CH. XI

«Sei impazzito?»

Victoir sapeva riconoscere dei guai in arrivo, e quelli graniticamente scolpiti sul volto esangue di Alaric erano proprio guai. La domanda, seppure retorica, era in qualche modo seria: il pensiero che Arthur Coleman si fosse alleato con Elijah Griffiths era così irrazionale da stridere con la realtà. Un giudice in combutta con una creatura che la legge della Black Court voleva morta era troppo persino per una persona dalle larghe vedute come il burbero amministratore di Alcor East. Un po' come dire che leoni e gazzelle potessero essere amici.

Ma il mercenario lo trafisse con un'occhiata rovente, risoluto nel suo esulare da ogni logica. «Non è il momento di scherzare, sono maledettamente serio.»

Un silenzio inquieto calò sul trio, in un susseguirsi di sguardi che si intrecciavano e subito scioglievano. Nessuno sembrava disposto a farsi carico di ravvivare la discussione: non Alaric, che si strofinava febbrilmente entrambe le braccia come in cerca di calore, non Lorraine, il cui volto era una maschera di incrollabile concentrazione, né Victoir, che dentro di sé continuava a negare con ostinazione qualunque coinvolgimento del giudice Coleman nella spirale di sangue che da mesi imporporava i suoi incubi.

A un passo dall'ingoiare l'aria secca e dire qualcosa - qualunque cosa - pur di rompere quella stasi, Victoir si trovò a dischiudere e immediatamente richiudere le labbra quando, al suo fianco, Lorraine emise un sussulto.

«Sono le mani!» disse, indagando con espressione improvvisamente sgomenta la figura del mercenario come se avesse avuto un'illuminazione. «Tu sei un medium!»

Quasi gli avesse letto nel pensiero, l'assistente reclinò la testa scontrandosi con la confusione del cacciatore.

«Ha qualche potere legato alle mani, è per questo che indossa sempre i guanti!»

Neanche l'assoluta sicurezza sul suo volto però persuase del tutto Victoir. Le nozioni in suo possesso sui medium erano, come per numerosi aspetti dell'Overworld, basilari: esseri umani dotati di sensi straordinari, talvolta capaci di percepire ciò che per natura avrebbero dovuto ignorare.

Ma se anche fosse stato vero, se Alaric fosse stato un medium, la grave accusa ai danni del giudice Coleman non assumeva comunque credibilità. O almeno, Victoir voleva illudersene.

La deduzione di Lorraine sembrava aver privato Alaric della capacità di guardarli in faccia; se ne stava immobile come una statua davanti al parapetto dello scalone, le mani incriminate immobili sugli avambracci che fino a pochi momenti prima avevano sfregato con foga. A giudicare dalle sue condizioni, qualunque effetto gli causasse quel potere non doveva essere piacevole.

Victoir riuscì a distinguere l'emozione sul suo viso con una facilità che riscontrava di rado: era senso di colpa.

«Io... vivo il passato di oggetti o persone toccandole.» confessò con un filo di voce il mercenario.

Lorraine si portò una mano al mento. «Vedi il passato?»

«Non lo vedo, lo vivo.» Alaric scandì quella parola come se fosse stata essenziale. «Come se io fossi ciò che sto toccando... anche quando è una diavoleria meccanica.»

Dunque era vero: Alaric era un medium capace di rivivere il passato attraverso il tocco. Col senno di poi era tanto ovvio da rasentare il ridicolo, ma non averlo capito prima era l'ultima delle preoccupazioni di Victoir.

Fece un passo avanti, avvicinandosi all'altro. «Perché non me l'hai detto?»

Forse era egoista da parte sua concentrarsi su quell'informazione, ma la verità l'aveva colpito con la forza di uno schiaffo. Pensava che la lunga chiacchierata della settimana precedente avesse cambiato qualcosa tra loro. Si era sforzato di mostrare il suo lato più vulnerabile e si era cullato nella rassicurante sensazione di essere capito. Forse però aveva sbagliato a socchiudere il proprio guscio.

Con una punta di rancore, si augurò che Alaric leggesse i suoi pensieri anche in quel momento.

A giudicare dalla rapidità con cui sfuggì al suo sguardo, sembrò di sì.

«Perché non mi piace ciò che sono.» tentò labilmente di giustificarsi Alaric, ma Victoir scosse con decisione la testa.

«Neanche a me piace ciò che sono, ma sono stato onesto con te. Pensavo che...» la voce gli morì in gola, travolta dalla delusione. «... che avresti collaborato, per il bene della missione.»

