CH. VII

«E tu hai accettato?»

«Per la precisione gli ho detto di accomodarsi.»

Lorraine non sembrava affatto contenta di quella decisione, ma sul suo viso ─ dal quale ogni traccia di sonnolenza si era dissolta già sulle prime note del resoconto della discussione col giudice ─ Victoir non riconobbe nessuno dei segni associabili alla rabbia. Confortato da questo pensiero, si permise di rilassare un po' i muscoli indolenziti dalle lunghe ore passate seduto sul pavimento davanti allo studio del giudice Coleman.

«Victoir, senti...» Lorraine distolse lo sguardo dal corrimano a cui si era appoggiata mentre salivano le scale, spaziando fino all'altro capo del corridoio inondato dalla luce tiepida della prima mattina. «Non fraintendermi: apprezzo che tu sia riuscito a persuadere il giudice a collaborare, sei stato davvero bravissimo. Solo... sono molto preoccupata per te, non è necessario che ti immoli per la causa fino a questo punto.»

Victoir le scoccò un'occhiata torva, inasprita da un temperamento orgoglioso che non ammetteva che altri si preoccupassero per lui. «Non penso di starlo facendo. In fondo, che ho da perdere?»

Erano serviti venti minuti perché il giudice Coleman rintracciasse e chiedesse a Martha di rassettare le camere per gli ospiti, tre quarti d'ora alla povera vecchia per eseguire gli ordini e altri dieci minuti affinché Victoir e Lorraine le trovassero nonostante le indicazioni ricevute. Ci sarebbero voluti giorni per memorizzare la pianta del castello, e più ci pensava, più Victoir rimaneva sbalordito da come il velo di invisibilità riuscisse a celare qualcosa che persino il buio della notte faticava a contenere. L'architettura magica della Black Court non aveva eguali nell'Overworld.

Le due stanze in fondo al corridoio, l'una di fronte all'altra, li attendevano contrassegnate dalle porte socchiuse. Dopo aver lanciato uno sguardo all'interno per assicurarsi di trovarvi i propri bagagli, Lorraine si fermò davanti a quella sulla destra e incontrò lo sguardo del collega senza mostrare alcun segno di irritazione per i suoi modi bruschi.

«Non fingere di aver perso la speranza di scoprire la verità.» lo redarguì placida, incrociando le braccia al petto; la luce che entrava dalla finestra le accarezzava metà volto, indurendone i lineamenti tanto da farla sembrare più matura. «Ti ho già visto soffrire per questo, ed è come se un po' del tuo amor proprio venisse ogni volta via.»

Per Victoir fu come ricevere un pugno nello stomaco, un pugno più doloroso di qualunque altro ricevuto dai vigilanti di Coleman perché artefice era una persona a cui teneva. Negare che Lorraine avesse ragione sarebbe stata un'inutile bugia, e l'utilità era uno dei pochi metri di giudizio a cui poteva appigliarsi nel prendere decisioni e relazionarsi agli altri, tuttavia... tuttavia era dura da mandare giù.

Cercò di evadere almeno con gli occhi fuori dalla finestra, dalla quale si aveva una vista pulita delle fronde dei salici lucidi di brina. I raggi brillanti del sole erano abbagliati, ma non abbastanza da dissuaderlo.

«Voglio solo capire cosa sono.» sibilò senza alcun controllo della propria voce, malinconica e supplichevole come non l'avrebbe mai voluta sentire.

«Non ti basta sapere che sei circondato da persone che ti amano indipendentemente da cosa tu sia?»

Non aveva abbastanza energia mentale per rispondere a una domanda tanto fondamentale, forse non l'avrebbe avuta mai. Le parole di Lorraine erano intrise di affetto sincero, ma Victoir non vi trovò comunque conforto. Tutte le buone intenzioni del mondo non avrebbero compensato il vuoto interiore che non riusciva a colmare, la sensazione di essere privo di qualcosa che tutti avevano e davano per scontato.

Era circondato da persone che lo amavano, ma in quella lotta era completamente solo.

Tutt'un tratto percepì la stanchezza accumulata negli ultimi giorni schiacciarlo come una pressa.

«In ogni caso ormai è fatta. Ci vediamo più tardi.» disse sottovoce.

Diede le spalle alla collega e aprì la porta cigolante, rifugiandosi nella camera come fosse stata una tana.

***

La luce del sole pomeridiano filtrava pigramente tra i rami, evidenziando l'abbondanza di neve accumulatasi durante quell'autunno anomalo in cui le temperature erano crollate a picco molto prima del solito.

Casa Coleman aveva davvero bisogno di rimpinguare la sua servitù, oppure presto o tardi sarebbe crollata come tessere di un domino. Spaziando con lo sguardo sulla distesa placida del parco, i cui confini coincidevano con le prime file di abitazioni degli umili, Victoir percepiva la sensazione di isolamento e il senso di comunità che rendevano Alcor East più simile a un piccolo regno autonomo che a una giurisdizione sotto il controllo della Black Court.

C'erano troppi punti oscuri in quella vicenda, ad esempio il motivo per cui i paesani erano così fedeli a un amministratore dell'istituzione verso cui mostravano ostilità, fortunatamente però Victoir sapeva da dove cominciare a sbrogliare la matassa. Sospirò, l'odore dei pini e del muschio che pizzicava le narici, e il suo respiro si condensò subito nel venticello che spirava da nord. Appoggiò i gomiti sulla ringhiera ruvida e si voltò in direzione della camera da letto, dando le spalle al panorama che il balcone aveva da offrire.

Si era addormentato nel momento in cui aveva poggiato la testa sul cuscino, avendo appena il tempo di rannicchiarsi sotto le coperte in cerca di calore con ancora indosso gli abiti del viaggio. A svegliarlo, passata l'ora di pranzo, erano state la fame da lupi e la sensazione di aver ricevuto una seconda martellata in testa.

La sua vacanza ad Alcor East migliorava di ora in ora.

