CH. VI

Ultima casa in fondo al paese, difficile non vederla. L'uomo con la cicatrice non avrebbe potuto fornire una descrizione più vaga e al contempo più accurata, come Victoir poté constatare mentre giungevano a destinazione e la nebbia si assottigliava, rivelando le forme imponenti e minacciose del castello.

Coi suoi muri di solida pietra, le alte finestre offuscate dalla condensa, le torri aguzze e i tetti compressi sotto uniformi tappeti di neve, la dimora del giudice Arthur Coleman troneggiava da sola su Alcor East in cima a un interminabile pendio. Guardandosi alle spalle, le case più vicine sembravano ammassarsi le une sulle altre pur di prendere le distanze da quella collina, disseminata di alberi contorti dal peso della neve e priva di qualsiasi illuminazione artificiale.

Oltre l'alto cancello di ferro battuto, spalancato come se nessuna minaccia potesse allungarsi dall'interno del paese, i viaggiatori furono accolti dal silenzioso benvenuto di un giardino tanto spazioso quanto lasciato nell'incuria. All'estremità destra della proprietà, a ridosso del muro perimetrale, i rami flosci dei salici piangevano cristalli di ghiaccio.

Coi suoi innumerevoli piani, la dimora sarebbe potuta appartenere a una famiglia numerosa con una ancor più numerosa quantità di domestici. E invece non c'era una finestra che fosse rischiarata dal più debole fascio di luce, solo un buio tanto denso da nascondere qualunque cosa si celasse oltre i vetri; persino assottigliando gli occhi Victoir non riuscì a distinguere alcunché, se non un fagocitante senso di solitudine.

Da quando erano arrivati nel Durham non aveva percepito altro che ostilità e freddo, in senso tanto fisico quanto metaforico. Lì non c'era spazio per loro e ogni cosa sembrava aver bisogno di ribadirlo.

Mentre superavano una fontana inattiva da chissà quanto tempo, il cacciatore scivolò con lo sguardo sull'architettura spigolosa della facciata fino al portone d'ingresso, incassato in mezzo a una fila di colonne ai cui piedi delle piante stroncate dal freddo si accasciavano nei propri vasi.

«Staranno già dormendo?» domandò atono, abbassando poi il cappuccio.

Lorraine continuava a essere tanto coperta da sembrare impossibilitata a muoversi; incredibile come fosse riuscita a imbracciare un fucile, bardata in quel modo.

«Non penso. È piuttosto tardi, ma dubito che l'amministratore non sia stato informato del nostro arrivo, non quando così tanti cittadini si sono radunati per accertarsi che ci sentissimo indesiderati.»

Victoir arricciò il naso, incurante di nascondere il fastidio di quell'ennesimo trattamento sprezzante. «Quindi ci sta ignorando.»

Un tenue movimento sotto il mantello suggerì che la ragazza avesse scrollato le spalle. «Ci abitueremo.»

Oppure avrebbero costretto il giudice a imparare le buone maniere, completò mentalmente il cacciatore. Tornò a scrutare il castello, alla ricerca di un qualunque segnale che Elijah Griffiths non li avesse davvero preceduti.

Una luce invase il corridoio del piano terra mentre i cavalli si fermavano a pochi metri dall'ingresso. Victoir si concesse allora di rilassare le spalle, notando come la testa non fosse in effetti l'unica parte del suo corpo a implorare riposo: era stata una giornata lunga, dannatamente lunga.

«Bene, sembrano ancora vivi. Un viaggio a vuoto mi avrebbe molto irritato.» disse a cuor leggero, suscitando una risata nell'assistente.

Mentre smontavano da cavallo e affondavano fino alle caviglie nella neve, un concerto di cigolii metallici accompagnò il lento aprirsi del portone d'ingresso, oltre il quale una donna, minuta e accartocciata su se stessa come solo i vecchi sanno essere, faceva del suo meglio per ripararsi dal freddo sotto una quantità di strati che poteva competere con Lorraine.

Non appena i loro sguardi si incontrarono, sul volto deturpato da macchie e rughe si formò un sorriso benevolo, il primo che vedevano da quando avevano lasciato Londra. Victoir si sentì rinvigorito, come se tutto il freddo provato fosse stato smorzato dal tepore di una stufa; tentò goffamente di ricambiare, ma la consapevolezza di non essere capace di sorridere in maniera convincente ripristinò subito la sua solita espressione indifferente.

Lasciò che fosse Lorraine a occuparsi dei convenevoli mentre lui rimaneva a debita distanza, intento a caricarsi in spalla i bagagli alquanto ingombranti. Nessuna traccia del fucile, Lorraine doveva averlo riposto senza che neanche lui se ne accorgesse. Una vera prestigiatrice.

«Buonasera, madam. Siamo qui per ordine della Black Court, io sono Lorraine Winchester e il mio accompagnatore è Victoir Evans. Chiediamo perdono per l'orario...»

«Riserva le formalità alle situazioni che le richiedono, cara.» la donna scosse la testa, facendo intendere che non fosse necessario mostrare i distintivi. «Presto, venite dentro, sarete gelati fino alle ossa... oh, caro» sentendosi appellare, Victoir ricambiò il suo sguardo. «non preoccuparti dei cavalli, ci penserà il nostro John.»

Era rincuorante sapere che il loro John non avrebbe lasciato all'addiaccio i cavalli, ma sarebbe stato ancor più rincuorante vederlo materializzarsi prima di abbandonare le cavalcature per cui aveva sborsato ben più del necessario, pensò cinicamente Victoir. D'altronde non glieli regalavano, i soldi. Gli fu però subito chiaro che quella sarebbe stata la prima prova di fiducia nei confronti della servitù di casa Coleman, la quale, a giudicare dallo stato dei giardini, non pareva specializzata nel dare ottime prime impressioni.