Non era vero e Alaric doveva saperlo: pensava di aver trovato qualcuno di cui fidarsi e invece lui gli aveva nascosto un'informazione dall'importanza cruciale. Il velo di malinconia che gli avvolgeva le spalle divenne più stretto e freddo.

«È per il bene della missione che vi sto dicendo che il giudice Coleman─»

«È per questo che hanno scelto te...» lo interruppe Lorraine, continuando la sua catena di deduzioni che pitturavano uno scenario sempre più preoccupante; gli occhi nocciola furono ridotti alla forma di spilli avvelenati dalla diffidenza. «Speravano di rubare informazioni utili alla Black Court attraverso di te. Anzi, attraverso noi due...»

Ad Alaric non rimase che il silenzio, poi un sospiro afflitto. «Sì, probabilmente sì─»

Le mani di Victoir lo interruppero una seconda volta, stringendosi attorno al bavero della sua camicia e spingendolo contro la balaustra. A nulla valse la voce accorata di Lorraine che chiamava il suo nome, né il panico che serrò la mascella di Alaric: i movimenti di Victoir erano fulminei, incontrastabili e, soprattutto, dettati da un'emotività che sfuggiva al suo controllo.

«Victoir, no!» ripeté Lorraine. «Non fare pazzie!»

Le dita del mercenario si chiusero come artigli adunchi intorno alla ringhiera, bilanciando il corpo che sporgeva pericolosamente verso il vuoto; quelle dell'assistente invece si insinuarono tra le pieghe della giacca del mezzo vampiro, cercando invano di trattenerlo.

«Io mi sono fidato di te! Sapevo sin dall'inizio che ci avresti spiati, ma questo? Rubare informazioni alla Black Court attraverso di noi? Hai idea di cosa ci farebbero se una cosa del genere accadesse?» ringhiò il cacciatore senza preoccuparsi di mostrare i denti appuntiti.

Alaric annaspò alla ricerca di una stabilità sempre più precaria; tentò di dire qualcosa, ma a parlare furono solo i suoi occhi sofferenti, consapevoli che per suscitare la pietà di Victoir non sarebbe bastato così poco.

Il cacciatore, infatti, incalzò di nuovo, stavolta con un timbro basso e minaccioso accompagnato da un inasprirsi dello sguardo ferino. «Puoi vivere il passato della gente toccandola? E allora toccami, codardo, capirai quanto mi è costato fidarmi di te.»

La scena parve rallentare fino a confondersi con l'imperturbabile immobilità di palazzo Coleman. Col fiato corto che si infrangeva contro la presa salda di Victoir, Alaric dovette capire di non avere scelta se voleva sopravvivere alla furia di una creatura dell'Overworld. Perché questo era ciò che Victoir sentiva di essere in quel momento: un mostro. Un mostro a cui la Black Court non avrebbe di certo affidato i suoi segreti, ma che di scheletri nell'armadio da condividere col traditore ne aveva un paio.

Le mani titubanti del medium si sollevarono a mezz'aria, aperte come in un gesto istintivo di mostrarsi inoffensivo, e scosse da lievi tremiti andarono a posarsi con delicatezza su quelle sbiancate di Victoir.

Le iridi verdi furono ingoiate dal nero delle pupille, come se Alaric fosse precipitato in un abisso.


«Non c'è dubbio: il soggetto è nato con un secondo marchio, ma senza progenitore.»

Alaric sbatte le palpebre fino a mettere a fuoco la scena: un uomo spaventosamente grande incombe su di lui, squadrandolo attraverso un monocolo con l'occhio clinico che si riserverebbe a un organismo divorato da un parassita. Sbatte ancora le ciglia e, ora lucido, finalmente capisce: non è l'uomo a essere un gigante, è lui a essere piccolo. Non è più Alaric, adesso è Victoir.

«Personalmente non ho mai visto niente del genere, ma è già capitato in passato. La Black Court sa come gestire questo tipo di anomalia.»

Anomalia, una parola nuova. Victoir non sa ancora cosa vuol dire, ma non ha un bel suono e pensa che lo accompagnerà per tutta la vita. Non vuole essere chiamato "anomalia". Lui è Victoir, solo Victoir.

O forse no?

*

Un altro battito di palpebre e la scena cambia. Ora è all'interno di una casa, e non una qualunque: è casa Evans, a Manhattan.

