CH. V
Victoir distolse gli occhi vigili dalle lancette dell'orologio, riponendolo distrattamente al di sotto del mantello dopo aver appurato che mancavano meno di venti minuti allo scoccare delle ventitré. Sebbene avessero cavalcato per appena un paio di ore, si sentiva attanagliare dalla sgradevole impressione che il tempo si fosse dilatato fino a distorcersi, probabilmente a causa dello scenario drappeggiato di bianca monotonia.
I rami nodosi degli alberi si allungavano e intrecciavano sulle loro teste, a volte cedendo sotto il peso dei centimetri di neve fresca. Ogni qualvolta che il silenzio si colorava di un suono inaspettato, lo sguardo di Victoir perlustrava i dintorni alla ricerca di un pericolo che puntualmente si rivelava un refolo di vento che fischiava tra le fronde o il tonfo della neve che scivolava dagli alberi. Persino gli animali selvaggi sembravano aver capito che fosse saggio tenersi alla larga dai punti di congiunzione tra il mondo di sotto e l'Overworld.
Dopo l'asprezza delle parole con cui aveva redarguito Lorraine, il tragitto era stato silenzioso e l'atmosfera tesa come una corda di violino. Ciononostante, le aveva di tanto in tanto scoccato occhiate discrete per assicurarsi che il freddo non l'avesse stordita.
Non poteva dirsi mortificato per il modo in cui l'aveva trattata, ma neanche soddisfatto del risultato. Ferire Lorraine - o una qualunque delle poche persone con cui credeva di avere un rapporto decente - era l'ultimo dei suoi desideri, ma l'argomento normalità era per lui come una ferita mai cicatrizzata, sempre pronta a sanguinare persino per una carezza innocente.
Non voleva parlarne. Non voleva parlare di se stesso, tutto qui.
Il trotto regolare del cavallo cominciò a smorzarsi e i suoi muscoli a irrigidirsi, richiamando alla realtà un Victoir meditabondo, ma al contempo concentrato sul vigilare coi suoi sensi ipersviluppati. Benché non avessero avuto alcun problema nell'attraversare le colline, non intendeva abbassare la guardia finché non avessero varcato il perimetro di Alcor East. Constatare che il Confine fosse molto più distante da Arlington di quanto preventivato, l'aveva convinto di aver fatto bene a sfidare il freddo pur di non portare altro ritardo.
Per quanto ne sapevano, Elijah Griffiths poteva averli preceduti ed essere già sul posto. Stando ai suoi spostamenti, nella sua black list il nome del giudice Coleman non avrebbe dovuto essere immediatamente successivo a Moore, ma era probabile che avesse già compreso la contromisura della Black Court e si fosse mosso di conseguenza. In tal caso si sarebbe trovato davanti a un bivio: fermarsi o perseguire la sua vendetta a qualunque costo. Alla luce della carneficina compiuta a casa Moore, la prima opzione appariva però quantomeno improbabile.
Per quanto immorale, Victoir doveva ammettere almeno con se stesso di sperarci: voleva incontrare quell'uomo, non solo per punirlo come meritava, ma anche per un desiderio egoistico a cui non riusciva ancora a dare forma.
Era certo di volere qualcosa da Elijah Griffiths, ma non capiva che cosa.
I meccanismi di funzionamento della sua mente erano sempre stati un mistero anche per lui; la carenza di emozioni trasformava in un'odissea persino prendere una decisione che non fosse puramente razionale o rendersi conto dei propri desideri, sogni e ambizioni.
Il cavallo sbuffò sonoramente in segno di protesta, manifestando i primi segni di una irrequietezza che Victoir intuiva e in parte condivideva. L'influenza dell'Overworld diventava sempre più palpabile man mano che si lasciavano alle spalle le colline per addentrarsi nella valle, e i suoi sensi ne erano stimolati quanto quelli dell'animale.
Cercò di calmarlo con una lenta carezza lungo la criniera, ma prevedibilmente senza successo. Non era mai stato bravo con gli animali, la sua aura inusuale li spingeva a non fidarsi di lui. A malincuore quindi spronò la bestia ad avanzare, ignorandone l'esplicito e persistente malcontento.
Trenta metri più avanti, la Bussola sembrava quasi giocare a lanciarsi contro i tronchi al massimo della velocità consentita dal vibrare secco delle sue ali meccaniche, virando all'ultimo secondo e lasciandosi dietro una scia luminosa della durata di un battito di ciglia. Victoir, divertito, buttò fuori lo sbuffo di una risata.
Presto gli alberi si diradarono, lasciando spazio alla valle avvolta nell'abbraccio di un banco di nebbia tanto denso da rasentare il compatto. Persino le ombre nette che si riversavano dai fianchi delle montagne sparivano nell'illusione di quello che sembrava un muro invalicabile. La sensazione che se ne traeva era sinistra, ma Victoir accolse quella visione esalando un sospiro di sollievo: erano vicini, ormai si trattava solo di farsi strada attraverso il velo di invisibilità che rendeva Alcor East accessibile solo agli appartenenti all'Overworld.