Dardeggiò un'ultima volta con lo sguardo sui dintorni imbiancati, per poi trarre un sospiro frettoloso e muovere energicamente le spalle, sistemando alla bell'e meglio sulla schiena il più pesante dei bagagli. I restanti due, che sollevò per le cinghie irrigidite dalla temperatura, sembravano decisamente meno leggeri rispetto ad appena poche ore prima. La rissa doveva averlo stancato più di quanto credeva: considerato il livello delle sue capacità sociali, deludente già in partenza, dove avrebbe trovato la forza di interagire col giudice Coleman?

Quando le scarpe di Victoir poggiarono finalmente su qualcosa che non fosse più neve, la governante puntò una mano rugosa verso il basso.

«Lascia pure lì i bagagli.» ordinò, e la sua voce rauca rimbombò per tutto l'ingresso assumendo un'inattesa inflessione autoritaria che convinse il cacciatore a obbedire senza fiatare.

Mentre la governante li aggirava per chiudere il portone, gli ospiti mossero qualche passo incerto sul tappeto, che coi suoi motivi floreali rossi e bianchi colorava gran parte del pavimento in marmo fresco di lucidatura.

L'aria pungente della notte si assottigliò fino a dissolversi, sostituita da un tenue calore che Victoir non si sarebbe mai aspettato. Bastava un solo sguardo per notare la differenza tra il decadimento dell'esterno e la cura dedicata dell'interno, una differenza tanto netta da colpire come uno schiaffo.

Le alte pareti che delimitavano la pianta esagonale dell'ingresso erano un alternarsi di semicolonne con fregi in foglia d'oro e dipinti di panorami bucolici, che nel complesso creavano un'impressione di eleganza senza scadere nell'opulenza. Non c'era tenda che non fosse tirata a dovere e gli arredi non sembravano conoscere quella polvere che in Inghilterra si accumulava con tanta facilità. Persino il pulviscolo nella luce del lampadario si muoveva lento e rado, come in allerta.

Victoir si sentì lurido come poche volte prima di allora, ma mise da parte il disagio quando la governante si portò di nuovo davanti a loro, gli occhi vispi e gli angoli della bocca, da cui si aprivano ventagli di piccole rughe, ancora incurvati in un sorriso. Se davvero la servitù era composta da due sole persone, di cui almeno una così anziana, allora si spiegavano tante cose.

«Sono stata avvisata solo poco fa della vostra presenza, quando eravate ancora ai cancelli. Sono davvero desolata di dovervi accogliere in queste condizioni disdicevoli.» esordì la donna.

«Se questo è disdicevole, allora...» la mia stanza è un porcile sarebbe stato il commento completo di Victoir, se Lorraine, intuendo l'imminente catastrofe, non avesse mosso un passo avanti e preso parola.

«Vi prego, madam, non avete nulla di cui dispiacervi. Sfortunatamente le circostanze non ci hanno permesso di annunciarci nella maniera adeguata...» disse, guardandosi quindi attorno con un sorriso intriso di ammirazione. «E la casa è in splendide condizioni, davvero.»

«Oh, lo so che l'interno è una bomboniera. È dell'esterno che parlo.»

Lorraine parve perdere in un solo istante le parole e la serenità con cui padroneggiava di solito i contesti sociali. Il suo sorriso si cristallizzò in una curva priva di allegria, e per Victoir fu un po' come guardarsi allo specchio: la sua assistente era di certo a disagio, decretò con assoluta sicurezza, quindi era il momento di intervenire e distogliere l'attenzione da lei. Forse. Il punto era: come?

Temerario, imboccò la più ardua delle strade: quella dell'umorismo.

«Ho visto di peggio, tipo la mia stanza alla Black Court.»

Seguì un terribile silenzio, di quelli che appiccicano addosso la viscida sensazione che nessuno prenderà parola. E in effetti per un po' fu così, con entrambe le donne troppo intente a scrutare Victoir alla ricerca di un indizio che rivelasse se era serio. Ma la sua espressione rimaneva la stessa di sempre: piatta, imperscrutabile, impassibile.

Prima di peggiorare la propria infelice posizione, il cacciatore indicò uno dei bagagli. «Quello contiene armi, madam. Fate attenzione se lo spostate.»

Il cambio d'argomento fu accolto volentieri da tutti.

«Grazie dell'avviso, se ce ne fosse bisogno maneggeremo tutto con cura. A proposito, io sono la governante di casa Coleman, Martha Hastings, sentitevi liberi di chiamarmi Martha.»

Mentre l'anziana ritrovava la giovialità e la fronte di Lorraine tornava a essere piatta, Victoir non poté evitare di domandarsi cosa fosse andato storto nella sua battuta; avrebbe di certo indagato appena fosse stato da solo con la sua assistente.

Martha Hastings si offrì di aiutarli a mettersi comodi, ma entrambi declinarono cortesemente con un filo di imbarazzo. Quando cappotti e scialli furono al loro posto sull'appendiabiti, Victoir si sentì scrutare con occhio clinico dalla testa ai piedi. Infischiandosene dell'etichetta ricambiò lo sguardo analitico di Martha, che di riflesso distolse il proprio. Quella situazione cominciava a stargli stretta, quando sarebbero stati condotti dal giudice?

«Perdonatemi se sono eccessivamente zelante, cari, ma voglio sperare che non abbiate altre armi addosso.»