Perlomeno era una fortuna che Arthur Coleman fosse un animale notturno: i suoi orari di veglia coincidevano alla perfezione coi momenti di maggior reattività di Victoir, che nonostante fosse mezzo umano si era sempre sentito più vivo di notte. L'unica che non ne avrebbe gioito era ovviamente Lorraine, che però sapeva essere resiliente quanto lui mordace.

Se la sarebbero cavata, forse.

Rientrò, andando a sedersi sul letto a baldacchino, un rettangolo rosso granato tanto morbido da fargli venire il mal di schiena, difetto però compensato dalla scoperta che passare i polpastrelli sui ricami della lana era inaspettatamente rilassante. Avrebbe dovuto sforzarsi di mettere un po' in ordine prima di uscire, quantomeno di scaricare i pochi effetti personali nell'armadio e il bagaglio delle armi sotto il letto, in attesa di conservarle in modo più intelligente.

Gli sarebbe dispiaciuto non alleggerire neanche un po' il carico di lavoro della povera Martha, che a tempo record aveva rimesso a nuovo due camere procurandosi persino un vaso di fiori freschi dalla provenienza misteriosa. Non si sarebbe stupito se in quella immensa proprietà ci fosse stata davvero una serra.

Avrebbe dovuto mostrare riconoscenza e sistemare le sue cose.

Già.

Peccato che odiasse riordinare.

Prima di perdere quel poco di motivazione che lo animava scattò in piedi e, sbuffando, in meno di un minuto diede una parvenza di decenza al letto. Dopodiché ripose con attenzione le armi, scoccando uno sguardo nostalgico alla povera baionetta che implorava di essere portata a spasso, e con superficialità i vestiti nell'armadio.

Fu mentre chiudeva con delicatezza l'anta che intravide l'angolo di un rettangolo bianco sul fondo della borsa, accartocciato sotto una coperta arrotolata frettolosamente. Aveva addosso un tenue residuo di profumo di lavanda e Victoir non ebbe alcuna difficoltà a riconoscerlo: lo sentiva ogni giorno addosso a Lorraine. Accigliandosi, si piegò sulle ginocchia.

«Non è possibile...»

Mollò la presa sulla lettera come se fosse stata cosparsa di acido.

Adesso il suo nome giaceva sul fondo dell'armadio, tracciato con inchiostro sbiadito in forma di lettere allungate e inclinate tipiche della calligrafia di suo padre. Quella era l'ultima di una sfilza di lettere senza risposta spedite dalla sua famiglia... e Lorraine l'aveva nascosta tra i suoi bagagli, probabilmente come memento di chi lo aspettava al di là dell'oceano.

Victoir scattò in piedi, rigido e febbrile, e sbatté l'anta con una tale veemenza da generare una tempesta di echi. I suoi piedi cominciarono spontaneamente a girovagare per la camera senza logica, in un magro tentativo di sfogare il nervosismo che gli vibrava nei muscoli come energia elettrica. Era ingiusto che le poche emozioni che riusciva a provare in maniera più vivida fossero quasi esclusivamente negative.

Dardeggiò con gli occhi spiritati dalla lettera alla porta, soppesando per alcuni minuti di infuriare come una bufera nella stanza di fronte e riversare su Lorraine tutta la sua irritazione. Non poteva credere che fosse arrivata a mettere le mani nei suoi bagagli pur di spingerlo a scrivere ai suoi genitori, a quel padre che lo ricopriva di un amore che lui non sapeva ricambiare. Non importava che fosse stata mossa dalle migliori intenzioni - e Victoir non dubitava di ciò - o che parlasse dal punto di vista di chi non ha la fortuna di una famiglia o di una casa a cui fare ritorno: nessuno, neanche lei, aveva il diritto di intromettersi nelle sue faccende private, soprattutto se riguardavano i suoi punti deboli.

Si arrestò davanti al balcone dopo minuti di frenetico andirivieni, massaggiandosi con lentezza la fronte, appena sopra l'arco delle sopracciglia.

Doveva distrarsi, altrimenti avrebbe finito davvero per fare irruzione nella camera della collega e sbraitarle addosso. Tra i primi punti della sua lista di cose da fare figurava familiarizzare col castello, ecco: sarebbe stato sciocco non approfittare della luce del giorno!

Uscendo dalla propria camera si trovò faccia a faccia con il misero rettangolo di legno che lo separava dal bersaglio della sua rabbia; la tentazione tornò a divorargli il petto, ma con un borbottio risentito Victoir strinse i pugni e distolse lo sguardo, imponendosi un passo dritto e spedito lungo il corridoio.

Poteva dirsi salva, almeno per ora, perché presto o tardi avrebbero fatto i conti.


Gli ambienti spaziosi e i soffitti altissimi trasformavano casa Coleman in una ghiacciaia con imbarazzante facilità. Pur essendosi affrettato a recuperare il proprio cappotto dall'appendiabiti all'ingresso, Victoir continuava a cercare calore strofinandosi le mani sulle braccia.

Non sarebbe mai riuscito a vivere in un posto tanto gelido e isolato, agli antipodi della sua lontana casetta a New York. Arthur Coleman, invece, doveva averci passato tutta la vita, così come i suoi genitori prima di lui e i nonni in un tempo ancor più remoto. Questa era la storia che traboccava da ogni stanza, dove l'araldica della famiglia Coleman gettava sugli osservatori l'arrogante e arcigno sguardo di un grifone fieramente erto sulle zampe posteriori.

Neanche le cucine, nelle quali Victoir entrò col passo cauto di chi sa di trovarsi dove non dovrebbe, erano al riparo dallo stemma che troneggiava sull'arco di pietra della porta d'ingresso. In compenso gli spazi riservati alla servitù erano sì umili, ma esenti da quella spiacevole abitudine tipica degli aristocratici di non spendere più dello stretto indispensabile per chi li occupava.

