CH. IX

Il coltello affondò con fredda calma, senza incontrare alcuna resistenza, tagliando tanto il burro quanto la tensione nell'aria. Un paio di secondi dopo la fetta di pane imburrata era già sparita tra le labbra di Victoir, con quella solita velocità inumana che lasciava imperturbabile Lorraine ma faceva accigliare Alaric.

«È da un po' che te lo volevo far presente...» il vigilante appoggiò la guancia sul palmo di una mano, ripercorrendo con lo sguardo il tavolo di cui occupavano i capi opposti. «Ma mangi davvero quanto un porco.»

Lorraine gli scoccò un'occhiata a metà tra il divertito e il pungente da dietro la barriera della sua tazza di tè. «Maestà, vi è scivolata dal capo la corona...»

Ma Victoir, colpevole di aver fatto piazza pulita di quasi ogni vivanda con cui era stata imbandita la tavola, scrollò le spalle. «Ho fame.» disse, avendo almeno l'accortezza di nascondere la bocca dietro una mano. «E poi, quando Elijah Griffiths porterà finalmente qui il culo dovrò essere in forze per proteggervi tutti.»

«Se Elijah Griffiths porterà mai qui il culo...» sospirò Lorraine, sciogliendosi poi in una risata nel notare l'espressione sbalordita di Alaric, al quale scoccò un sorriso sghembo. «Che c'è? Non sono mica una principessa.»

La quinta fetta di pane imburrato aveva placato appena un decimo della fame di Victoir, i cui occhi si specchiarono sulla superficie della tazza di tè. Il tenue colore giallo della bevanda poteva addolcire l'intenso azzurro delle sue iridi, ma non l'espressione corrucciata che col passare del tempo si era fossilizzata nelle sue rughe di espressione.

Andava male, andava tutto male.

Ogni volta che sbarrava d'inchiostro su una nuova giornata sul calendario, Victoir sentiva le viscere torcersi in preda alla paura di star sbagliando tutto. Era passato più di un mese dalla notte in cui aveva quasi sfondato le porte di Alcor East e niente era cambiato: dicembre aveva ulteriormente isolato il Confine con continue bufere di neve, e la stessa temperatura continuava ad aleggiare tra lui e Alaric. Anziché imparare a collaborare, avevano imparato a ignorare il silenzio imbarazzante che li avvolgeva quando respiravano la stessa aria. Normalmente Victoir sarebbe stato più che felice di essere lasciato in pace, ma gli orrori di casa Moore lo perseguitavano ancora nei suoi incubi abbastanza da voler prendere seriamente quella minaccia al contempo lontana e vicina.

L'immutabilità lo rendeva irrequieto, gli faceva scorgere ombre inesistenti alle spalle del giudice Coleman o sulla curva del collo di Lorraine, talvolta persino nei pressi di un Alaric per cui non avrebbe dovuto provare alcun interesse. E invece Victoir si sentiva sempre più ago di una bilancia dannatamente immobile, perché più è dolce la quiete, più sconvolgente sembrerà la tempesta.

L'unica nota positiva erano certamente gli allenamenti di Lorraine, che in appena due settimane aveva imparato a usare un fucile meglio di tanti altri con cui Victoir si ritrovava spesso a condividere i poligoni di tiro della Black Court. Quella ragazza così straordinaria e piena di risorse lo preoccupava meno di Alaric, di cui non aveva ancora avuto modo di appurare le potenzialità: al momento dello scontro col morrwen si sarebbe rivelato un valido alleato o solo una palla al piede?

Victoir non lo sapeva, e l'ignoranza lo rendeva irrequieto.

Arthur Coleman, di contro, in quelle cinque settimane aveva tenuto fede al loro accordo rivelandosi più collaborativo di quanto il cacciatore avesse sperato. Tutto aveva però un costo, e quello del giudice veniva pagato almeno una volta a settimana attraverso ore di interminabili interrogatori sulla sua natura di mezzosangue. Il giudice sembrava particolarmente interessato al suo pallido spettro emotivo, che aveva cercato di stimolare sia in positivo che in negativo ─ Victoir sperava che i ricordi dell'imbarazzante e gelida notte a base di barzellette venissero presto fagocitati dal dimenticatoio.

La Black Court non si era più messa in contatto con loro, abbandonandolo a un lento logoramento interiore su quale fosse la cosa migliore da fare: per quanto tempo sarebbero andati avanti così? Che fine aveva fatto il mostro che aveva ingoiato decine di vite con la ferocia con cui lui si era accanito su quella colazione che non avrebbe mai riempito il suo stomaco quanto il sangue? E soprattutto, alla luce di tali somiglianze, che in quel mese di vuoto erano diventate il perno dei suoi pensieri più ricorrenti, era davvero lui la persona adatta a fermare un morrwen?