Richiamò la Bussola, che nell'appoggiarsi sulla sua mano libera tornò ad assumere la forma di un comune anello coperto di brina, ma invece di rimetterlo al dito lo conservò nella tasca del cappotto. Sulle note di sbuffi e nitriti contrariati ora di entrambe le cavalcature, si addentrarono nella nebbia.
Victoir reclinò subito il busto in modo da individuare con gli occhi l'assistente, i cui contorni apparivano fumosi nonostante la distanza ravvicinata. «Stammi vicino.» le raccomandò con un tono più brusco di quanto volesse, mordendosi poi con nervosismo un labbro in risposta al corrucciarsi dell'espressione di lei.
Si raddrizzò alla bell'e meglio sulla sella e, col braccio destro percorso dai primi segnali di formicolio, sollevò la lanterna tentando di fendere la foschia; l'umidità era tuttavia tanto aggressiva da ridurre notevolmente l'intensità della luce e neanche sforzandosi riusciva a vedere a un palmo dal naso.
Victoir odiava la nebbia: lo privava dei suoi sensi, una delle poche cose in lui abbastanza funzionanti da essere realmente affidabili. In situazioni del genere era facile cadere preda della paranoia, con la visione periferica tempestata da ombre fugaci, le narici impregnate di un odore acre e penetrante e il freddo che increspava la pelle provocando continui brividi. In quella disturbante immobilità, ogni rumore diventava difficile da tracciare e quindi più minaccioso.
Era come vagare a vuoto, cosa che in effetti avrebbe fatto chiunque esterno all'Overworld se avesse tentato di attraversare il velo di invisibilità, uscendo dal lato opposto senza sapere di aver tecnicamente superato una città con pochi passi.
«Ci siamo?» quando Lorraine lo affiancò, gli occhi le brillavano come se il malumore fosse già scivolato via.
Victoir si umettò le labbra prima di annuire. «Sai... la prima volta che ho visitato un Confine non ho capito dove fermarmi, mi sono perso nella nebbia e alla fine mi sono ritrovato dall'altra parte della città.»
La ragazza non si sforzò di non scoppiare a ridere. «Vorrei dire che mi sorprende. Non ti hanno spiegato come entrare?»
Spronato e rincuorato dalla ritrovata leggerezza dei toni, Victoir si concesse di alzare con eloquenza le sopracciglia e sorridere, sardonico. «Andiamo, mi conosci meglio di così...»
«Non hai ascoltato neanche una parola.» completò Lorraine, ricambiando l'espressione con atteggiamento complice.
«Ovviamente.»
Concluso quel breve intermezzo dal dolce sapore di riappacificazione, Victoir tornò a concentrarsi sulle immediate vicinanze. Non esisteva ancora un modo obiettivo di individuare il giusto punto d'accesso ai Confini, e migliorare quella dannata tecnologia fallace non era mai nella lista delle priorità della Black Court. Dopotutto, non era un problema quotidiano per i piani alti. Giunse amaramente alla conclusione di doversi basare sull'istinto, quello che nel novanta percento dei casi giocava contro di lui.
«Qui dovrebbe andare bene.» convenne, più per convincere se stesso che Lorraine, la quale era certo che avesse più fiducia in lui di quanta lui stesso ne avrebbe mai avuta. Distese morbidamente il braccio libero, come in un invito galante. «Dopo di voi, lady Winchester.»
La mano di Lorraine si paralizzò a metà della carezza con cui stava tentando di rassicurare il cavallo nervoso. «Io?» il suo sguardo sbigottito si fossilizzò su Victoir, come se avesse improvvisamente cominciato a parlare in una lingua sconosciuta; scosse con determinazione la testa. «Non ho idea di come si entri in un Confine-»
«Impossibile. Tutti nell'Overworld sanno come si entra in un Confine.» incalzò lui.
«Ma non l'ho mai fatto. Potrei sbagliare. Creare altro ritardo sulla nostra già disastrosa tabella di marcia. Distruggere la reputazione che abbiamo costruito con tanta fatica...» la voce, alterata da una risata nervosa, si spense gradualmente davanti alla disapprovazione del collega.
Alla fine, scuotendo rassegnato la testa, Victoir spinse di nuovo la vista attraverso il biancore circostante. Appese ai finimenti del cavallo la lanterna, in quel momento più che mai un peso inutile, e si schiarì la gola.