I cestini disseminati negli angoli addolcivano l'aria col profumo intenso della frutta di stagione e della legna. I muri, rustici ma senza una sola crepa a deturparli, erano un alternarsi di finestre luminose e scaffali di tegami e stoviglie d'epoca. Al centro della stanza, la cristalleria si asciugava pigramente sul tavolo, immersa nel calore del camino ravvivato da poco.

Malgrado l'ora di pranzo fosse appena passata, la cucina sembrava già in procinto di tornare in azione.

Victoir si avvicinò a una delle finestre, strizzando gli occhi infastidito dalla luce feroce del sole pomeridiano. Se qualcuno, non solo Elijah Griffiths, avesse voluto fare irruzione avrebbe solo avuto l'imbarazzo della scelta: c'erano troppi punti sensibili in quella casa, lungo il tragitto dall'ingresso alle cucine ne aveva individuati almeno altri due.

«Oh, il signor Evans, immagino!»

La voce era distante, roca e maschile.

Victoir si voltò verso il corridoio, sapendo chi aspettarsi ancor prima di vederlo. «Il nostro John, immagino.» citò, quelle parole gli erano rimaste impresse.

John esplose in un sorriso parzialmente sdentato. «Proprio io, l'altro dinosauro di casa.»

Avrebbe potuto essere un qualsiasi volto anonimo in mezzo alla folla, con una statura nella media e la corporatura di chi è abituato a svolgere lavori pesanti e attendere pasti umili. Un ultimo residuo di capelli bruni incorniciava un viso spigoloso, che suggeriva un'età ben oltre i sessant'anni, con foltissime sopracciglia su occhi chiari sbiaditi dalla vecchiaia. Malgrado sembrasse aver dimenticato l'esistenza delle lamette e la barba, le basette e i baffi nerissimi inasprissero i suoi lineamenti, la sua espressione era gioviale quanto quella di Martha.

John tracciò col braccio un arco che terminò sulle sedie attorno al tavolo. «Accomodati, hai fame?»

Non c'era da stupirsi che ricevere visite li riempisse di gioia, considerando che vivevano nella zona più isolata di un Confine lontanissimo dal centro nevralgico dell'Overworld. Erano ai confini del mondo, come la donna della Lapponia in uno dei racconti di Andersen che suo padre amava leggergli da bambino.

«In effetti non mi dispiacerebbe mettere qualcosa sotto i denti.» Victoir corse con gli occhi ai bei cestini di frutta; non mangiava da almeno ventiquattr'ore e il suo stomaco cominciava a fare i capricci. Mentre prendeva posto, selezionandone con attenzione uno che non fosse colpito dalla luce diretta del sole, gli sovvenne un pensiero importante. «Ah, i cavalli?»

«Al caldo e con la pancia piena!» rispose prontamente la voce squillante dell'uomo, il quale nel frattempo raccattava alimenti dalla dispensa con la familiarità di chi ne conosceva ogni anfratto. «Ho saputo che il comitato d'accoglienza non è stato dei migliori.»

«È sempre così o siamo noi ad aver ricevuto un trattamento di favore?»

«Più o meno... la gente di Alcor East non è conosciuta per l'ospitalità.»

«Noto.» Victoir appoggiò languidamente la guancia sul dorso della mano, le palpebre di punto in bianco sembravano pesare il doppio; era bastato rilassarsi un momento perché la sonnolenza tornasse a farsi sentire, ma per fortuna l'aroma speziato del caffè iniziò presto a diffondersi nell'aria.

Qualche minuto più tardi un picchiettio sordo sulla superficie del tavolo lo riscosse definitivamente: un paio di sandwich, un uovo e una quantità anomala di bacon si mescolavano su un piatto troppo raffinato per una colazione informale. John doveva avergli letto in faccia che apparteneva a quella tipologia di persone che mangiano quanto un esercito, un piccolo compromesso necessario quando non poteva integrare i suoi pasti col sangue umano.

Dopo aver completato l'opera con due tazze di caffè, l'uomo si sedette di fronte a lui. «Permettimi di darti un benvenuto decente. Tieni, riempiti lo stomaco.» e addentò il suo, di sandwich, con un'intensa soddisfazione negli occhi.

Pur non capendo perché, Victoir trovò la scena abbastanza divertente da abbozzare un sorriso; ringraziò sottovoce e si avventò sul cibo, facendo del suo meglio per non sembrare troppo vorace - impresa in cui, a giudicare dalla velocità con cui il piatto si svuotò, probabilmente fallì.

Solo dopo cinque lunghi minuti al tintinnio metallico delle posate si aggiunse il mugugnare perplesso di John.

«Ammetto di essere sorpreso. Ti immaginavo più...» agitò le mani per aria, tracciando la sagoma immaginaria di un energumeno «capisci? Mi hanno detto che ti sei fatto strada tra i vigilanti del padrone tutto da solo.»

«Mezze calzette.» Victoir si strinse nelle spalle con indolenza. «Se al mio posto ci fosse stato colui che sto inseguendo, sarebbero tutti morti ancor prima di vederlo.» aggiunse abbassando la voce.

Non intendeva svalutare i mercenari del giudice, ma la realtà dei fatti era che se quello era il loro meglio allora Alcor East era priva di una protezione davvero affidabile, e questo lo preoccupava enormemente. Se sulle sue spalle ricadeva esclusivamente la protezione di Arthur Coleman, chi avrebbe pensato ai cittadini qualora Elijah Griffiths si fosse mostrato spietato come lo era stato a casa Moore?

Quel pensiero angosciante lo attanagliava.

«Quindi si tratta di un tipo davvero pericoloso...» dedusse John, mettendo da parte il tovagliolo con cui aveva avvolto il suo sandwich. «Se c'è qualunque cosa che posso fare per proteggere il padrone─»

«Ti coinvolgerò, non preoccuparti.» assicurò Victoir; ora che la colazione era stata consumata, poteva essere il momento giusto per scucire al commensale quale informazione utile. «Da quanto tempo lavorate qui? Ci sono altri oltre voi due?»