Victoir sta scendendo le scale con passo felpato, ancora abbastanza minuto per mescolarsi alle ombre della notte che si disperdono solo in prossimità di due persone strette l'una all'altra in soggiorno: una donna bionda e un uomo identico a lui. Mamy e papy.

«È colpa mia se Victoir deve sopportare tutto questo... sono stata egoista, ho pensato a me stessa e non ai miei figli...»

Mamy singhiozza, piange e trema tra le braccia di papy. Victoir vorrebbe uscire dal suo nascondiglio e abbracciarla, dirle che va tutto bene e che lui non sopporta proprio niente. Ma non può, perché da quando sono tornati dalla nave nel cielo mamy sembra triste ogni volta che lo guarda.

«Tesoro, quel che dici non ha senso... nessuno poteva prevedere che sarebbe nato così.» la voce di papy è calma e rassicurante, ma neanche le sue coccole riescono a calmarla.

«Avrei dovuto pensarci!» mamy sbotta, alza la testa verso papy e scoppia di nuovo in lacrime. «Avrei dovuto pensarci... e invece ho condannato il mio bambino a una vita in catene...»

*

C'è troppa luce per gli occhi delicati di Victoir. Un signore con una lunga tunica della nave nel cielo gli ha detto di godersela finché può, perché un giorno, quando l'avrà persa per sempre, la bramerà più di ogni altra cosa. Victoir non ha capito, ma a lui la luce continua a non piacere.

Cerca di farsi ombra con una mano mentre attraversa il soggiorno, il suo obiettivo è la torta di zucca in cucina. È una giornata soleggiata, ma lui non si unirà al tea party di sua sorella. La invidia tanto: è sempre così vivace e sorridente, ha tantissime amiche e non gioca mai da sola. Victoir invece non ha amici, i suoi compagni di scuola dicono che è strano e solo mamy, papy e la sorellona sono disposti a giocare con lui.

Uno strano verso lo interrompe a metà stanza. Victoir si volta, notando una delle amiche di sua sorella che lo fissa attraverso la porta che dà sul cortile. La conosce: è Elizabeth Hall, ha dodici anni e i capelli rossi sempre intrecciati con cura, tantissime lentiggini e... le labbra strette in una smorfia?

«Che paura, c'è faccia da morto!» esclama con voce tanto acuta da fargli male alle orecchie, guardando poi la sua sorellona. «Mandalo via!»

Victoir non se lo fa ripetere due volte: non vuole rovinare il tea party. Così va via a testa bassa, mentre alle sue spalle sua sorella strilla contro l'ospite di andarsene e non chiamarlo mai più "faccia da morto".

*

C'è tanto buio nella vita di Victoir, ma non tutto il male viene per nuocere: la luce brilla più forte nelle tenebre. A brillare allo stesso modo è un sorriso un po' timido ma sincero, rivoltogli dal bambino che gli tende la mano. È più grande di lui, forse dell'età della sorellona, e il fatto che abbia capelli biondi come mamy e occhi celesti come papy glielo rende istintivamente gradevole alla vista.

«Io sono Wyatt Finch. Tu come ti chiami?»

Victoir sa di trovarsi davanti a un bambino dell'Overworld, ma ciò non rende meno strano che gli rivolga la parola così tranquillamente. Osserva con curiosità la sua mano ancora protesa, incerto se stringerla o no.

«Non ti faccio paura?» domanda dopo un po'.

Wyatt sta in silenzio, lo squadra come se gli avesse fatto una di quelle domande a trabocchetto che la maestra di matematica fa sempre, infine ridacchia. «Tu non fai affatto paura.»

*

"Faccia da morto" è diventato il soprannome per Victoir nel mondo di sotto, allo stesso modo in cui "anomalia" lo è nell'Overworld. Sono davvero brutti, ma purtroppo non può farci niente. Crescendo, ha capito che la mamy aveva ragione a usare la parola sopportare.

La maestra gli sorride mentre lui le porge il compito in classe: un tema sul migliore amico, lui ha scelto Wyatt. Naturalmente non può parlare del fatto che sia un bambino selezionato per diventare un vampiro, ma può raccontare come stiano sempre insieme nei weekend passati nella casa di campagna fuori New York, vicino alla residenza dei Finch.

Il giorno dopo, la maestra riconsegna i compiti coi voti. Mamy e papy saranno felicissimi del suo risultato, non vede l'ora di tornare a casa e dirglielo. Ma la giornata è ancora lunga e la maestra, dopo essersi seduta alla cattedra, lo guarda.