E iniziò a cantare. Dapprima sottovoce e lentamente, la gola raschiata da una fastidiosa sensazione di disagio. Dopo le prime intonazioni l'aria gelida che riempiva i polmoni gli diede la carica per alzare di un'ottava; chiuse gli occhi, imponendosi di cancellare dalla mente la presenza di Lorraine, e lasciò che la nenia si diffondesse nel silenzio, riecheggiando come se la nebbia fosse stata una cassa di risonanza pronta ad accompagnare chi dimostrava di conoscere l'Overworld e le sue regole.
Qualcosa cominciò a cambiare.
L'immobilità fu attenuata da una brezza gentile che presto assunse la vivacità di raffiche di vento. L'umidità divenne insopportabile, palpabile come un velo di brina su ogni centimetro di pelle scoperta, e il suo odore acre gli ribollì nelle narici. Il cavallo cominciò a muoversi con brevi scatti irrequieti, mentre il richiamo preoccupato di Lorraine si sommava ai rumori che Victoir si impose di ignorare: non si sarebbe lasciato impressionare e avrebbe continuato a cantare.
Immaginò di essere di nuovo un bambino costretto a noiose lezioni di solfeggio dal padre musicista, così scioccamente fiero e sorridente nonostante la svogliatezza del suo studente. Con la coda dell'occhio lesse il divertimento misto a tenerezza sul volto di sua madre, dolcemente adagiata sul vecchio sofà che per colpa sua qualche anno più tardi sarebbe stato contraddistinto da una gigantesca macchia di caffè. Il battere insistente della pioggia contro i vetri. Lo scoppiettare del fuoco nel camino. Lo scatto monotono del metronomo che segnava il tempo.
C'era così tanto amore in quel ricordo, e lui lo sentiva tutto.
Dio, quanto gli mancavano.
La melodia nei ricordi rallentò fino a sbiadire e lo stesso fece poco dopo il canto, spegnendosi nel silenzio.
Quando chiuse la porta della memoria e tornò al presente, Victoir si rese conto di aver inconsapevolmente sollevato gli angoli della bocca in un accenno di sorriso. La prima cosa che i suoi occhi videro fu il cielo punteggiato di stelle come in un quadro di stampo romantico. Era proprio bello rivedere il firmamento. Anche i suoi sensi erano stati come liberati da una gabbia: poteva respirare a pieni polmoni aria asciutta e pulita, mentre gli ultimi refoli di vento giocavano con l'udito frusciando tra i vestiti.
Victoir spaziò con lo sguardo fin dove la vista poteva allungarsi, oltre la sagoma di una Lorraine febbrile che sembrava non sapere se concentrarsi su di lui o su ciò che aveva preso il posto del muro di nebbia. In fondo alla valle, Alcor East si rifletteva con le sue luci sulla neve fresca, incastonata come una gemma tra i fianchi delle montagne.
Soddisfatto, il cacciatore diede una pacca amichevole sul lato destro del collo del cavallo, finalmente tranquillo. «Bene. Ci muoviamo?» chiese in direzione di Lorraine, che non perse tempo a ribattere con voce esagitata.
«È stato... oh, cielo! Hai idea di cosa sia successo? No che non ce l'hai! La nebbia sembrava viva, ha cominciato a muoversi... no, a chiudersi su di noi. Il mio cavallo non si è imbizzarrito per miracolo e poi... per un attimo ho temuto che non ce l'avresti fatta. Cielo, che paura...»
Victoir soffocò una risata. «In effetti mi sento leggermente scombussolato.»
Non osava immaginare in che condizioni critiche fossero i suoi capelli. Non che avesse in programma di prendere parte a una serata mondana, ma la prospettiva di doverli prima o poi pettinare lo spaventava più di qualunque cosa li attendesse ad Alcor East.
La fibrillazione di Lorraine, ben visibile seppur contenuta a stento, lo divertì più di quanto si aspettasse. Ben presto finì per prestare più attenzione a lei che al Confine, che almeno a primo acchito non sembrava diverso da un qualunque altro paesello rurale; al contrario, le genuine emozioni sul viso dell'assistente suscitavano la sua più vivida curiosità.
Lorraine non fece caso al suo sguardo insistente e, affacciandosi da sotto gli strati di cappucci e scialli, gli rivolse un sorriso ammirato. «Non sapevo che sapessi cantare così bene, non smetti mai di sorprendermi!»
Victoir scrollò le spalle. «A casa mia si fa più musica che conversazione...»
Per lui era una cosa di poco conto, ineluttabile parte della quotidianità di casa Evans con cui aveva imparato a convivere sin dall'infanzia. Suo padre non era una persona comunicativa, non in maniera convenzionale almeno: parlava tanto senza dire niente e apriva il suo cuore solo attraverso il pianoforte. Il loro era un rapporto basato sul silenzio e sulla condivisione di musica tanto toccante da risvegliare persino l'animo rattenuto di Victoir.