John rilassò le spalle allo schienale, accompagnandosi sin da subito con un intenso gesticolare. «Un tempo ci sono stati, ma dopo la morte dei vecchi padroni se ne sono andati pian piano. La gestione dell'intera tenuta è ricaduta sulle spalle mie e di Martha, e pur essendo qui da una vita non possiamo occuparci di tutto. Non ce la facciamo fisicamente, capisci?»

Victoir annuì. «Non avete cercato nuovo personale?»

«Oh, certo che ci abbiamo provato, ma la gente di Alcor East preferisce non avere troppo a che fare con questa casa. Rispettano enormemente il padrone, ma non l'istituzione per cui lavora.» John scosse la testa e scrollò le spalle, mentre le sopracciglia si alzavano e abbassavano sugli occhi in espressioni che Victoir non sapeva interpretare. «Benché sia l'amministratore, se chiederai di lui in paese tutti lo chiameranno per nome. Per loro non è tanto l'amministratore, quanto il signor Coleman. E questo il padrone lo apprezza molto.»

Era insolito che uno della levatura di Arthur Coleman preferisse essere trattato come una persona qualunque anziché come il capo che era. Tutto era insolito in quel paese dimenticato da Dio, e questo dava molto da pensare. Forse, però, John aveva la risposta a una domanda importante.

Victoir si sporse verso il centro del tavolo, incalzando: «Perché tutta questa ostilità verso la Black Court?»

«Desolato, ma di questo dovresti parlarne con loro. Io ho passato più ore della mia vita a lavorare tra queste vecchie mura che in loro compagnia.»

Il cacciatore sospirò sconsolato, tornando ad accasciarsi contro lo schienale. Naturalmente, sarebbe stato troppo semplice.

«Parlami di lui.» disse dopo un po', notando subito il buonumore che si fece di nuovo strada sul volto dell'uomo.

«Il padrone è un uomo straordinariamente buono.» esordì senza mezzi termini John, d'un tratto spigliato e confidente com'era stato all'inizio della conversazione; persino le mani che aveva a lungo agitato per aria adesso riposavano sul tavolo, percorrendo con le unghie ingiallite le venature del legno. «Da quando è succeduto a suo padre si è sempre fatto in quattro per noi e per Alcor East, perciò è stimato e benvoluto. Sulle prime può sembrare un po' scontroso e sentenzioso, più per deformazione professionale che per indole, ma non è uno di quei potenti che danno per scontato che li si serva e riverisca. Ho conosciuto tanti dei suoi colleghi, ma pochi chiedono per favore e ringraziano come fa lui.»

Victoir sorrise, quasi intenerito da quel discorso pieno di ammirazione; doveva riconoscere di non assistere spesso a perorazioni tanto sincere e appassionate nei confronti di un politico. «E quel laboratorio pieno di cianfrusaglie?»

«Quelle cianfrusaglie» il tono con cui la parola fu scandita servì da ammonimento a Victoir sull'usare cautela nel parlarne «sono la sua passione. Ogni tanto prova a condividere con noi le sue ricerche, ma io ho passato la vita a occuparmi di bestie da soma e carpenteria. Non so come funziona la nebbia che ci protegge, figuriamoci libri incantati e città fluttuanti!»

Non era difficile crederlo: magia e tecnologia erano due campi troppo articolati e complessi per la maggior parte delle persone. Victoir ricordava ancora l'unica volta in cui aveva parlato con un Custode della Soglia, quei luoghi inaccessibili senza una concessione della Black Court che permettevano di spostarsi rapidamente tra le varie aree dell'Overworld, e l'unica cosa che aveva capito era che usavano dei libri incantati pieni di mappe e coordinate geografiche come catalizzatori per teletrasportarsi. Capiva e condivideva la sensazione di profonda ignoranza di John, col quale scambiò un cenno comprensivo.

L'uomo a quel punto si mise in piedi, lasciando intendere che la conversazione volgeva al termine.

«Non credo che avrebbe intrapreso la carriera politica se la famiglia Coleman non fosse stata uno dei pilastri della Black Court.»

Quella sì che era un'informazione interessante.

Mentre John riponeva rumorosamente le stoviglie nel lavandino, Victoir, con le braccia incrociate sul tavolo e la testa incassata tra le spalle, si prese qualche minuto per riflettere su quanto appreso: Arthur Coleman era entrato in politica non per scelta, ma per retaggio. Era un giudice tanto integerrimo quanto un amministratore modello, trattava i sottoposti come suoi pari e coltivava un grande interesse nei confronti di discipline fuori dalla portata della stragrande maggioranza delle persone.

Niente di tutto ciò spiegava però il suo atteggiamento incauto nei confronti di Elijah Griffiths.

Victoir fece scivolare le mani sul legno e si diede una spinta per rimettersi in piedi, incrociando a fatica lo sguardo pacato dell'altro uomo, immerso nelle lame di luce che tagliavano in diagonale la cucina.

«Grazie per il cibo e la conversazione, John. È stato piacevole.»

«Di niente, ragazzo. Fa' attenzione là fuori.»


I corridoi di casa Coleman erano una gargantuesca cassa di risonanza in cui ogni rumore veniva amplificato fino ad assumere sfumature sinistre. L'effetto non doveva essere rassicurante nelle ore notturne, ma non importava: qualunque cosa potesse aiutare a notare la presenza di eventuali intrusi era un aiuto gradito.

Finalmente di nuovo nel pieno delle forze e con un lieve residuo di dolore alla testa, Victoir aveva ripreso il suo tour solitario del palazzo mentre i raggi del sole cominciavano ad abbassarsi e assumere la tipica brillantezza del tramonto, in un suggestivo contrasto di luce rosseggiante e arredamenti blu oltremare. Un vento insistente faceva vibrare ad intervalli regolari i vecchi infissi, eppure nessuno spiffero sembrava avere la forza di infiltrarsi dentro le mura, confermando l'impressione di solidità avuta la notte precedente.