Che cosa significava la vittoria in uno scontro tra Victoir Evans ed Elijah Griffiths: chi era più forte o chi era più mostro?

«No, no, no: te lo vieto, Victoir Evans!»

La piccola mano di Lorraine invase il suo campo visivo e spazzò via quei pensieri; Victoir alzò di scatto la testa, ricambiando confuso lo sguardo rovente dell'assistente.

«Conosco quella faccia. Non provarci nemmeno!» si sentì rimbeccare.

Sempre più esitante, il cacciatore mostrò la sesta fetta di pane che stringeva nella mano sinistra. «Ad abbuffarmi?»

La ragazza gli scoccò un'occhiata ancor più bieca. «No, quello non riuscirei a impedirtelo neanche ammanettandoti. Intendo a trovare l'ennesimo pretesto per biasimarti, sciocco.»

Un fioco "Oh" fu tutto ciò che le sue labbra riuscirono a produrre, ma per una volta non si preoccupò di risultare incomprensibile: se le era bastato così poco per cogliere il suo turbamento, Lorraine avrebbe certamente capito quanto si celasse dietro quel monosillabo piatto e incolore. Lei lo conosceva bene, lo conosceva davvero bene. Avrebbe voluto sentirsi fortunato ad avere un'amica capace di vedere oltre la barriera della sua apatia, ma sperare che le sue emozioni riprendessero a funzionare di punto in bianco era come cercare di mettere in moto un macchinario con un calcio, motivo per cui spalmò il doppio del burro sulla sesta fetta di pane e mise fine alla colazione svuotando la tazza di tè.

«Allenamento?» propose alla ragazza, che però in risposta agitò subito una mano a mezz'aria.

«Non oggi, devo lavorare.»

«Anch'io vorrei lavorare.»

La tensione nell'aria tornò a farsi abbastanza forte da poter essere percepita anche da Victoir, ma stavolta fu lo stridio delle gambe di una sedia a zittire i suoi pensieri prima che tornassero a scalpitare: Alaric si alzò in piedi, svettando sulla tavola con la sua notevole altezza e le spalle massicce.

«Non mi dispiace vederti con le mani in mano, considerando che ogni volta che lavori qualcuno finisce in ospedale.» disse, e con quello avrebbe probabilmente esaurito la sua dose giornaliera di parole che per senso di civiltà era costretto a rivolgergli. «Oggi ho da fare anch'io, ci vediamo.»

Stava per andarsene, quando la voce vispa di Lorraine lo fermò. «Devi fare rapporto?»

Sul viso del vigilante apparve uno stupore tanto lapalissiano da far desiderare a Victoir che tutti gli stati d'animo fossero stati altrettanto cristallini.

Lorraine prese un sorso del suo interminabile caffè. «È la quarta volta che te ne vai senza dare spiegazioni, sempre di venerdì mattina, ed essendo qui ufficialmente per assicurarti che righiamo dritto, trovo logico che tu vada a fare rapporto.»

Per quanto lo riguardava, Victoir avrebbe detto si prendeva un'ora d'aria dalla vita clericale di casa Coleman. L'avrebbe fatto anche lui, se non si fossero trovati nel bel mezzo del nulla innevato con le montagne a imporre un limite persino alla vista. Ogni cosa dentro Alcor East conferiva un senso di isolamento che rendeva il mondo più piccolo e i problemi quotidiani più opprimenti del dovuto. Non gli piaceva la vita lì, agli antipodi rispetto alla frenesia e multiculturalità newyorkese.

«Siete davvero... brillante, signorina Winchester.»

«Oh, adulatore! Sono solo una grande osservatrice, è per questo che mi hanno affiancata a Victoir. E smettila di darmi del voi, Alaric. È un mese che ti ripeto che non adattarti alle regole dell'Overworld ti creerà solo problemi.»

Victoir si accigliò, annoiato abbastanza da imbarcarsi nell'impresa di dare un senso a quel che i suoi occhi vedevano. C'era qualcosa di strano nel modo in cui Lorraine e Alaric interagivano. Dal giorno in cui avevano appianato le loro divergenze lei era decisamente più rilassata, ma quando confabulava con Alaric assumeva un atteggiamento assai più disinvolto e sicuro di sé, come se avesse voluto sfoggiare le sue conoscenze, quasi sempre sull'Overworld, che all'altro mancavano. Alaric, tuttavia, era immensamente più difficile da decifrare per Victoir: se avesse dovuto definirlo con un'immagine, l'avrebbe senza dubbio paragonato a del ghiaccio che si scioglie piano, mostrando un'inclinazione al dialogo e all'ascolto che non gli avrebbe altrimenti attribuito.