«Ma nessuno ha descritto Victoir!» annuncia, non è niente di sorprendente. «Quindi lo descriverò io. Allora, Victoir è un bambino molto educato, non disturba mai e mi porta spesso una mela. È poco alto e tanto magro, sembra un po' una bambola di porcellana. Ha i capelli neri e tantissimi ricci, devono essere molto morbidi da toccare!»

Victoir abbassa la testa, sentendosi in imbarazzo come gli accade di rado; non ha il coraggio di dire che quando gli toccano i capelli si addormenta.

«Poi ha bellissimi occhi azzurri, sotto il sinistro ha un piccolo neo e─»

Un urlo gli perfora i timpani: «E la faccia da morto!»

Un attimo dopo è il caos. Risate, grida e un coro che non tarda a levarsi e accomuna tutte le voci, a eccezione di quella della maestra che tenta disperatamente di richiamare i bambini all'ordine: faccia da morto, faccia da morto, faccia da morto...

Victoir si copre le orecchie doloranti e scoppia a piangere.

*

«Anche a te hanno dato questo compito?»

Wyatt strabuzza gli occhi e spicca un balzo per tornare coi piedi per terra. Sembra molto emozionato, troppo per andare avanti col racconto di quel che è successo a scuola. Victoir stringe le corde dell'altalena e si ferma, aspettando di capire.

«Perché, ecco...» un tenue rossore si fa spazio sulle guance pallide del futuro vampiro. «Io ho descritto te! Vuoi leggerlo?»

Le emozioni sono un argomento ancora troppo complesso per un bambino, ma Victoir sa che è colpa loro se di punto in bianco sente il volto bagnato. Non ne comprende il motivo, ma sta piangendo di nuovo.

Wyatt si spaventa, tutta la sua gioia spazzata via in un attimo, e in uno slancio gli cinge il volto con le mani delicate, chiedendogli cos'è successo. Victoir non sa rispondere, forse non vuole, e così si ritrova stretto tra le braccia del suo unico amico, la sua seconda casa.

*

Passano gli anni, ma il suo mondo continua a essere buio.

Mamy e papy le hanno provate tutte per farlo socializzare, ma qualunque contesto sembra rifiutarlo o creargli troppo disagio per ambientarsi. Così, dopo il fallimentare aiuto nella compagnia teatrale di cui sua sorella sta diventando la star indiscussa, Victoir si è arreso al lento scorrere dei giorni tra scuola e casa, senza alcuna passione a vivacizzare l'inedia in cui si sente affondare.

Dalla finestra della sua camera da letto ha una vista privilegiata sull'Ottantesima: l'Upper East Side non dorme mai, eppure vive un sogno perpetuo.

Come quasi ogni sera, la ragazza bionda bella come il sole sale in carrozza con la grazia di una fata. In realtà Victoir non ha mai visto una fata, ma per come gliele ha descritte papy si è fatto un'immagine mentale molto fedele a ciò che i suoi occhi seguono con attenzione. La distanza non gli impedisce di notare la possessività della stretta del suo accompagnatore sulla piccola mano delicata, ma neanche volendo potrebbe intervenire.

Non importa cosa il suo cuore cerchi debolmente di suggerirgli, lui non lo può ascoltare.

La ragazza bionda bella come il sole continuerà a splendere, ma non per lui.

Il suo posto è un mondo buio, e forse comincia a capire a cosa si riferisse il giudice della Black Court.

*

La luce negli occhi di Wyatt divampa con una forza che lo spaventa.

Da quando ha deciso di mirare alla rischiosa carriera di giudice della Black Court, l'erede del clan Finch si sta facendo dei nemici potenti. Victoir non ha mai provato una paura tanto folle di perdere qualcuno: ma cosa può fare uno come lui? Ancora una volta, il suo destino è già scritto da altri: al compimento dei diciotto anni entrerà nei ranghi della Black Court per essere controllato, poi, coi ventuno, scoccherà la sua ora.

Vorrebbe fare qualcosa per Wyatt, non c'è niente che desideri di più.

Ma il libero arbitrio è qualcosa a cui non è abituato, che lo spaventa.

Non più sull'altalena ma nella biblioteca di casa Finch, tanto ampia da perdercisi con lo sguardo, Wyatt si staglia contro la finestra, baciato dalla luce delle stelle. Adesso è pallido, freddo e perduto nel tempo: un vampiro completo, ma per Victoir è sempre il solito Wyatt.