Il problema di fondo, tuttavia, continuava a essere l'enormità del perimetro che avrebbe dovuto sorvegliare, un'impresa impossibile per una sola persona. Era ormai chiaro che, purtroppo per il giudice, la soluzione più conveniente fosse stargli incollato ventiquattr'ore su ventiquattro.

«Parli del diavolo...» mormorò Victoir mentre, alzando lo sguardo dalla rampa di scale che stava salendo, incrociò le iridi brillanti dell'ingrato padrone di casa, stavolta in un dignitoso completo da sera.

Arthur Coleman sgranò gli occhi, chiaramente sorpreso di vederlo a zonzo, ma si ricompose subito e schiarì la gola. «Oh, sei qui. Avevo mandato Martha a svegliare te e la tua collega.»

Amplificata dall'eco, la sua voce tonante rimbombò nelle orecchie di Victoir fino a infastidirlo; quel luogo era una tortura per i suoi sensi già fuori scala.

«Volevo familiarizzare con la casa.» spiegò, svogliato, infilando distrattamente una mano nella tasca dei pantaloni.

Il contatto visivo ebbe vita breve, il giudice sembrava di fretta nonostante indossasse delle vecchie ciabatte sbiadite. «Allora ti servirà ben più di un pomeriggio e dovrai rimandare a domani. Sii pronto per le sei, usciamo.»

Fu il turno di Victoir sgranare gli occhi: tutto si sarebbe aspettato da Arthur Coleman, tranne che mettesse spontaneamente piede fuori di casa. Non notando - o forse ignorando - la sua reazione, l'uomo riprese la sua marcia passandogli accanto evitando accuratamente di guardarlo.

«Dove andiamo?»

«A chiedere scusa per la tua furia animalesca.»


Ferma davanti alle loro stanze, Lorraine aveva ancora il pugno sollevato con le nocche rivolte verso la porta quando Victoir, girato l'angolo con passo risoluto, comparve all'altro capo del corridoio. La governante era in piedi al suo fianco, con le braccia incrociate in grembo e un sorriso arricciato sulle labbra malgrado l'evidente stanchezza.

«Oh, eccoti! Avremo bussato almeno tre volte, temevo fossi...»

La ragazza si slanciò verso di lui, ma la sua vivacità andò affievolendosi fino a spegnersi di fronte al cipiglio frustrato che si disegnò sul volto del cacciatore quando incrociarono gli sguardi. Victoir non si lasciò intenerire e, mantenendo un contegno altero, si avvicinò alle due figure in controluce assottigliando gli occhi quando furono trafitti dal bagliore del tramonto. Superò speditamente le donne, infilandosi nello spazio tra la porta e una perplessa Lorraine che subito gli fece spazio arretrando. Rivolto un neutrale cenno di saluto a Martha, dardeggiò con un'occhiata tagliente sulla collega stralunata.

«All'ingresso alle sei in punto.»

«Va... va ben─»

Senza lasciarla finire, le chiuse la porta in faccia.

***

Chiacchiere, risate e canti cessarono nel momento in cui il giudice Coleman, Victoir e Lorraine misero piede nella taverna, lasciando l'ingrato compito di colorare il silenzio intriso di tensione al fuoco che scoppiettava vivacemente nel camino e ai rumori provenienti dalla cucina.

Victoir non si aspettava niente di diverso, ma fu comunque difficile trattenere il mugugno spazientito che premeva per esplodere attraverso le sue labbra. Erano appena arrivati e si sentiva già al limite, le sue energie completamente dilapidate da interazioni sociali che non erano neanche cominciate; odiava avere a che fare con le persone, odiava essere al centro dell'attenzione.

Dubitava che la presenza del giudice Coleman avesse alcun coinvolgimento nell'improvviso mutismo degli avventori, soprattutto dopo aver ascoltato la testimonianza di John: quella selva di sopracciglia aggrottate e occhi sottili come schegge doveva essere pienamente merito suo e di Lorraine. Persino la cameriera, un donnone dal collo tornito e boccoli dorati, si era fermata in mezzo alla sala col vassoio carico di piatti fumanti stretto tra le mani dalle nocche sbiancate - Victoir arrivò a chiedersi se quella zuppa a breve se la sarebbe ritrovata spalmata addosso, in un assurdo accesso d'ira.

Alcor East non sapeva cosa fosse l'ospitalità, e per quanto Victoir cercasse di non lasciarsi impressionare o abbattere gli sembrava tutto così inutile ed esagerato. E poi era lui il misantropo.

Il giudice Coleman si tolse il cappello e attraversò la sala senza un accenno di disagio nel passo sicuro o nel contegno fiero, indirizzando addirittura silenziosi cenni di saluto a questo o a quel cliente, i quali, dopo aver ricambiato, tornavano a fissare i due inviati della Black Court come se avessero voluto consumarli con lo sguardo.

Quella sarebbe stata una lunga e umiliante serata, pensò Victoir alzando gli occhi azzurri al soffitto.

Il pungente profumo del sangue non perse tempo a uncinargli le narici, eclissando qualunque altro odore, non importava quanto forte, e ricordandogli il motivo per cui evitava come la peste i luoghi affollati. Perlomeno il locale era abbastanza ampio e poco frequentato da non trasformarla in una tortura.

Una figura familiare dalla guancia destra sfregiata da una lunga cicatrice lo salutò da dietro il bancone: era l'uomo che la notte precedente li aveva indirizzati verso casa Coleman. Doveva trattarsi del proprietario, e Victoir non avrebbe potuto esserne più contento, poiché quel genere di lavoro era il lasciapassare per tante informazioni interessanti. Ci avrebbe scambiato due chiacchiere il prima possibile, magari avrebbe finalmente scoperto qualcosa degno di nota.