Lorraine scosse la testa, la cascata di capelli bruni finalmente libera di muoversi selvaggia. «Non potremmo mai presentarci davanti a un giudice armati. Non è vero, Victoir?»

«Certo che lo farei.» si accigliò lui, venendo immediatamente redarguito con un'occhiata rovente. «Ma... dipende dalla situazione. Adesso ho solo i vestiti addosso.»

Un sospiro della ragazza gli suggerì che la sua infallibile dote nello scegliere le parole meno adatte avesse di nuovo fatto un centro perfetto. Ma poco importava, perché finalmente Martha Hastings si rasserenò, stavolta per davvero, e soffocando una risata si avviò con passo ciondolante.

«Molto bene, allora. Lasciate che vi accompagni dal padrone.»


Ogni volta che Martha muoveva la testa, i lacci di merletto della sua cuffia oscillavano; un movimento ipnotico che ricordava il ritmico fluttuare dei tentacoli delle meduse. Nonostante i corridoi che stavano percorrendo avessero un incontestabile fascino, con gli alti soffitti affrescati contesi tra la debole luce delle lanterne e le ombre incalzanti, gli occhi di Victoir finivano sempre calamitati dalla figura della vecchia governante.

Ancora una volta, mentre salivano la ormai terza rampa di scale, Martha diede l'impressione di essere ad un passo dal perdere l'equilibrio e rovinare dai gradini, abbastanza bassi e inclinati da rendere la salita più stancante di quanto avrebbe dovuto essere. Invece non solo sopravvisse allo sforzo, ma si premurò di aspettarli facendo sfoggio di un sorriso serafico.

«Il padrone è una persona notturna. È solito passare buona parte della notte, se non tutta, nel suo laboratorio.»

«Laboratorio?» Victoir aggrottò la fronte, fermandosi sul pianerottolo accanto all'anziana.

«Lo vedrete presto coi vostri occhi.»

La salita non era stata un problema per lui, ma lo stesso non si poteva affermare per la povera Lorraine. Mentre li raggiungeva, col fiato corto e le mani strette sulla gonna leggermente sollevata, aveva scritto in faccia che imbracciare un fucile le era costato meno fatica. Martha le allungò una mano, per poi ritrarla quando Lorraine sorrise di rimando e scosse la testa.

Si rimisero subito in marcia, con la crescente sensazione che quel castello fosse persino più grande di quanto suggerito dall'esterno. Ogni piano era un intricato labirinto di corridoi che parevano riflettersi all'infinito, con le scene degli affreschi sui soffitti, i busti e il giardino visibile dalle finestre a determinare dove si trovassero.

Probabilmente anche la sua Bucciola si sarebbe persa lì dentro, pensò con amarezza Victoir, già disperato all'idea di dover imparare a orientarsi in quel dedalo di specchi.

Ammesso che il giudice Coleman non li avesse immediatamente buttati fuori e costretti a stanziarsi a tempo indeterminato in una locanda. Il giudice Fitzgerald aveva tenuto in considerazione anche questa eventualità, non badando letteralmente a spese per assicurare loro un sostentamento dignitoso, ma non c'era modo di prevedere per quanto sarebbero rimasti ad Alcor East: una settimana, un mese... un anno.

Per poco Victoir non rabbrividì nel pensarsi bloccato per un anno intero in quel posto pregno di ostilità. Decise che l'incedere dei passi non gli bastava, voleva rompere quella quiete statica.

«È successo qualcosa di inusuale o sospetto nelle ultime ore?» chiese, facendo un rapido calcolo mentale su quanto tempo fosse passato da quando aveva visitato casa Moore; poco, ma sembrava una vita.

Martha reclinò la testa quel tanto che bastava a ricambiare il suo sguardo. «Tutto nella norma. Chiunque o qualunque sia la minaccia, nelle ultime ore sono arrivati solo i vigilanti reclutati dal padrone... e ora voi due. A proposito, spero non abbiate avuto problemi. I cittadini sono alquanto... come dire...»

Lorraine evitò prontamente che Victoir si dilungasse nella descrizione del loro comitato di benvenuto.

«Solo un piccolo fraintendimento.» assicurò, guardandolo come se si fosse aspettata qualcosa.

Naturalmente Victoir non capì cosa, ma evitò di inserirsi di nuovo nel discorso col rischio di fare altre figuracce. Di solito non dava tanto peso all'opinione che gli altri avevano di lui, ma Martha era la prima persona ad aver mostrato loro benevolenza e non voleva sprecare la possibilità di trovarsi un'alleata: i capi della servitù, se scaltri, possono avere più voce in capitolo di quanto si pensi.

«Siamo arrivati.»

Non credeva che avrebbe mai sentito quelle parole.

La massiccia porta di legno a due battenti in fondo al corridoio irradiava luce propria, o almeno questo era ciò che videro gli occhi di Victoir. Più verosimilmente era solo un modo molto strano della sua altrettanto strana mente di esprimere gioia.

Si fermarono al limitare del tappeto, alla luce delle due lanterne appese al muro, con Martha che si scusava e batteva due volte le nocche sulla porta prima di entrare per annunciarli.

Appena furono soli Lorraine trasse un profondo respiro e si posò una mano sul cuore. «Cerca di far parlare me, d'accordo? È essenziale che questo colloquio vada bene.»

Quindi era essenziale che lui non dicesse niente al di là dello stretto indispensabile. Victoir annuì con un cenno svogliato del capo, dando a intendere di aver capito l'antifona. Non che gli dispiacesse: era ancora piuttosto indolenzito dal colpo alla testa, fradicio di umidità e stanco di avere a che fare con le persone. La posizione dello spettatore passivo era il meglio che potessero offrirgli, e chi era lui per rifiutare il meglio?