«Se non trovi il tuo posto nel mondo, posso creartelo io quando diverrò giudice. Anzi...» annuncia entusiasta, con uno di quei sorrisi sinceri che riserva a poche persone; si avvicina a lui, seduto a un tavolo, e con una presa energica gli stringe la mano. «Lo creeremo noi, insieme

*

La sua testa è una tempesta di nevralgie. Il corpo stanco, teso al limite dello sforzo, reclama pietà e la fine di tutto quel dolore. Ma i vampiri non sono creature caritatevoli e la mano che gli ghermisce il collo si allenta solo il necessario per farlo respirare. D'altronde, non ci sarebbe alcun divertimento se morisse subito.

«Dovresti selezionare meglio i tuoi alleati, Finch.»

Quella visita al clan Hampton non doveva finire così.

Per loro, i rampolli che un giorno governeranno l'Overworld, è solo una giocosa scaramuccia, ma per Victoir è la linea tra la vita e la morte. Wyatt è furioso, glielo legge in faccia nonostante stia facendo del suo meglio per non arrivare alle mani. Victoir lo prega con lo sguardo di non cedere: non può compromettere l'alleanza che sono venuti a cercare, anche se i loro potenziali alleati sono dei sadici bastardi.

«Allora è vero che ti scarrozzi dietro un mezzo vampiro.» continua il suo aguzzino, il divertimento visibile nella curva delle labbra e negli occhi scuri. «Se ti va posso rimediare subito.»

Paralizzato dalla paura, Victoir smette di combattere quando riconosce il biancore dei canini.

Wyatt manda al diavolo la diplomazia e scatta.

Addio alleanza col clan Hampton.

*

«Io merito quello che voglio. E quello che voglio sei tu, Victoir.»

La ragazza bionda bella come il sole tira la tenda per dargli sollievo dalla calura; Victoir non ha il tempo di assaporare il sollievo che se la ritrova vicina. Troppo vicina. I suoi riflessi fulminei agiscono ancor prima che l'intento di baciarlo diventi palese.

Scatta in piedi, i passi innaturalmente goffi per una creatura felina come lui, la schiena dritta e le mani alzate come se si fosse scottato. Lei rimane paralizzata. Si fissano. Ancor prima che lui mormori un tenue "no", legge già sul suo volto rabbia, delusione e disperazione, emozioni che gli sono tristemente familiari.

«Non posso.» cerca di farfugliare. «Lo sai che non posso. Io... devo andarmene.»

Lei si riscuote e scende in fretta e furia dal davanzale. «No! Aspetta, Victoir─!»

Ma lui non torna né sui suoi passi né sulle sue decisioni.

Non può continuare a vivere così, a essere un peso per Wyatt e un pericolo per lei.

Mentre si precipita fuori dalla stanza, Victoir prende una decisione che cambierà la sua vita: andrà alla Black Court, anche se ha ancora solo diciassette anni, e prenderà servizio. Accetterà qualunque incarico, anche qualcosa di pericoloso come il cacciatore. In questo modo si fortificherà nel corpo, diventerà la spada di Wyatt e metterà un oceano intero tra sé e lei. La costringerà ad andare avanti, a dimenticarlo.

Questa è la sua decisione.

*

La Black Court è un labirinto di macchinari troppo all'avanguardia per una persona semplice come lui, ma nessun luogo è suggestivo quanto la biblioteca: interminabili torri di librerie disposte su decine di piani collegati da ascensori, non basterebbe una vita intera per leggere ogni volume.

Victoir non ama usare gli ascensori, c'è sempre almeno un'altra persona e lui vuole stare da solo; così opta per le scale a chiocciola, un'alternativa per chi ha gambe allenate.

È mentre termina l'ultimo giro che la vede per la prima volta: appoggiata alla balaustra in ottone lucido, i lunghi capelli bruni raccolti in una coda di cavallo e un libro di dimensioni bibliche tra le mani. Sentendolo arrivare, la ragazza leva lo sguardo dalle pagine e lo guarda attraverso due lenti tonde. Gli sorride senza alcun motivo.

Quella è Lorraine Winchester, da oggi sarà la sua assistente.

*

Nel tribunale buio, Victoir non è solo. Davanti a lui si trova un tavolo lungo e spoglio, al quale siedono due giudici e un rappresentante dei clan. Tra questi c'è Marianne Fitzgerald, l'unica a guardarlo con una parvenza di umanità negli occhi chiari, ma anche l'unica a non aver avuto possibilità di aprire bocca durante tutta la riunione.

«Questo è tutto per la tua missione, cacciatore Evans.» dice il giudice seduto al centro, così vecchio da biascicare quando parla.