Ricambiò il saluto mentre il giudice individuava il motivo della loro presenza lì: una corposa porzione dei tavoli ammassata in un angolo della taverna, attorno alla quale un gruppo di, ad occhio e croce, undici o dodici uomini li fissava con un ventaglio di espressioni che andavano dalla semplice diffidenza all'aspro risentimento. Dovevano essere i mercenari - o vigilanti, come Coleman preferiva chiamarli -, ma Victoir ne riconobbe solo tre: l'uomo che aveva quasi sparato a Lorraine, il giovane biondo che si era salvato dalla sua furia e quello che aveva ipotizzato essere il capo, al quale il giudice rivolse un saluto.

Erano stati fortunati, realizzò con amarezza, perché neanche lui sarebbe riuscito ad avere la meglio su un così nutrito gruppo di marcantoni. Si consolò pensando che probabilmente anche Elijah Griffiths avrebbe dovuto impegnarsi per passare sui loro cadaveri.

Seduto a capotavola, abbastanza vicino al camino perché la luce giocasse a inspessire e allungare le ombre sui suoi lineamenti duri, il capo fece cenno all'uomo seduto alla sua destra di levare le tende affinché il giudice potesse subentrare al suo posto. Nessuno fu tanto galantuomo da cedere la propria sedia a Lorraine, che assieme a Victoir rimase in piedi ai lati del loro protetto.

L'odore dell'alcol era forte, ma non insostenibile. Buon segno.

Non appena furono tutti posizionati, il capo dei mercenari diede inizio allo spettacolo allungandosi sul tavolo. «Allora, capo, quando pensavate di avvisarmi di aver arruolato il diavolo in persona?» incalzò con quella voce trascinata e irritante, senza neanche un saluto o l'ombra di convenevoli.

Un registro tanto formale suonava fuori luogo e innaturale nel loro contesto: quella gente apparteneva all'Overworld tanto quanto Lorraine, Victoir ne era sempre più convinto. Ma dove diavolo li aveva pescati, il giudice?

«Le mie scuse, Yates. Sembra esserci stato un malinteso nella comunicazione con la Black Court...» il giudice fece un breve cenno di diniego in direzione della cameriera che si era avvicinata a prendere la sua ordinazione, prima di tornare a dare piena attenzione all'interlocutore. «Naturalmente me ne assumerò la responsabilità e provvederò a risarcire i danni provocati dai miei sottoposti.»

«Quindi avete intenzione di tenervi questo...» gli occhi dell'uomo chiamato Yates dardeggiarono su Victoir, inasprendosi alla sua sola vista «tale... come cane da guardia?»

Victoir non gli diede la soddisfazione di vedere il suo volto contrarsi d'irritazione: se stava cercando di provocarlo, aveva scelto la persona sbagliata. Era abituato a quel genere di trattamenti, per un motivo o per un altro la sua vita era sempre stata all'insegna della discriminazione. Raddrizzò di proposito la schiena, beandosi dal piacevole calore del camino.

Nel frattempo il giudice aveva appoggiato i gomiti al piano del tavolo e incrociato le dita. «Ho intenzione di difendere questo Confine al meglio delle mie possibilità.»

«Beh, ho una brutta notizia per voi, capo: grazie a questo qui─» Yates stese la mano aperta verso Victoir, col palmo piatto rivolto verso l'alto «due dei miei uomini sono attualmente fuori uso e altri due due lo saranno per un bel po' di tempo.»

«Suvvia, Yates, non vorrai farmi credere che uno del tuo calibro non possa sostituire due uomini con altri cinque con uno schiocco di dita? Sai che non baderò a spese, quindi perché non ci lasciamo questo brutto episodio alle spalle e uniamo le forze?»

«Perché noi non trattiamo con i mostri!» la mano che aveva indicato il cacciatore fu abbattuta con vigore contro il tavolo, ammutolendo qualunque brusio di sottofondo rimasto nell'intera taverna. «Diamo loro la caccia, non ci collaboriamo.»

Victoir strabuzzò gli occhi, ma non per lo spavento.

«Anche loro sono cacciatori...» realizzò, in un mormorio che giunse solo alle orecchie della vicina Lorraine; quando lei gli rivolse uno sguardo interrogativo, avvicinandosi fino a far aderire la propria spalla a quella del collega, lui si abbassò con discrezione per parlarle all'orecchio. «Cacciatori di taglie, vivono a metà tra l'Overworld e il mondo di sotto. Hanno una lunga e bigotta tradizione di persecuzioni a danno dei non-umani e si oppongono da sempre alla presa di potere della Black Court. Un tempo erano molto più numerosi, ma da quel che so oggi ne sono rimasti pochi... e indovina per merito di chi?»

Fu il turno di Lorraine di strabuzzare gli occhi, compresa appieno la complessità della situazione e del ruolo di mediatore che il giudice si era addossato: unire sotto un'unica bandiera due fazioni dichiaratamente nemiche per il bene di Alcor East. Adesso si spiegavano tante cose nell'atteggiamento dei cittadini sia verso di loro che verso l'amministratore.

«I miei uomini sono stati massacrati e umiliati per un vostro errore. Ci siamo fidati di voi, amministratore Coleman, nonostante siate un cane della Black Court, perché avete dimostrato di essere diverso. Ma non ci fideremo di loro.»

Seguì un intenso silenzio, nel quale Victoir si scoprì a pendere dalle labbra del giudice.

Curvo in avanti e con la testa incassata tra le spalle, Arthur Coleman somigliava a una di quelle sculture di antichi pensatori che impreziosivano i musei del vecchio mondo. Doveva reprimere qualunque emozione gli annodasse lo stomaco, soppesare con meticolosità ogni parola e colpire con precisione nei punti giusti.

Victoir non avrebbe mai voluto essere al suo posto, col peso della vita di decine di famiglie sulla coscienza per un insulso diverbio tra un gruppo di bifolchi presuntuosi e due ragazzini sbucati dal nulla. Al contempo, però, non poteva fare a meno di biasimarlo: se solo avesse accettato sin da subito la protezione della Black Court non sarebbero mai arrivati a quel tavolo, e questo lui doveva saperlo.