Ora che la meta si stagliava finalmente davanti a loro e gli animali erano di nuovo quieti, Victoir impugnò le briglie e spronò il cavallo al galoppo. A differenza di Lorraine sapeva come andavano certe cose, e non si illudeva che quella notte sarebbe terminata tanto presto.
***
Alcor East si stendeva silenziosa lungo la morbida conca della valle, luminosa come un faro nell'abbraccio cupo delle montagne. Chi di dovere non aveva badato a spese per garantirle degli affidabili sistemi di sicurezza, e superata la nebbia incantata era il turno di un secondo muro, stavolta di solida pietra, di occultare la vista sull'alveare di abitazioni di cui si scorgevano solo i tetti spioventi imbiancati dalla neve nella luce soffusa. Sebbene immobile, il Confine appariva minaccioso e poco accogliente.
I due viaggiatori si ritrovarono costretti a mitigare la velocità dei cavalli man mano che si avvicinavano alla città, notando la presenza di vedette di stanza sulle mura e ai lati del portone d'ingresso, i cui battenti si aprirono e serrarono con la stessa rapidità per lasciar sciamare fuori uno sparuto gruppo di persone munite di lanterne.
A dispetto della distanza, Victoir riusciva a vedere abbastanza da intuire chi avevano davanti. «Mercenari...» alzò gli occhi al cielo, prorompendo in un sospiro rumoroso. «Odio i mercenari.»
Il suo lamento fu sovrastato dalla voce allarmata di Lorraine. «Mercenari? Ne sei sicuro?»
La ragazza curvò la schiena in avanti e si sporse leggermente, cercando di fendere l'oscurità con gli occhi.
Victoir arricciò il naso, falsando un'espressione di ribrezzo. «Sento puzza di concorrenza sleale.» lamentò, in un modo che voleva essere scherzoso ma suonò funebre e attirò uno sguardo severo da parte della ragazza. Capì che era il caso di spiegarsi meglio. «Il tipo a cui stiamo andando a salvare la pelle sa di essere sulla lista nera di un pluriomicida e comanda questo posto. Sarà abbastanza stupido da rifiutare la protezione della Black Court, ma non da accogliere chiunque a casa sua a braccia aperte.»
Si scambiarono un'occhiata tesa, in cui aleggiava la stessa domanda da entrambe le parti; a pronunciarla fu però solo Lorraine. «Perché rifiutare la protezione della Black Court per poi assoldare dei mercenari?»
Victoir scosse la testa, dubbioso quanto lei; non aveva risposte a quella domanda, ma se fossero riusciti a superare quel nuovo ostacolo avrebbero potuto chiederlo al diretto interessato, sperando che si rivelasse più collaborativo di quanto era stato finora.
«Lo scopriremo. Lascia parlare me.» rivolse lo sguardo all'ingresso del Confine, abbassando poi il cappuccio del mantello per mostrare il volto.
L'aria gelida gli lambì la pelle e si insinuò tra i capelli sottili, trasmettendogli un brivido lungo le braccia mentre si addentravano nella zona rischiarata dalle torce sotto gli occhi vigili degli uomini. Dardeggiando con lo sguardo, Victoir ne contò in totale sette: sei assiepati davanti all'ingresso e un fuciliere che vegliava dall'alto del camminamento.
Ebbe l'impressione di essere entrato nel territorio di un lupo più annoiato che affamato.
Era chiaro che quelle persone appartenevano a un ceto sociale basso, ma la qualità decente degli abiti, le corporature floride e i visi rubicondi non mettevano in luce uno stato di povertà assoluta. Dovevano guadagnare piuttosto bene o aver appena imbracciato le armi in difesa di Alcor East, ma considerato il quadro nella sua interezza Victoir trovava assai più verosimile la prima opzione. Tutti, ad eccezione di un paio, erano abbastanza grandi da poter essere padri di famiglia, e tutti, stavolta senza eccezioni, li fissavano con aperta ostilità.
In concomitanza col trotto sempre più lento del cavallo, uno dei mercenari andò loro incontro con andatura decisa e la postura fiera di chi rappresenta l'orgoglio dell'intero gruppo.
Levò mollemente la mano destra per tracciare un arco, in un vago cenno di saluto. «Benvenuti ad Alcor East. Sfortunatamente non accettiamo ospiti al momento, quindi temo che dovrete tornare sui vostri passi, signori.»
La voce, bassa e raschiante, era gravida di sarcasmo. Non serviva un genio per capire che si stava facendo beffe di loro, ma Victoir non aveva intenzione di far buon viso a cattivo gioco. Non a quell'ora, non con quel freddo. Estrasse da sotto il mantello il distintivo della Black Court, sollevandolo affinché la luce calda si riflettesse sul metallo, ma le espressioni torve e baldanzose intorno a loro non accennarono a mutare, sorde e dure quanto il muro che sorvegliavano.