Victoir è ufficialmente un cacciatore della Black Court da appena un mese, ma ha già capito come funziona lì dentro: più ti avvicini all'età dei dinosauri, più sei in alto nella gerarchia. Wyatt ne avrà di strada da fare prima di sedere a quel tavolo.

China rispettosamente la testa e fa per levare il disturbo, ma qualcosa lo ferma: la sua stessa voce.

«Se mi è concesso, giudice Hoffmann...» la ragnatela di rughe che si forma sul volto del dinosauro gli suggerisce che no, non gli è concesso, ma ormai il danno è fatto. «Perché anche i figli? Non basterebbe arrestare il padre? Non sarebbe meglio evitare di distruggere un'intera famigl─»

Il senso d'allarme nello sguardo del giudice Fitzgerald lo zittisce.

Victoir si sente al centro di una tempesta di sguardi che, se potessero, lo ucciderebbero più che volentieri.

A rispondergli non è il giudice Hoffmann, ma il vampiro del clan dei Ranieri. Con una rapidità tre volte superiore alla sua scatta in piedi, sovrastandolo fisicamente e moralmente, con l'espressione sprezzante di chi ha troppo potere.

«Ragazzino, non ti è stato chiesto di capire, solo di obbedire.»


Quando il verde tornò a diffondersi negli occhi assenti del medium, Victoir fu certo che avesse finito di guardargli dentro. Aveva ottenuto quello che voleva: uno spiraglio sulla mente di un agente della Black Court, ma la visione doveva essere stata lunga e sofferta a giudicare dai dieci secondi passati a fissare un punto indefinito prima di cominciare a lacrimare.

Appena tornato padrone di se stesso, la prima cosa che Alaric fece fu ristabilire il contatto visivo col mezzo vampiro, che nel frattempo non si era mosso di un centimetro e continuava a fissarlo truce. Persino Lorraine sembrava trattenere il fiato in attesa della svolta decisiva, le mani ancora serrate sulle braccia di Victoir e pronte ad agire se la situazione fosse di nuovo precipitata.

A rompere la stasi fu Alaric, mormorando un soffocato «Mi dispiace.» col fiato che gli tremava non solo per il freddo.

Victoir non si lasciò però impietosire: i vampiri non erano creature caritatevoli, l'inclemenza dei suoi simili l'aveva sperimentata sulla pelle e in parte gli scorreva sotto di essa. Non sapeva quali ricordi fossero stati scandagliati dai poteri di Alaric - non aveva infatti percepito niente di irregolare durante la visione -, ma un semplice "mi dispiace" non sarebbe di certo bastato a sedare la rabbia che gli serpeggiava lungo le braccia.

Il volto cereo del medium ricominciò ad assumere colore, e con esso una granitica determinazione che si scontrò col silenzio. «Dammi una seconda possibilità.»

Victoir inarcò un sopracciglio con sprezzo. «Perché dovrei?»

«Perché ho capito.» ribatté prontamente Alaric, interrompendosi per riformulare in maniera più chiara. «Solo ora ho capito di aver sprecato un'occasione. Mi sono sbagliato sul tuo conto, mi dispiace.»

Quelle erano le ultime parole che si aspettava.

Colto alla sprovvista, Victoir si accigliò e squadrò prima il mercenario e poi l'assistente, senza però trovare in loro niente che gli suggerisse cosa rispondere. L'irritazione tentennò abbastanza da affievolirsi e perdere mordente, lasciandolo a fare i conti con una disorientante quanto implacabile sensazione di apatia. In un battito di ciglia fu di nuovo un guscio vuoto; il tentativo di far capire ad Alaric quanto quel tradimento l'avesse ferito adesso sembrava lo stupido capriccio di un bambino.

Lasciò andare la preda e arretrò, sentendo Lorraine al suo fianco tirare un sospiro di sollievo.

«Allora, Alaric...» la ragazza si mise fisicamente tra loro, dando le spalle al collega. «Riparleremo del tuo secondo fine in un momento più consono, una cosa per volta. Adesso spiegaci perché pensi che gli unici a non fare il doppio gioco qui siamo io e Victoir.»

Alaric tentò di sbirciare nella sua direzione aggirando la piccola figura di Lorraine, ma Victoir si rifiutò di concedergli un altro granello della propria attenzione. Dardeggiò con lo sguardo sul corridoio infiammato dai colori del tramonto, chiedendosi quante altre delusioni avrebbe dovuto somatizzare quel giorno.

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