In quel momento l'acuto cigolio dei cardini della porta si allungò fin dentro i suoi timpani, foriero del ritorno di una Martha dal sorriso teso e decisamente poco incoraggiante. Victoir cominciava a chiedersi se mettere loro i bastoni fra le ruote fosse l'obiettivo nella vita di tutte le persone che avrebbero incontrato nel corso di quella missione.

La donna si posizionò di fianco alla porta, allungando una mano per invitarli a entrare. «Prego, il padrone vi aspetta.»

Le sue parole furono sovrastate da un tenue cinguettio di uccellini proveniente da dentro lo studio.

Victoir guardò con curiosità Lorraine ed entrò per primo: quel che si trovò davanti lo catturò al punto da dimenticare perché fosse lì.

"Sono a casa?" fu lo spontaneo interrogativo che la sua mente formulò.

Ma no, ovviamente era molto lontano da New York e dalle mura che l'avevano visto crescere. Ciò che quel "laboratorio" e casa Evans avevano in comune era un proprietario con uno smisurato amore per le stelle.

Ovunque guardasse, i suoi occhi annegavano in un mare di blu. Blu di Prussia era il tappeto circolare attraversato dal ricamo argentato di una rosa dei venti. Cobalto erano i drappi ai lati delle finestre dagli archi a sesto acuto, stretti da robuste corde color oro che salivano fino al soffitto. Della stessa tonalità degli zaffiri era il soffitto a cupola, sul quale una mano esperta aveva con pazienza riprodotto una mappa stellare che Victoir non sapeva leggere. Celesti e pervinca erano i due globi posizionati ai lati della stanza, uno su un tavolino e l'altro in una delle tante librerie incassate nelle pareti, accanto a un vecchio telescopio coperto di graffi. Cerulea era anche la tappezzeria, o meglio quel paio di poltrone attorno al camino che aveva decisamente bisogno di una ravvivata.

Ma non finiva lì.

Il laboratorio era composto da due ambienti: il primo chiaramente adibito ad angolo per staccare la spina e ricevere gli ospiti, il secondo invece doveva essere ad uso esclusivo del giudice Coleman, del quale Victoir udiva i movimenti - uno scartabellare molto cacofonico tra i piacevoli cinguettii - pur non essendo visibile da quella posizione.

I due giovani si scambiarono uno sguardo in cui si mescolavano stupore e incertezza, quindi si addentrarono nella seconda stanza. E di nuovo rimasero ammutoliti, non per l'eleganza che aveva finora permeato la magione, piuttosto per...

«Ma come fa a vivere qui dentro?»

Un colpo secco allo stinco gli ricordò chi dei due avrebbe dovuto parlare.

«... Non penso di dovere alcuna spiegazione su come faccio a vivere nel mio studio.»

Quella era la voce che nel filmato del giudice Fitzgerald aveva ordinato all'imputato Elijah Griffiths di mettersi in piedi.

Arthur Coleman alzò la testa dalla catena montuosa di libri che sembrava sul punto di rovesciarsi dalla scrivania e andare a fare compagnia alle altre decine di volumi ammassati sul pavimento.

In quello studio non c'erano altro che librerie e tavolini incurvati sotto il peso di file di libri e strampalati orpelli meccanici che fecero arcuare un sopracciglio di Victoir. Col soffitto a cupola di vetro colorato e le grandi porte che davano su un balcone verdeggiante di piante e un terrificante strapiombo, quel luogo sarebbe potuto sembrare più una veranda suggestiva che uno studio, se il suo fascino non fosse stato rovinato da un caos primordiale tanto opprimente da confondere e disorientare lo sguardo.

La cosa più sconcertante era però come, malgrado tutto, Arthur Coleman apparisse perfettamente a suo agio: dopo essere emerso dal maelstrom di cianfrusaglie e carta con la rigidezza che ci si aspetterebbe da un giudice, aggirò con passo spedito le torri di libri senza neanche guardare dove metteva i piedi.

Benché avesse più acidità che umanità nel volto dai lineamenti contratti, la vestaglia da notte e le spalle strette lo privavano di qualunque impressione di austerità. Victoir non gli avrebbe dato più di quarant'anni portati male, nel senso che sembrava addirittura più giovane, e questo non era certo positivo per un giudice.

La luce soffusa giocava a sfumare in oro il verde smeraldo dei suoi occhi cerchiati da un paio di occhiali rettangolari, così fermi sulle figure dei due giovani da sembrare volerci affondare. O volerli affondare.

«Avevo dato degli ordini molto precisi ai vigilanti, come avete fatto a entrare? Vi hanno lasciati passare?» andò dritto al sodo, senza perdersi in convenevoli o presentazioni.

Lorraine si fece avanti senza che Victoir tentasse di inserirsi nella conversazione. «Siamo desolati per essere piombati così nella sua giurisdizione, giudice Coleman, ma non abbiamo avuto tempo di avvisa-...»

«Ho chiesto dei vigilanti, signorina.» la interruppe bruscamente il giudice, le braccia incrociate al petto e la voce inasprita più bassa di un'ottava. «E finché vi trovate nel territorio di Alcor East rivolgetevi a me come amministratore, non giudice.»

Lorraine sembrò diventare più piccola. Nonostante la naturale intraprendenza e la parlantina spigliata, neanche lei era immune alla presenza imponente di un uomo del calibro di Arthur Coleman, in special modo quando interrogata come se si fosse trovata al banco dell'imputato.