«Lo faremmo davvero volentieri, se non fossimo qui per lavoro. Ci manda la Black Court.» replicò, spietato nell'esprimere quanto più sprezzo poteva infondere nella voce atona.
Il messaggio però non sembrò arrivare, o almeno non con la veemenza da lui desiderata.
«Per quanto mi riguarda potrebbe mandarvi anche la regina.» ribadì l'uomo nerboruto, assottigliando gli occhi azzurri mentre scandiva: «Non. Accettiamo. Ospiti.»
Il sospiro irritato di Victoir fu sovrastato da un brusio di sbuffi di risate malcelate. Persino il cavallo scalciò, nervoso. Lorraine tentò di farsi avanti, ma lui la frenò con uno sguardo. Capiva e reputava nobile il suo desiderio di pontificare, ma non era la prima volta che aveva a che fare con gente del genere: sapeva che gli obiettivi di entrambe le parti erano inconciliabili e nessuno disposto a cedere.
Quando aprì di nuovo bocca, Victoir rilanciò con tono duro. «Allora parliamoci chiaro: dobbiamo vedere il giudice Coleman-»
L'uomo troncò bruscamente la sua affermazione, alzando la voce in un monito implicito. «L'amministratore Coleman ha già dichiarato che non intende-»
«E non accetterò un no come risposta.»
Cacciatore e mercenario si fissarono in silenzio per qualche secondo, apertamente ostili e a corto di pazienza. Sebbene la temperatura sprofondasse sotto lo zero, Victoir cominciava ad avere caldo e sentire una strana forza di attrazione tra le sue mani e la faccia dell'individuo, che a sua volta aveva stretto i pugni screpolati dal freddo.
Capì che se voleva incalzare, quello era il momento giusto. E così fece, curvando un angolo della bocca in un sorriso di scherno.
«Preferirei non dovermi fare strada con la forza. Sapete, c'è un assassino a piede libero col nome di Arthur Coleman sulla lista delle cose da fare... un portone sfondato sarebbe controproducente.»
Adesso il silenzio era tanto profondo che Victoir poteva sentire il respiro cauto di Lorraine accanto a lui. I mercenari cominciarono a scambiarsi sguardi d'intesa, accendendosi di una eccitazione che poteva preludere a una cosa sola: guai.
L'uomo gli diede le spalle, rivolgendosi ora direttamente ai suoi compari. «Beh, signori, che dite? Ci riscaldiamo stasera?»
Ululati di approvazione rischiararono la notte, ai quali, statuario, si aggiunse un sorriso affilato sul volto di Victoir.
Mentre l'uomo armato di fucile veniva ammonito di non sparare, Lorraine accennò ai bagagli. Victoir tuttavia abortì l'idea con un secco cenno di diniego: non era il caso di ricorrere addirittura alle armi per una minaccia tanto insignificante.
«Lascia perdere. Basterò io.» disse, smontando poi da cavallo; un po' di esercizio fisico non gli sarebbe dispiaciuto, cominciava a sentire i muscoli seriamente intirizziti.
Lorraine sospirò, accostando la guancia a una mano e stendendosi delicatamente sul collo del cavallo. «Cerca di non fare più danno del necessario, esibizionista.»
Ma Victoir non intendeva dilungarsi in inutili dimostrazioni di forza, del resto umiliare quegli uomini non avrebbe messo fine alla furia vendicativa di Elijah Griffiths. Se per portare a termine la sua missione avesse davvero dovuto sfondare il cancello, allora avrebbe colpito senza risparmiarsi.
E così fece.
Il mercenario che si era fatto avanti per parlare, e che incarnava sempre più la figura del capo, ebbe appena il tempo di posizionarsi a braccia conserte al centro del portone prima che la sua sicurezza si incrinasse - e Victoir fissò proprio lui mentre si accingeva a dare un assaggio del sangue che avrebbe fatto ingoiare a tutti.
Il rumore sordo del fiato spezzato e di denti che si serravano frustò il silenzio. Con uno scatto in avanti, Victoir aveva percorso in un battito di ciglia la distanza che lo separava dal più vicino degli uomini, colpendolo in pieno stomaco. L'uomo si accartocciò intorno al suo pugno come se fosse stato fatto di gomma e la puzza di sudore invase con prepotenza le sue narici sensibili, allorché agì d'istinto per levarselo di dosso scaraventandolo di lato.
Fu a quel punto, con l'orecchio destro pieno del suono del corpo che rotolava per metri e metri prima di accasciarsi sulla neve con un lamento arrendevole, che il cacciatore dardeggiò con lo sguardo su ciascuno dei suoi attoniti avversari, soffermandosi un attimo in più sul capo per rendergli omaggio con un sorriso beffardo.
«Spero di essere all'altezza delle aspettative.» lo provocò, ben sapendo di averle già sfondate, le aspettative.