Dopo interminabili secondi di stallo, il giudice reclinò il capo per guardare negli occhi il capo dei mercenari.

«Dunque mi stai dicendo che la nostra collaborazione finisce qui? Che per un'umiliazione ve ne andrete, lasciando Alcor East alla mercè di un criminale?» disse senza mezzi termini; la pacatezza che aveva finora contraddistinto la sua voce tremava sotto il peso dell'irritazione.

Yates si sporse ancora di più sul tavolo. «I vostri cani da guardia─»

«I miei subordinati sono solo due, e il loro compito è rimanere al mio fianco. È così difficile capire che coloro che sin dall'inizio ho voluto che proteggeste sono i miei cittadini?»

Lo sbottare perentorio del giudice troncò qualunque veleno l'altro avesse voluto sputare. Con gli sguardi incatenati in una guerra silenziosa, i due uomini si fronteggiarono in un breve silenzio teso. Ma proprio quando Victoir cominciò a dubitare che sarebbero usciti vincitori da quel diverbio, Yates alzò la mano destra a mezz'aria, muovendo il polso con scatti stizziti che sembravano voler cambiare le carte in tavola.

«Non ho detto che ce ne andremo.»

Era solo un piccolo spiraglio, non un dietro front, ma il giudice non tardò a cogliere l'occasione.

«Allora cosa proponete? Voglio una risposta chiara e definitiva: resterete a proteggere la mia gente o devo trovare dei sostituti?»

Qualcosa saettò nelle iridi nel capo dei mercenari, l'ombra di un'emozione che Victoir non riconobbe, ma che sembrava tutt'altro che positiva. «Lavoreremo per voi, ma non con loro.» come se non fosse stato chiaro di chi stesse parlando, indirizzò loro un cenno. «Noi siamo umani, non ci mescoliamo ai mostri della Black Court. Continueremo a pattugliare Alcor East, ma a tre condizioni: primo, vi impegnerete a risarcire tutti i danni provocati da quella carogna.»

Il giudice annuì immediatamente. «Come già stabilito.»

«Secondo: uno dei miei uomini sarà assegnato alla vostra squadra, sarà i nostri occhi e l'unico canale di comunicazione con voi. Non vogliamo avere più niente a che fare con questa gente.»

«Nessun problema.»

Victoir fu per una volta grato di avere l'espressività di un'asse da stiro, altrimenti le labbra strette e la mascella contratta sarebbero state terribilmente eloquenti. Altroché se era un problema! Non avevano davvero intenzione di rifilargli un'altra palla al piede? Sperava proprio che il fortunato sapesse badare a se stesso, perché lui aveva già Arthur Coleman e Lorraine da proteggere.

Nonostante l'irritazione che formicolava su tutto il corpo, si costrinse a rimandare la questione a un momento più adatto. Per ora non poteva permettersi di aprire bocca se non voleva mandare a monte le trattative.

Ma fu allora che Yates scoccò un'occhiata truce direttamente contro di lui, ricevendone in risposta una glaciale. «Terzo» disse, scuro in viso «esigiamo delle scuse.»

Tutti gli occhi dardeggiarono su Victoir, che per un momento sentì il pavimento aprirsi sotto i piedi. Aveva immaginato che quel momento sarebbe arrivato, tuttavia, per quanto ci avesse riflettuto, non era riuscito a venire a capo di un discorso convincente. La verità era che non credeva affatto di doversi scusare, e in un primo momento non si curò di nasconderlo arricciando il naso e inasprendo l'espressione.

«Chiedere scusa per essermi difeso da sei uomini che volevano massacrarmi?»

Reputava che quei poco di buono avessero avuto già fin troppe concessioni da parte del giudice, quell'umiliazione sarebbe stata più una sciocca rivincita che un sincero tentativo di appianare le divergenze e andare avanti. Non c'era utilità in ciò che pretendevano, solo una viscida vendetta.

Il giudice Coleman reclinò il busto per guardarlo per la prima volta da quando avevano messo piede nella taverna. I suoi occhi limpidi parlavano così chiaro che per Victoir fu come se le barriere mentali che lo isolavano dal mondo fossero improvvisamente crollate: era tutto nelle sue mani, e il giudice aveva scelto di fidarsi di lui.

«Ci sono cose più importanti dell'orgoglio.» suggerì con un filo di voce.

Victoir abbassò la testa, sconfitto.

Era vero.

Arthur Coleman aveva ragione su tutta la linea: per quanto maldisposta, la gente di Alcor East doveva essere protetta dalla furia di Elijah Griffiths. E se lui era impossibilitato a farlo, serviva che qualcuno facesse le sue veci. Adoperarsi in favore del prossimo era una sua responsabilità in quanto membro della Black Court, ma soprattutto un suo personale desiderio per diventare il tipo di persona che ambiva ad essere: uno scudo, non una spada.

Chinò la testa, sforzandosi di dare un'inflessione dispiaciuta alla voce piatta. «Avete le mie sincere scuse.»

Silenzio. Poi le sue orecchie furono pizzicate dal suono irriverente di risate gutturali.

«... E queste ti sembrano scuse sincere?» chiese Yates, a metà tra il compiaciuto e il derisorio.

Victoir rilasciò un sospiro demotivato, incontrando prima la comprensione sul volto del giudice e poi lo scherno su quello del capo dei mercenari.

Lorraine non perse tempo a perorare la sua causa. «Certo che lo sono, è solo che non lo conoscete!»

Se non fosse stato così inalberato nei suoi confronti, Victoir le avrebbe sorriso e l'avrebbe ringraziata per averci provato; erano poche le persone disposte a infervorarsi per lui.

Invece strinse con delicatezza una mano intorno alla spalla della collega, invitandola a fare un passo indietro e placarsi. «Lascia stare. Il giudice ha ragione, ci sono cose più importanti dell'orgoglio.»

Senza perdere ulteriore tempo, si mise in ginocchio davanti all'uomo chiamato Yates, con un coro di sussurri velenosi e risate non esattamente trattenute a fare da accompagnamento ai suoi movimenti.