Il punto era: qual era il vero Alaric? Quello che in presenza di Lorraine sembrava un uomo dal carattere un po' spigoloso ma tranquillo, oppure l'ostile riccio dagli aghi sempre irti che usciva fuori con Victoir?

«Comunque, c'è ancora tempo prima che il giudice Coleman torni nel mondo dei vivi. Perché non vai con Alaric?»

Victoir fu repentinamente strappato ai suoi pensieri.

Dardeggiò con lo sguardo su Lorraine, ripetendosi le ultime parole udite come se avesse avuto uno di quei magici aggeggi della Fitzgerald impiantato nel cervello: andare con Alaric, sì. Anzi no, assolutamente no.

«Non credo sia una buona idea.» scosse la testa.

«È una pessima idea.» confermò il biondo.

Ma nessuno, neanche l'autoritario Arthur Coleman, era potente quanto il sorriso minaccioso di Lorraine Winchester, che dietro una curva morbida e pacata nascondeva la tacita promessa di prenderli entrambi per un orecchio e trascinarli fino all'ingresso se non avessero obbedito. Che motivo c'era dietro quell'improvvisa presa di posizione?

«Non è necessario che Victoir incontri quegli screanzati─ oh, perdonami, i tuoi colleghi. Ma è da tanto che non mette il naso fuori di casa se non per aiutare il nostro John coi lavori pesanti, e comincia a essere così pallido...»

«Io sono pallido per natura.» la interruppe Victoir.

La bruna gli sfiorò dolcemente una mano, fingendosi ancor più preoccupata. «Vedi? Ormai è così abituato da non rendersi conto di quanto sia molto più pallido rispetto a un mese fa. Povero Victoir, il lavoro lo assorbe così tanto...»

«Ma se abbiamo detto finora che non lavoro da un mese─»

«E tu, Victoir.» gli occhi nocciola di Lorraine affondarono nei suoi con la forza di due aghi. «Non vorrai lasciare andare tutto solo e mogio il nostro Alaric?»

«Io non sono affatto mogio─»

Lorraine reclinò la testa verso l'alto e sospirò rumorosamente, troppo rumorosamente per non essere enfatizzato di proposito. «Sentite, voi due.» la sua voce vibrò tagliente come il coltello ancora unto di burro.

Alaric strabuzzò gli occhi, mentre Victoir, familiare a quei bruschi cambi d'umore, si preparava con un brontolio a una lavata di capo.

«È più straziante stare in una stanza da sola con voi due che aspettare i comodi di Griffiths.» li fissò in tralice, dedicando a entrambi le stesse quantità di tempo e severità. «Adesso la smettete di fare i bambini, andate insieme e appianate le vostre divergenze. Bisticciate se ne avete bisogno, ringhiatevi addosso come i veri uomini che siete. Parlate come fanno le persone adulte, insomma, quello che non avete fatto in un mese. Non mi interessa che diventiate migliori amici, ma che al vostro ritorno siate capaci di cooperare come il giudice si aspetta da noi, sono stata chiara?»

Il lontano canticchiare di Martha in lavanderia fu l'unica risposta, almeno finché Lorraine non sbottò di nuovo. «Alaric?»

Il mercenario raddrizzò le spalle e annuì. «Sissignora.»

«Bene.» lo sguardo di Lorraine tracciò un arco attraverso la stanza fino al collega. «Victoir?»

Victoir brontolò qualcosa di blasfemo.

«Victoir!»

«Va bene, va bene!» il cacciatore allontanò da sé la sedia strisciandone i piedi contro il pavimento con uno stridio. «Andiamo a fare la fotosintesi insieme!»


«Non pensavo che potesse essere così terrificante...»

«Tutte le donne dell'Overworld lo sono.»

Alaric prese un respiro intimorito a denti stretti, incapace di trattenere per più di pochi secondi lo sguardo su Victoir nonostante camminassero nella stessa direzione alla debita distanza di un metro e mezzo, coi piedi del mercenario che calpestavano più spesso l'erba ancora rilucente di brina che il selciato.

Per un po' non si erano detti altro: l'incomunicabilità era forse parte integrante del loro rapporto, oppure nessuno dei due aveva intenzione di impegnarsi nonostante la minaccia di Lorraine Winchester aleggiasse sui loro colli come una ghigliottina.

Il sole, in quei rari momenti in cui si affacciava tra i banchi di nuvole, non era neanche caldo, e se lo era la temperatura aveva raggiunto un punto così basso da cancellare qualunque effetto benefico. C'erano tante cose che Victoir avrebbe potuto fare in quei minuti anziché addentrarsi in un villaggio dove persino i bambini si voltavano a guardarlo come se fosse stato il demonio, e invece era lì, a rispondere con provocatoria apatia ad ogni paio d'occhi che lo percuoteva in silenzio.