«Amministratore Coleman.» si corresse, schiarendosi la voce prima di sforzarsi di incontrare di nuovo il suo sguardo senza esserne fagocitata. «In realtà i suoi vigilanti hanno svolto alla lettera il loro lavoro...» ma le parole sbiadirono in un silenzio incerto, lasciando in sospeso l'infelice esito della vicenda.

Il giudice le concesse qualche secondo di pausa prima di incalzare, impaziente: «Dunque?»

Victoir aggrottò la fronte, già a corto di pazienza. «Dunque ci hanno sbarrato la strada, abbiamo cercato di parlare ma non hanno sentito ragioni. Hanno attaccato briga e io li ho massacrati. Sono vivi, tranquillo, solo un po' rotti.»

«Victoir...» Lorraine reclinò lentamente la testa, supplicandolo con gli occhi di non peggiorare la situazione.

Peccato che l'avesse già fatto e non avesse alcuna intenzione di rimangiarsi una sola sillaba. Ne aveva abbastanza dei modi sprezzanti, quando non aggressivi, di quasi ogni singola anima incrociata in quella città dimenticata da Dio. Con le tasche depauperate dagli avvoltoi di Arlington, i muscoli intirizziti dal freddo, le botte e il feroce colpo alla testa che ancora facevano male, Victoir riusciva a trovare un solo uso ai giudizi della gente, e non era affatto lusinghiero.

Perciò non intendeva subire altre angherie, dopotutto lo stesso Arthur Coleman era stato esplicito sul voler essere trattato come un amministratore e non come un giudice della Black Court. E a un amministratore non si deve necessariamente la reverenza riservata ai giudici.

Gli occhi azzurri di Victoir sfidarono apertamente quelli verdi dell'amministratore, che dopo un momento di sbigottimento - doveva accadere di rado che qualcuno lo fronteggiasse con tanta insolenza - si scurì ancor più in volto.

«Come sarebbe a dire che un ragazzino... quindi non solo vi state presentando in piena notte a casa mia, ma avete anche sfondato le difese della mia giurisdizione lasciando indifese decine di famiglie? È questo che mi state dicendo?»

Victoir dovette riconoscere che detta così sembrava decisamente più... imperdonabile.

Lo stesso sembrava pensare anche Lorraine, più pallida di quanto fosse stata l'ultima volta che l'aveva guardata. Nonostante l'evidente disagio, la ragazza provò di nuovo a pontificare. «Siamo mortificati per l'accaduto e disposti a lavorare fianco a fianco coi suoi vigilanti per proteggere la citt-...»

«Ho già comunicato alla Black Court di non avere bisogno di una scorta.»

«Con tutto il rispetto, amministratore, lei è nelle mire di un assassino che si è già dimostrato scaltro e spietato. Tutto ciò che la Black Court desidera è assicurarsi che lei non diventi la sua prossima vittima. Ci permetta di unire le forze e salvaguardare lei e quelle decine di famiglie.»

Sembrava impossibile, ma il giudice riuscì ad accigliarsi ancora di più. Sul suo volto, asciutto al punto che le ossa degli zigomi sembravano sporgere come promontori, collera e rimprovero si mescolavano nelle rughe d'espressione.

«Credevo di essere stato abbastanza chiaro, ma forse siete duri di comprendonio. Rifiuto l'aiuto della Black Court.»

«Perché?» chiese a bruciapelo Victoir. «Quel che sta facendo non ha il minimo senso, e lei lo sa.»

Calò il silenzio, ma la velata accusa di star nascondendo qualcosa continuò a impregnare l'aria fino a quando, con un movimento repentino e scattoso, il giudice non indicò la porta.

«Fuori di qui.» ordinò, senza distogliere lo sguardo finché i due non obbedirono, contrariati ma sottomessi.

Una volta soli, col sorriso mortificato di Martha ad attenderli, Victoir si concesse un commento esasperato.

«Scommetto che lui è il tipo che fa gli orecchioni alle pagine.»

Arthur Coleman emanavana un'energia caotica. Ma quella non sarebbe stata la fine delle trattative.

***

«Perché mai un uomo del suo calibro dovrebbe rifiutare il supporto dell'organizzazione per cui lavora, anche a costo della vita?» Lorraine buttò fuori un sospiro tremante, che si addensò in una nebbiolina di condensa davanti alle labbra screpolate. «Non è possibile che non ce ne stia andando bene una...»

«Benvenuta nel mio mondo: tanto lavoro mal retribuito e pure i clienti ingrati.»

E freddo, un sacco di freddo. Trasferirsi in Inghilterra era stato un errore. In realtà le temperature non erano molto diverse da quelle con cui era cresciuto, eppure Victoir non aveva mai sentito tanto freddo come da quando era sbarcato nelle terre di Sua Maestà.

Perlomeno in quell'interminabile notte poteva godere della compagnia di Lorraine, che aveva deciso di rimanere di guardia con lui davanti alla porta del laboratorio del giudice liquidando ogni tentativo di farla ragionare.

«Forse sa qualcosa che noi non sappiamo...» Victoir strofinò le mani lungo le braccia, nel tentativo di allontanare il freddo che neanche le coperte portate in fretta e furia da Martha riuscivano a contrastare. «La Black Court si atteggia a salvatore dell'Overworld, ma tutti sappiamo che non si è guadagnata il suo ruolo egemonico agendo sempre nel modo giusto.»

«Te l'ho già detto, Victoir... il modo migliore non è sempre il modo giusto.» seduta accanto a lui, Lorraine si riscaldò le mani soffiandoci sopra; era stata molto attenta a non sfiorarlo neanche per sbaglio, pur condividendo le stesse coperte. «Comunque per me è assurdo che preferisca rischiare la vita.»