Memorizzate le posizioni di tutti, saettò verso un tipo smilzo con la faccia da topo e un minaccioso macete che pendeva dal fianco sinistro, incoronandolo secondo obiettivo. Stavolta non ci fu alcun effetto sorpresa e l'uomo, seguendo con fatica i suoi spostamenti, capì di essere il prossimo. Tentò di sfoderare l'arma, ma la sua mano si fermò proprio nello sfiorare il manico a causa di un pugno che lo raggiunse alla mascella, in una grottesca cacofonia di denti rotti che propagò una vibrazione lungo il braccio di Victoir. Il corpo esile tracciò un arco per aria, andando a schiantarsi contro il muro accanto al portone; quando l'uomo cadde pesantemente a terra, la sua testa rasentò il piede destro del capo.
«Questo ha fatto male. Che diavolo indossa sotto quei vestiti, un'intera armeria?»
Nessuno ebbe la cortesia di rispondergli, sebbene ci fossero ancora cinque teste a sbarrargli la strada.
Victoir strinse la presa sulla propria spalla destra, ruotando il braccio per attenuare un po' il dolore. Da quanto tempo non faceva del sano esercizio? Le ultime missioni erano state un tripudio di ronde monotone e indagini cervellotiche, poter finalmente dare sfogo alla forza che si annidava nel suo sangue solo per metà umano era fantastico. Adrenalinico. Divertente. Un amalgama di emozioni confuse che lo facevano sentire vivo.
Praticamente si lanciò tra le braccia del terzo avversario, un uomo dalla stazza di un armadio, che con parole poco lusinghiere aveva deciso di prenderlo di petto dopo essersi tolto il cappotto per avere più libertà di movimento. Pur trattandosi di un normale umano, la forza percepibile nei muscoli, che quasi straripavano dalle maniche della camicia, pareva difficile da digerire.
Victoir mirò alle gambe, lanciandosi in scivolata con la neve che si apriva come burro al suo passaggio. L'impatto fu inaspettatamente forte, tanto da fargli digrignare i denti e sbilanciare l'energumeno, che però, nel crollargli addosso, ebbe la prontezza di stendere le braccia per attutire la caduta.
Fu solo grazie alla sua velocità sovrumana che Victoir riuscì a rotolare di lato prima di essere intrappolato in una gabbia nerboruta. Mentre scattava in piedi osservò l'uomo bestemmiare a denti stretti, rannicchiandosi in posizione fetale con le mani strette intorno alla gamba.
Quell'attimo di distrazione gli costò caro.
Ebbe a malapena il tempo di scorgere un paio di ombre incombere su di lui prima che un'esplosione di dolore alla nuca lo facesse vedere doppio. Affondò un passo in avanti, faticando a mantenere l'equilibrio, ed emise un lamento più simile a un ringhio. Una voce alle sue spalle disse qualcosa, ma lui, preda dello stordimento, capì solo di doversi allontanare immediatamente. Scartò quindi a destra, prima che un secondo colpo di martello si abbattesse sulla neve esattamente dove si era trovata la sua testa.
Non pensava che sarebbero ricorsi con tanta facilità alle armi, doveva averli proprio terrorizzati. Il pensiero lo divertì e gli diede l'energia necessaria per riaversi e tornare alla carica.
Attaccò mentre l'uomo armato si rialzava, concentrando tutta la forza e il rancore di cui era capace in un unico calcio che fece schizzare qualche metro più in là il malcapitato, che infine si ripiegò su se stesso tra i lamenti come se fosse stato colpito da una locomotiva. L'arma volò via, inghiottita dalla notte.
"Quattro."
Victoir sfiorò il punto della nuca che sentiva pulsare violentemente, reprimendo una smorfia quando una ragnatela di dolore si allargò fino ad abbracciare tutta la testa. Poteva vantare una resistenza ai colpi decisamente fuori scala, ma una martellata rimaneva una martellata. Non voleva pensare a quanto quel bernoccolo avrebbe fatto male l'indomani, era già abbastanza stupefacente che non avesse il cervello in bella vista.
Ma se per lui e Lorraine quella era la normalità, lo stesso non si poteva dire per coloro che stavano assistendo alla sua performance.
Si trovò finalmente faccia a faccia col suo ultimo, deludente avversario: un coetaneo con una selva di capelli biondi imbiancati dai fiocchi di neve e il volto esangue. Pur essendosi avvicinato assieme all'uomo col martello, era rimasto vigliaccamente indietro e non sembrava avere alcuna intenzione di combattere.
Victoir lo osservò con pallida curiosità, scrollando arrendevolmente le spalle dopo un tempo che parve infinito. «Allora?»