«Riconosco di aver reagito con eccessiva violenza, causando inutili danni e perdite di tempo per la nostra causa comune. Sapendo che per voi sarebbe stato difficile tenermi testa, avrei dovuto agire in maniera diversa. Mi auguro che questo episodio vi aiuti a comprendere quanto la minaccia che incombe su Alcor East sia grave e a riorganizzarvi in modo da poterla contrastare. Per quanto mi riguarda, non sarò più un intoppo nei vostri piani e mi limiterò a fare ciò per cui sono qui: proteggere l'amministratore, lasciando nelle vostre mani il resto del Confine. Vi porgo le mie scuse, senza chiedere di accettarle o concedermi seconde possibilità.»

Riconoscere le proprie colpe e assumersene la responsabilità, esprimere rimorso, dare spiegazioni al proprio comportamento, fornire garanzie affinché l'atto non si ripeta e avanzare delle scuse: le fasi delle scuse formali che gli erano state insegnate dal suo unico amico, l'avvocato Finch. Un altro pilastro della sua esistenza che si era lasciato alle spalle negli Stati Uniti.

Poteva essere una carogna, il diavolo in persona, ma Dio gli era testimone che avrebbe fatto qualunque cosa per portare a termine quella missione. Questa era solo l'ennesima dimostrazione della sua granitica determinazione.

«Spero che sia sufficiente.»

Fu profondamente grato al giudice per aver spostato l'attenzione su di sé, permettendogli di tornare in piedi e osservare gli effetti del suo gesto sui presenti: tra i mercenari regnava una generale soddisfazione, come se i conti fossero stati finalmente pareggiati. Al contrario Lorraine, che non aveva perso tempo a esprimergli vicinanza appoggiando la mano sul suo braccio, appariva avvilita e turbata. Victoir scosse il capo, riportando l'attenzione su Yates.

Quest'ultimo strofinò le spalle contro lo schienale, come un guerriero di ritorno dal campo di battaglia che reclami il suo giusto riposo. Andava bene così, Victoir sperava solo che ne fosse valsa la pena, altrimenti a farne le spese sarebbe stata la gente di Alcor East.

L'uomo allungò la mano destra verso uno dei lati del tavolo, indicando pigramente con indice e medio uno dei suoi sottoposti. «Accompagnerai tu i signori, Alaric.»

A mettersi in piedi, con un sospiro troppo esagerato per non essere intenzionale, fu niente meno che il biondo scarmigliato che Victoir aveva fronteggiato all'arrivo in città. L'unico a essersi salvato dalla sua furia animalesca, come l'aveva definita Arthur Coleman.

«Heh, sapevo di dovermi dare alla chiaroveggenza...» commentò sarcastico Alaric, scoccando poi uno sguardo per niente entusiasta al trio composto da Victoir, Lorraine e il giudice.

Quest'ultimo, intanto, si erse in tutta la sua stazza poco impressionante: eppure, per la prima volta, a Victoir quelle spalle sembrarono portare il peso del mondo.


Sotto le carezze di un delicato nevischio serale, il piccolo gruppo procedeva con passo spedito verso la casa sulla collina, chiusi in un silenzio assai comodo per tutti: per Arthur Coleman, che dopo aver combattuto con la testardaggine dei suoi vigilanti doveva essere esausto; per Lorraine, che per la prima volta viveva sulla propria pelle i dissapori della gente dimenticata dalla Black Court, gli ultimi tra cui avrebbe potuto trovarsi; per Victoir, che di interazioni sociali quel giorno ne aveva avute la quantità che normalmente avrebbe accumulato in un mese. E probabilmente anche per il giovane di nome Alaric, che in coda alla fila non aveva ancora rivolto la parola a nessuno.

Fu solo al termine della salita, quando i cancelli del castello li accolsero in tutto il loro bisogno di una riverniciata, che il giudice si bloccò e voltò verso i tre ragazzi, soffermandosi su Victoir con le labbra dischiuse. Qualunque cosa volesse dire, non sembrava voler venire fuori.

Victoir e Lorraine si fermarono spalla a spalla, Alaric subito dietro di loro.

L'aura di austerità del giudice era scivolata del tutto via, e ora davanti a loro non rimaneva che un bislacco ma distinto uomo sui quarant'anni con evidenti difficoltà comunicative. Victoir provò a spronarlo aggrottando la fronte, in evidente stato d'attesa, e il trucco parve funzionare: con una goffaggine al limite del ridicolo, il giudice gli diede una pacca sulla spalla.

«Hai fatto la cosa migliore.» disse, e senza ulteriori commenti diede loro le spalle avviandosi lungo il viale d'ingresso.

I tre invece rimasero lì, imbambolati e incerti su come reagire.

Pazienza, si disse il cacciatore, era troppo stanco per pensarci. Abbassò lo sguardo sulle orme lasciate nella neve dall'uomo. Sì, aveva indubbiamente fatto la cosa migliore... ma era anche quella giusta? Quel dilemma continuava a tormentarlo da quando avevano lasciato la Black Court.

«Tutto bene?»

Lorraine gli sfiorò di nuovo il braccio, ma anche stavolta Victoir non ebbe la forza di accettare le sue premure, troppo arrabbiato con lei per essersi intromessa nelle sue faccende private. La allontanò con una scrollata di spalle, per poi rivolgersi per la prima volta ad Alaric, che pochi passi dietro cercava riposo dal freddo strofinandosi le mani sulle braccia. A tracolla portava un bagaglio di dimensioni ridicole con dentro i suoi pochi effetti personali, il volto spigoloso invece tentava di abbozzare un sorriso che non aveva niente di disinvolto o felice.

Sembrava a disagio, talmente a disagio da faticare a mantenere il contatto visivo.

«Alaric, giusto?» domandò Victoir, ricevendo in cambio un cenno d'assenso. «Bene. Allora, benvenuto a bordo, Alaric.»

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