«Non ho intenzione di perdere tempo a cercare di comprendere le sue ragioni. Il giudice Fitzgerald ci aveva avvisati che non sarebbe stato facile e, per quanto mi riguarda, resterò qui a fare il mio lavoro indipendentemente da lui. Non voglio morti sulla coscienza.»

«Sono d'accordo. Non me lo perdonerei se morisse perché ce ne siamo andati.»

Ogni tanto erano d'accordo su qualcosa.

Le ore si accavallarono fino a spazzare via la cognizione del tempo, in uno straziante dilatarsi di una notte senza fine. Anche i sospetti e le preoccupazioni bisbigliati con segretezza persero lentamente importanza, mitigati dall'incalzare di una sonnolenza via via più difficile da contrastare. Un po' perché aveva dormito in treno, un po' perché la notte era il suo habitat naturale, Victoir riuscì a resistere al bisogno di riposare con meno difficoltà di Lorraine, che allo scoccare delle due si era ridotta a oscillare come un pendolo e aprire le palpebre solo di tanto in tanto.

Alla fine, dopo un lungo silenzio che mescolava stanchezza e mancanza di argomenti, il respiro della ragazza divenne basso e regolare. Il cacciatore allora spostò la lanterna, unica fonte di calore non appesa a un muro, accanto a lei perché la riscaldasse. Checché ne dicesse, lui era biologicamente capace di sopportare il freddo meglio degli esseri umani. O almeno così avevano detto i dottori impegnati nell'impresa di stabilire che cosa diavolo fosse il figlio degli Evans.

Victoir approfittò della veglia solitaria per guardarsi intorno con zelo, ripercorrendo il tragitto dall'ingresso allo studio abbastanza volte da memorizzarlo. Osservò il corridoio e ne giudicò ogni particolare estetico, dai ricercati tappeti persiani dai motivi floreali ai pesanti doppi strati delle tende che nascondevano le finestre: ancora una volta non opulento, ma abbastanza lussuoso da farlo sentire fuori posto. Un castello era decisamente troppo grande per tre persone. Chissà come la stava vivendo Lorraine, che aveva passato quasi tutta la vita a contendersi un minimo di spazio vitale con decine di altri orfani.

Solo in concomitanza col tenue imporporarsi delle tende, primo segnale dell'alba che sfiorava l'orizzonte, il silenzio fu rotto da brevi fruscii provenienti da dentro lo studio. Lo scatto della porta ebbe l'effetto di una scarica elettrica sui nervi di Victoir, il quale, reclinando la testa, incontrò gli occhi sgranati del giudice Coleman che finalmente usciva dalla sua tana.

Quello sì che era un problema.

Avendo ormai dato per scontato che, come predetto da Martha, non avrebbe lasciato il laboratorio se non per la colazione, Victoir non aveva considerato l'eventualità di dover affrontare una conversazione senza l'assistenza di Lorraine. Se neanche lei era riuscita a ragionare col giudice, come avrebbe dovuto riuscirci lui?

Dopo aver squadrato il loro accampamento improvvisato, l'uomo sembrò impermalito mentre si chiudeva la porta alle spalle. «Sei serio?»

«Col dovuto rispetto, amministratore, le sembra la faccia di uno che sa scherzare?»

Il giudice sospirò, stavolta senza stupirsi dei modi fin troppo diretti del suo ospite. «Siete proprio duri di comprendonio...»

«Direi, piuttosto, ligi al dovere.»

«Ne parli come se fosse un pregio.»

Victoir si accigliò, inclinando la testa come se cambiare prospettiva avrebbe reso quell'affermazione meno criptica. «Non lo è?»

Coleman evitò di incontrare il suo sguardo indagatore, accostandosi lentamente alla finestra più vicina per scostare una tenda e sbirciare l'esterno. «Talvolta.» sussurrò, atono. «Più di frequente è una fregatura.»

Una mezzaluna di luce si allungò per il corridoio e posò sul volto di Victoir, il quale dovette strizzare gli occhi per non rimanere abbagliato. Era bello vedere di nuovo la luce del sole e sentirne il torpore delicato sulla pelle, come se un tocco di normalità fosse riuscito a penetrare i cieli cupi del Durham.

«Lei non parla come gli altri giudici.»

«Non siamo copie standardizzate prodotte in serie.» senza abbandonare la posizione, con le spalle appoggiate alla tenda, le braccia incrociate al petto e l'aspetto di qualcuno che non sembrava aver passato la notte in bianco, Coleman lo redarguì con tono decisamente meno aspro di quello con cui li aveva accolti. «Questa è una proprietà privata.»

Victoir lo fissò senza capire.

«Beh, noi rappresentiamo un'autorità di pubblica sicurezza.»

Le sopracciglia del giudice divennero una linea retta sugli occhi ridotti a schegge. «Non è così che funziona, ragazzo. Non potreste impiantarvi in casa mia senza il mio permesso neanche se fosse stata il giudice Fitzgerald in persona a mandarvi.»

«In effetti è proprio lei che ci ha mandato.»

Il silenzio tornò a riempire ogni centimetro del corridoio per quelle che a Victoir sembrarono ore. Con la luce del sole che lo abbagliava non riusciva a vedere chiaramente, ma non si sarebbe stupito di leggere ancora una volta perplessità mista a stupore su quel volto troppo giovane per un uomo così potente.