Fu squadrato dalla testa ai piedi con aperta ostilità, le sopracciglia dell'altro corrucciate come se avesse parlato in una lingua incomprensibile. Non era la prima volta che Victoir veniva fissato in quel modo, con quella diffidenza mista a paura riservata a chi è diverso. La sensazione che in quei casi lo avviluppava era però sempre la stessa: un inspiegabile e intenso freddo gli intirizziva i muscoli, immobilizzandolo nonostante il pressante desiderio di andarsene, nascondersi, magari diventare invisibile. Qualunque cosa pur di non sentirsi così fuori luogo e giudicato.
Infine, le parole che più temeva arrivarono forti e chiare nella forma di un sibilo tra i lamenti dei feriti.
«Che cosa diavolo sei, tu?»
Numerose erano le risposte che avrebbe potuto dare - un anello di congiunzione tra i due mondi, un'irregolarità sgradita alla Black Court, una probabilità dell'un percento divenuta realtà -, eppure nessuna di queste era realmente esaustiva. Dunque fece ciò che faceva sempre: si appellò alla logica, e la logica voleva che la risposta che il mercenario cercava fosse la più pragmatica.
In tal caso sapeva perfettamente cosa dire.
«Qualcosa che non puoi battere.»
L'inconfondibile suono della ricarica di un fucile interruppe la conversazione.
Prima che la canna fosse puntata su di lui, Victoir scattò in avanti e aggirò il ragazzo, con una presa ferrea gli immobilizzò entrambe le braccia dietro la schiena e lo costrinse a direzionarsi verso il portone d'ingresso, sfruttandolo come scudo umano contro il fuciliere appostato sul camminamento. Una mossa senza dubbio vile, ma tirarsi indietro proprio ora avrebbe vanificato ogni sforzo: la missione andava portata a termine.
Il suo improvvisato ostaggio si rivelò inaspettatamente mansueto: a parte un iniziale sussulto causato dalla sorpresa, si lasciò maneggiare senza tentare di districarsi o ribellarsi.
«Siamo collaborativi.» commentò Victoir con tono piatto, sbirciando da oltre la sua spalla la reazione nervosa del fuciliere, intento a scambiarsi un'occhiata titubante col capo.
«Avresti potuto ucciderci con facilità, ma non l'hai fatto.» la voce del biondo era tesa tanto quanto il suo corpo, rigido nella stretta del cacciatore; reclinò la testa fino a stabilire con Victoir un contatto visivo, fiammeggiante ma non bellicoso. «Se siete davvero qui per proteggere l'amministratore, allora stiamo solo perdendo tempo.»
«Oh, quindi c'è qualcuno che ha prestato realmente attenzione.» Victoir soffocò una risata priva di allegria, assicurandosi di non allentare la presa neanche per un momento; nonostante le sue premure, la tensione nei muscoli del mercenario non dava segnali di volersi trasformare in ribellione.
L'altro proseguì con tono falsamente disinvolto e una punta di cinismo. «Avrei provato a farli ragionare se l'ultima volta non mi avessero riempito di botte. Sai, la solita convinzione che giovane uguale stupido.»
Victoir conosceva bene quella sensazione, la sentiva raschiargli la pelle ogni qualvolta che era costretto ad interagire coi matusa più tradizionalisti della Black Court.
«Quindi ti sei goduto lo spettacolo.» sogghignò.
«Inutile mentire.»
L'onestà di quella risposta lo fece ridere sottovoce, senza che però l'imprevedibile piega amichevole presa dalla conversazione lo distraesse da ciò che era importante: i due uomini rimasti stavano comunicando attraverso un linguaggio di sguardi, che il biondo alla sua mercè non pareva intenzionato a decriptare.
«Pensi che ti spareranno?» incalzò, dunque, sperando di scucire qualche informazione per ingannare l'attesa.
Il giovane seguì la linea invisibile tracciata dagli occhi di Victoir, finendo per osservare a sua volta i colleghi. Trasse un profondo sospiro. «Beh, avrai notato che la tattica non è il loro forte.»
Victoir annuì, senza soffermarsi troppo sull'ironia di cui il biondo sembrava abbondare nei confronti dei suoi colleghi. Lui, al contrario, pur non brillando per coraggio aveva dato prova di saper adoperare un briciolo di materia grigia.
Il silenzio dall'altra parte della barricata cominciava a diventare anticlimatico, allorché Victoir decise di dar voce a un dubbio sorto spontaneamente: «E allora perché stai con loro?»
«E tu perché stai con la Black Court?»
D'accordo, per una volta l'antifona gli fu chiara: meglio farsi gli affari propri. Lo stallo terminò bruscamente, con la canna del fucile che invece di puntare su Victoir e il suo ostaggio si spostava dietro di loro.
Victoir si sentì morire: Lorraine. Aveva dimenticato di essersi portato dietro la palla al piede. Quasi dimentico della minaccia costituita dal mercenario ancora nella sua morsa, dardeggiò con lo sguardo in direzione del punto in cui aveva lasciato la ragazza e i cavalli, pronto a battere ogni personale record di velocità per salvarla, ma non fu necessario.
