicosa su Victoir. Lui però non esitò, non vacillò, non si fermò finché non sentì le convulsioni placarsi e la preda acquietarsi con la placidità di un bambino.
Di nuovo silenzio, persino Ikaros aveva smesso di cantare.
Passò quasi un minuto senza un accenno di un movimento, sessanta secondi che pizzicavano la pelle come la cenere che ingrigiva l'aria.
Victoir guardò il giudice e questi guardò lui, senza che nessuno conoscesse la risposta alla fatidica domanda: ce l'aveva fatta?
Lentamente, il cacciatore mise fine a quello stillicidio ritirando la mano imbrattata di sangue e, con essa, il vetro dal buco nero e maciullato della cavità oculare.
Non rimasero che un'improvvisa e sinistra pace che pareva serbare altri orrori, lo sfondo rosseggiante di un incendio ─ che in maniera profetica cominciava a ritirarsi ─, il sapore acre del fumo e quello ferroso del sangue che avvelenavano la gola. Una cornucopia di stimoli sensoriali su cui i tre attori sciolsero il nodo di braccia, smettendo di essere una legione per tornare a essere il cacciatore Victoir Evans, il giudice Arthur Coleman e il dottor Elijah Griffiths.
Con l'ipnotica lentezza delle foglie che cadono, finalmente il morrwen si sbilanciò verso sinistra e afflosciò sulla neve imporporata.
Victoir si riempì i polmoni con tutta l'aria che riuscì a catturare: la tempesta era finita.
Come accadeva alla fine di ogni missione avvertì un senso di liberazione pervadergli il petto, per la prima volta però non dovuto al pensiero di aver portato a casa un altro successo. Non era infatti riuscito a salvare Martha e John, per non parlare della promessa di difendere tutta Alcor East... tuttavia aveva protetto Arthur Coleman, l'alfiere di una forma mentis dissonante in un Overworld che marciava al ritmo dettato dalla Black Court. E questo lo rendeva fiero.
Tra un respiro e l'altro fece scivolare gli occhi appannati dal cielo ─ avrebbe potuto giurare di aver colto una singola stella tra le lunghe dita di fumo ─, verso l'uomo senza cui non sarebbe mai riuscito a sconfiggere Elijah Griffiths.
La sua mano nodosa lo raggiunse prima che Victoir potesse incontrarne le iridi verdi.
«Comunque questo stupido vecchio ha solo quarant'anni.» lo rimbeccò, scherzoso. «Ragazzino.»
Il cacciatore sorrise e si lasciò aiutare a rimettersi in piedi, per poi rivolgere lo sguardo all'assassino ancora vivo, alla deriva in un lago di sangue che si allargava sotto di lui come due grandi ali di angelo. Poteva essere coriaceo quanto un vampiro e più resistente agli sforzi di qualunque altro morrwen, ma tutte le ferite accusate lo avrebbero presto o tardi ucciso. Ora che i suoi poteri erano evaporati, per Elijah Griffiths era definitivamente finita.
Nonostante tutto appariva placido come se la bestia fosse stata messa in gabbia, o come se quelle divorate fossero state le sue, di emozioni. Per un momento Victoir ebbe l'agghiacciante sospetto di avergli provocato dei danni cerebrali, come certi medici scellerati che da alcuni anni stavano sviluppando un metodo per sedare i pazienti trafiggendone il cervello. Poi però le lacrime ripresero a scorrere dall'unico occhio rimasto al morrwen, mentre un singhiozzo prorompeva dalle sue labbra perdendosi nel vento.
«Mi dispiace, Tommy...» mormorò a vuoto Elijah, come se il cielo fosse stato suo figlio. «Devi avere... così tanta paura di quel che sono diventato...»
Victoir udì un singulto al suo fianco. Squadrò sottecchi il viso contratto del giudice: per quanto si fosse sforzato di fare ciò che andava fatto, doveva essere ancora divorato dai sensi di colpa. Lui invece non sentiva niente, se non un vago moto di pietà che decise di non reprimere; dopotutto, mostrarsi gentile o premuroso era l'unico modo che conosceva per preservare i propri legami pur non sapendo empatizzare.
«Non è vero.» affermò, risoluto. «Anche se ha commesso migliaia di errori, lei sarà sempre il suo papà.»
Le labbra di Elijah tremarono, infine si piegarono in un sorriso.
Il giudice chiuse una mano intorno alla spalla destra di Victoir, un gesto che il ragazzo sapeva essere un modo per esprimere orgoglio. Non ebbe bisogno di dire niente, per sentirsi bene gli bastava la sensazione del calore umano che si diffondeva attraverso la stoffa della camicia.
«Victoir.» lo chiamò il dottore. «Prima... mi hai fatto una domanda.»
Victoir annuì. «Sì. Le ho chiesto se fosse stato lei a rendermi ciò che sono.»
Stavolta era calmo, serafico; il cuore non batteva più furiosamente e la pelle non era percorsa dalla fiamma dell'agitazione. Avrebbe accolto qualunque risposta Elijah avesse voluto dargli con l'impassibilità che lo caratterizzava, e se anche non l'avesse avuta sarebbe andato avanti come fatto finora.
Lorraine aveva avuto ragione sin dall'inizio: l'anomalia che infestava il suo spettro emotivo era importante e invalidante, ma non gli avrebbe impedito di vivere al meglio la sua vita. Dopotutto era circondato da amore... ed era giunto il momento di smettere di flagellarsi, aprire la porta agli altri e lasciarsi amare ricambiando come meglio poteva.
Il ricercato chiuse serenamente gli occhi. «No, non sono stato io. Il motivo per cui mi trovavo lì, quella notte... è che avevo percepito la presenza di un altro morrwen... e lo stavo cercando. Ma quando ti ho visto... ho capito che ero arrivato tardi. Ti stava già divorando, forse da molto tempo...»
«Un morrwen... mi stava divorando da tempo?» il mezzo vampiro cercò aiuto nel giudice, che però ricambiò la sua confusione con altrettanta incertezza facendo spallucce.
«Sì.» riprese Elijah, la sua voce ormai ridotta a un sibilo. «E credo abbia continuato a farlo... mi dispiace di non─» tossì violentemente. «di non essere riuscito a salvarti, Victoir.»
Victoir scosse la testa. «Ma io sono salvo, e ora ho la risposta che mi serviva. La ringrazio, dottor Griffiths.»
Sapeva che non c'era niente di giusto nel ringraziare qualcuno colpevole di innumerevoli omicidi, ma decise comunque di congedarlo da quel mondo con un ultimo gesto di umanità.
Il silenzio calò su Alcor East, sul giudice, sul cacciatore e su Elijah Griffiths, dichiarando che quel giorno non ci sarebbe stato nessun vincitore, solo vittime e sopravvissuti.
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