Quando tornò a parlare, infatti, Coleman dovette prima schiarirsi la gola per moderare lo sbalordimento udibile nella voce stentata. «Il giudice Fitzgerald è una donna intelligente, perché mai avrebbe dovuto mandare due ragazzini? Che cosa avete di speciale? Soprattutto tu, che hai avuto la meglio su quegli energumeni buoni solo a picchiare.»

Victoir si morse le labbra, rompendo di nuovo il contatto visivo. Aveva scioccamente sperato che non si arrivasse a quell'argomento, e ora se la sarebbe dovuta cavare da solo. La conversazione non sembrava aver svegliato Lorraine, che dormiva ancora appoggiata al muro, coi lunghi capelli castani che si perdevano sotto le coperte, la testa reclinata di lato e un probabile mal di schiena di memorabile intensità ad attenderla al risveglio.

Victoir la invidiava molto, mal di schiena a parte.

Non aveva scelta.

Prese coraggio - e fiato - e si concentrò sui motivi floreali in rosso e bianco dei tappeti. «Lorraine è probabilmente la persona più dedita al lavoro che conoscerà nella sua vita. Tanti al posto suo l'avrebbero mandata al diavolo e se ne sarebbero tornati al sicuro a Londra, anziché rimanere qui a rischiare la vita. Senza offesa, amministratore.»

«E lasciami indovinare, tu sei la persona più maleducata che conoscerò nella mia vita?»

Un sorriso obliquo si allungò sulle labbra del ragazzo: Coleman l'aveva inquadrato con una certa precisione e senza cacciarlo istantaneamente di casa per la seconda volta, notevole.

«Possibile. Ma sono anche il più adatto a proteggerla da un morrwen, perché sono abbastanza forte da tenergli testa e, in linea teorica, immune ai suoi poteri.» disse senza alcuna sfumatura emotiva, lasciandogli il tempo di elaborare le implicazioni di quella dichiarazione.

Questa volta nella quiete stentorea poté di nuovo udire distintamente il vivace cinguettio al di là della porta. Non aveva visto gabbie prima, ma la situazione era stata abbastanza tesa e il caos troppo fitto per notare un simile dettaglio.

Finalmente il giudice giunse alla sua conclusione, in un soffio di voce dalla stessa fermezza di una sentenza. «Tu non sei un essere umano.»

Gli occhi di Victoir tracciarono lentamente un arco che abbracciava per intero la scena, dalla testa ciondolante di Lorraine al lato opposto del corridoio, ancorandosi infine sulla sagoma in nero contornata di luce dell'uomo.

«No, non lo sono.»

Si fissarono in silenzio per un po', senza che nessuno accennasse a prendere le redini del discorso. Fu infine Coleman a parlare, forse riconoscendo in Victoir l'ermetismo di chi non ha intenzione di aggiungere altro, atteggiamento che doveva aver incontrato innumerevoli volte nella sua carriera.

«Avrò il diritto di sapere cosa c'è in casa mia.»

«Glielo direi volentieri, se lo sapessi.»

Victoir si morse la lingua: non aveva preventivato di tuonare così brusco e inalberato, ma, tra tutti, quello era proprio l'argomento su cui avrebbe più volentieri glissato. Tuttavia il giudice aveva ragione: non poteva affidare la sua sicurezza a qualcuno di cui non sapeva niente, se non che celava un segreto pericoloso.

Dardeggiò con gli occhi apprensivi su Lorraine, assicurandosi che stesse ancora dormendo prima di lanciarsi in un monologo che sembrava più un flusso di coscienza disordinato. Non erano argomenti a lei sconosciuti, ma meno orecchie sentivano meglio era.

«Mio padre è umano, mentre mia madre fu selezionata molto tempo fa per intraprendere il processo di vampirizzazione. Aveva già ricevuto il secondo marchio quando ha conosciuto mio padre. Chiese il permesso di interrompere il processo per restargli accanto come sua pari e la Black Court accettò, non senza riserve ma accettò.»

Sperava che il giudice non investigasse più a fondo quella parte di storia, della quale neanche lui conosceva o ricordava i dettagli. I suoi genitori erano stati piuttosto esaustivi nello spiegare i fatti che avevano condotto allo stato attuale delle cose, ma all'epoca lui era stato solo un bambino e il discorso, già edulcorato dalle bocche degli adulti, era ormai lontano e sbiadito nella sua memoria.

«Mia sorella maggiore è un'umana perfettamente nella norma... direi che il suo unico difetto è avere un pessimo carattere. È con la mia nascita che sono cominciati i problemi. I poteri che mia madre ha ereditato dal suo progenitore attraverso il secondo marchio sono stati trasmessi a me, facendomi nascere a metà tra un umano e un vampiro, come se avessi già un secondo marchio. O almeno questo hanno detto gli specialisti. Possiedo i punti di forza dei vampiri ma non le loro debolezze, il tutto compensato dall'assenza di emozioni. Perciò mi scuso se sembro insensibile o incivile, ma non sono capace di empatizzare.»

E a riprova di ciò, pur concentrandosi Victoir non fu capace di discernere alcuna emozione sul volto dell'interlocutore, che dalla sua aveva già un'espressività ridotta all'osso: non lo scatto di un sopracciglio a rivelare scetticismo, non un inquisitorio assottigliarsi degli occhi in cerca di menzogne, non un inarcarsi degli angoli della bocca che celasse disprezzo.

L'infuriato padrone di casa che li aveva malamente scacciati poche ore prima sembrava scomparso, sostituito da un rebus umanoide troppo complesso per la mente di Victoir. Se quello era l'atteggiamento di tutti i giudici, allora sperava di non finire mai al banco dell'imputato.