Quel che vide lo lasciò per un momento senza parole, e l'attimo dopo con un sorriso fiero sul volto.
L'assistente aveva clamorosamente disubbidito ai suoi ordini, prendendo dai bagagli un fucile che doveva aver nascosto sotto il mantello, pronto all'uso in caso di emergenza. Adesso il fuciliere e la ragazza si miravano a vicenda.
«Non fate sciocchezze.»
La voce cristallina e inflessibile di Lorraine frustò il silenzio, minacciosa, ma il monito fu ingoiato dal levarsi di una seconda voce, quella dell'uomo che li aveva accolti sbarrando loro la strada, stavolta travolto dalla rabbia nei confronti del fuciliere.
«Vuoi farci avere problemi con la Black Court? Metti giù quel dannato fucile e falli passare, polso d'acciaio.»
La risata trattenuta di Victoir trovò uno sbocco inaspettato: le labbra del biondo. Era stata tanto bassa da rasentare l'inudibile, ma il cacciatore era certo che il suo udito non l'avesse ingannato. Che strano individuo, quello, avrebbe dovuto farci due chiacchiere appena possibile.
Con una carrellata di borbottii, l'uomo finalmente scaricò il fucile sotto gli occhi di tutti. Victoir aguzzò la vista, senza nascondere la sua chiara diffidenza nei confronti di una persona che non aveva esitato a disubbidire al suo superiore per minacciare di uccidere una ragazza. Almeno sotto quel punto di vista, poteva definirsi migliore di lui.
Il capo dei mercenari batté un paio di colpi sul portone, visibilmente frustrato. «Aprite questa maledetta porta, la Black Court è venuta a dettare legge.»
Quelle parole lasciarono un retrogusto amaro, che diede a Victoir la spiacevole sensazione di trovarsi nello schieramento sbagliato. Non che quella gente fosse santa, ma avevano svolto il loro lavoro di guardiani del Confine finendo in buona parte invalidati per almeno il mese successivo. Per quanto fosse stata praticamente obbligata, la sua era stata una scelta giusta?
Lasciò andare il biondo, che non tardò a mettere diverse decine di metri tra di loro, dopodiché tornò a passo spedito da Lorraine e montò a cavallo, riprendendo la marcia da dove l'aveva lasciata, solo con qualche dolore in più. Soprattutto alla testa.
Il silenzio raggelante che li avvolse perdurò anche al loro ingresso ad Alcor East, oltre il cui portone affogarono in un mare di sguardi lividi, carichi di diffidenza e pronto ad aprirsi al loro passaggio.
Era freddo. Desolante. Opprimente, come essere circondati da un branco di rapaci in agguato. Persino l'entusiasmo di Lorraine sembrava essersi spento al pari di una candela nella tempesta.
«È sempre così?» domandò lei, senza premurarsi di abbassare la voce.
Victoir spaziò con lo sguardo sulla folla prima di rispondere. C'erano persone di tutte le età, persino bambini che venivano prontamente afferrati per le braccia e tirati indietro dagli adulti, come se una certa vicinanza con gli stranieri avesse potuto rivelarsi pericolosa.
Annuì con disinvoltura. «Sì. Lo è.» dopodiché, alzando la voce, si rivolse a tutti sperando che almeno uno rispondesse. «Dove si trova l'amministratore Coleman?»
Se il silenzio fosse stato una risposta, quello sarebbe stato il Confine più collaborativo di sempre. I cittadini si scambiarono occhiate di cocciuta determinazione, dando prova di essere un muro più ostile dei mercenari e compatto di quello che abbracciava la città.
Un muro con un'unica crepa: una mano che si sollevò puntando verso nord, dove la nebbia e il buio sbiadivano i contorni della strada. Essa apparteneva a un uomo dalle spalle possenti e la guancia destra segnata da una lunga cicatrice, contro il quale si schierò un esercito di occhi furiosi.
Infischiandosene, quello aggiunse: «Ultima casa in fondo al paese. Difficile non vederla.»
Allora non erano soli contro tutti in quel posto. Victoir ringraziò l'uomo con un cordiale cenno del capo, dando poi uno strattone alle briglie per far muovere il cavallo. La meta era stata raggiunta, ma paradossalmente si sentiva ancora lontano dall'obiettivo; non si era mai sentito così indesiderato in un Confine.
Quando infine si lasciarono alle spalle la folla, pronta a rumoreggiare appena fuori dalla portata del loro udito, Victoir scoccò un'occhiata sorniona alla ragazza che cavalcava al suo fianco, col fucile ancora a tracolla come se fosse stato un qualunque bagaglio.
«A proposito, da quando sai sparare?»
Lorraine gli sorrise di sbieco. «Da domani. Perché me lo insegnerai tu per sopravvivere a questa gabbia di matti.»
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