«Non ho mai sentito parlare del tuo caso... non dovevo essere ancora entrato in servizio all'epoca.»

«È stato dodici anni fa.»

Arthur Coleman si portò una mano sotto il mento, sfiorandone ripetutamente la punta con il pollice. «Un secondo marchio senza un progenitore né sottoscrizione delle leggi della Black Court... la cosa non deve essere piaciuta affatto ai miei colleghi, tantomeno ai clan.»

«Non posso saperlo, ero ancora un bambino. Ma non penso abbiano fatto i salti di gioia.»

Il cuore del problema era proprio quello: l'assenza del primo marchio, catene legali attraverso cui la Black Court teneva al guinzaglio persino creature pericolose come i vampiri, e di un progenitore, altre catene dalla forma di scambio di sangue attraverso cui i clan di vampiri si elevavano a burattinai su ogni membro della loro razza.

Accordi diplomatici tanto antichi quanto inestirpabili, indispensabili per una pacifica convivenza. Victoir non aveva mai capito a fondo quelle parole, che col passare degli anni avevano assunto un tono sempre più minaccioso.

«Mi sorprende che ti abbiano permesso di vivere.»

E Victoir non si sorprendeva della sorpresa del giudice: se erano lì, del resto, era per una creatura che lo stesso Coleman aveva contribuito a condannare a morte per il semplice fatto di essere nato morrwen. La Black Court non era la più clemente delle istituzioni, soprattutto nei confronti di qualcosa che poteva minarne l'indiscussa supremazia, e Victoir non voleva illudersi che Arthur Coleman la pensasse in maniera diversa.

Ma la sua storia non era ancora finita: era solo arrivata alla parte peggiore, quella capace di fargli provare una sgradevole sensazione di gelo e ansia sottopelle. Ogni volta che ne parlava non poteva fare a meno di sentirla più reale, incombente, come carta vetrata che sfreghi su ogni centimetro del corpo.

Si rannicchiò contro il muro, con le braccia incrociate arrendevolmente sulle ginocchia e lo sguardo che si perdeva nelle profondità del corridoio dorato dalla luce del mattino.

«Non si può dire che l'abbiano davvero fatto.» ribatté, reprimendo una risata amareggiata. «Tutto questo li ha spinti a porre ancor più condizioni per lasciarmi vivere: che appena possibile avessi cominciato a lavorare per la Black Court, in questo modo avrebbero potuto tenermi d'occhio, e che al compimento della maggiore età un progenitore mi renda un vampiro completo.»

Il giudice si chiuse in un breve silenzio. «Così smetterai di essere una potenziale minaccia sia per la Black Court che per i clan.»

Victoir annuì. «Immagino di sì, ma per me sarebbe come avere finalmente un'identità. Smettere di essere grigio e diventare bianco o nero.»

O almeno questo era ciò che si era ripetuto per anni, prima che il fantasma di una morte inevitabile e sempre più imminente cominciasse ad assumere maggiore concretezza ad ogni compleanno. Ma non voleva pensarci, non aveva tempo per pensarci. Soprattutto durante una missione.

Prese un respiro profondo e dardeggiò con gli occhi sul volto del giudice, ricambiando la sua imperturbabilità con altra imperturbabilità. «Questo è quanto. So di non essere un bravo oratore, ma sono sincero quando dico che le svelerei volentieri che cosa sono, se lo sapessi.»

E la conversazione parve concludersi lì, coi due che si fronteggiavano in una gara di silenzi e fallimentari tentativi di leggere l'uno nella mente dell'altro. Se da un lato Victoir non sapeva né poteva interpretare qualcuno che del distacco aveva fatto una deformazione professionale, dall'altro il giudice Coleman avrebbe trovato più reattività nell'eco del vento tra le montagne che negli occhi vacui di un mezzo vampiro disfunzionale.

L'adulto sembrò capire prima del ragazzo che non sarebbero venuti a capo di niente in quel modo. Sospirò pesantemente, prima battendosi le mani sui fianchi e poi massaggiandosi le tempie con aria stanca. Era così serio e al contempo ridicolo con quella vestaglia da notte.

«Che situazione assurda... mandano un mostro per proteggermi da un altro mostro. O almeno questo è quello che direbbero loro...» l'ultima frase fu poco più che un sussurro, ma le orecchie del cacciatore lo colsero con efficienza. Finalmente il giudice si mosse, fermandosi davanti ai due giovani. «Victoir, giusto? Sveglia la tua collega e raccatta tutta questa roba, vado a chiedere a Martha di prepararvi delle camere.»

Le sopracciglia di Victoir volarono sulla luna.

«La ringrazio della cortesia, amministratore, ma non ho intenzione di partire dopo essermi riposato.» ribadì con decisione, scuotendo anche il capo.

Il burbero padrone di casa liquidò però il suo intervento sventolando una mano a mezz'aria. «Non ho detto che vi rimetterete in viaggio dopo esservi riposati. Accetto la vostra protezione, dopotutto è il minimo dopo quel che avete fatto alla mia linea di difesa. Ma ad una condizione.»

Le sopracciglia di Victoir tornarono sul pianeta terra, corrugate in preda al senso di attesa. Chi avrebbe mai detto che proprio lui sarebbe stato in grado di far cambiare idea a quel testardo di Coleman? Nessuno, inutile illudersi. Eppure era successo e non avrebbe perso occasione di vantarsene con Lorraine per il resto dei suoi giorni.

Con un cenno del capo invitò il giudice a mettere sul piatto della bilancia la sua condizione.

«Voglio che tu mi permetta di studiarti.»

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