Il loro passaggio coincideva con l'acquietarsi di ogni rumore, ad eccezione dello scatto delle porte che si chiudevano e dell'incespicare dei passi sulla neve. Più tempo passava ad Alcor East, meno Victoir capiva quella gente. Fu quindi più che rincuorato di leggere tra il lento fioccare della neve la stessa insegna su cui aveva brevemente posato gli occhi la notte in cui aveva accompagnato il giudice a mettere una pezza sul disastro da lui compiuto coi mercenari. La marcia di Alaric puntava indubbiamente in quella direzione, confermando il sospetto che il Plough fosse stata scelta come base dal suo gruppo di screanzati, come li aveva definiti Lorraine.

«Sarebbe meglio se non entrassi.»

Victoir reclinò la testa verso sinistra, incrociando le iridi smeraldine di Alaric.

Era serio, lo avrebbe definito addirittura grave. I suoi compari dovevano avere ancora il dente avvelenato e non dava loro torto, probabilmente le ossa che aveva spezzato la notte dell'arrivo ad Alcor East si stavano ancora rimarginando. E poi c'erano ancora quelle parole aspre a rimbombargli nel cervello: noi non trattiamo con i mostri, non vogliamo avere più niente a che fare con questa gente. Se c'era qualcuno ad Alcor East che disprezzava dal profondo del cuore la Black Court, quello era il gruppo di Alaric.

«... fa freddo.» cominciò, vedendo già qualcosa di incomprensibile mutare nell'espressione del biondo. «E il proprietario è l'unica persona in questo postaccio a non trattarmi come un cane, quindi gli darei volentieri i miei soldi per una bevanda calda.»

Era stato sciocco a non fare quel ragionamento un mese prima: se i vigilanti odiavano la Black Court come sembrava, Alaric doveva starsi sforzando non poco di interagire con lui e Lorraine in maniera civile.

Si coprì per bene la testa col cappuccio, dopodiché affondò le mani nelle tasche del soprabito.

«Magari un bel caffè lungo, che possa godermi sulla via del ritorno...»

E tirò fuori dalla tasca qualche moneta, che allungò a un Alaric subito immobilizzatosi a squadrarlo come se fosse impazzito. Si fissarono abbastanza a lungo perché Victoir capisse che, nella fredda solitudine di quella strada sgombra, doveva essere lui a fare chiarezza.

«Io non complico il lavoro a te e tu non mi lasci a morire di freddo. Abbiamo un accordo?»

Stava sprecando un'occasione. Era ovvio che il vero motivo per cui Alaric gli fosse stato messo alle calcagna non fosse per assicurarsi che collaborasse, ma per tenerlo d'occhio e spiarlo, magari intascando qualche informazione conveniente. Ma Lorraine aveva ragione: quella missione era troppo pericolosa per tollerare qualunque sbavatura nel loro lavoro di gruppo. Sperava che anche Alaric fosse del suo stesso avviso.

Il vigilante osservò più il suo volto che la mano protesa, forse alla ricerca di quelle imperfezioni espressive che nelle persone normali tradiscono le vere intenzioni dietro un'elaborata finzione. Ma Victoir sapeva che in lui non avrebbe trovato niente di tutto questo. Non era infatti il primo a provarci, ma la chiave per decifrare il suo codice era in mano a pochissimi.

«D'accordo.» acconsentì infine Alaric, rompendo il contatto visivo solo per sfiorare il palmo di Victoir con le dita guantate. Prima di entrare nell'osteria gli lanciò un ultimo sguardo furtivo. «... Gra─»

Victoir gli risparmiò la fatica frustando l'aria con una mano.


Quello era qualcosa che non si aspettava: un branco di mocciosetti arrotondati da strati e strati di vestiti gli si avvicinò con un vero e proprio armamento di palle di neve e la guerra scritta in volto.

Victoir li fissò con curiosità, colpito dal fatto che i primi ad avere abbastanza coraggio da avvicinarlo fossero stati cinque soldi di cacio, o meglio quattro, perché del quinto riusciva a scorgere solo il bonbon del berretto verde da dietro la schiena del più alto del gruppo. Nessuno osò varcare la soglia sicura dei due metri, come un cavaliere che si tenga fuori dalla portata del soffio di fuoco di un drago, suscitando nel cacciatore un abbozzo di risata fintamente maligna.

«L'ultimo baluardo di difesa di Alcor East, immagino.»

Come se avessero aspettato un segnale da parte sua per animarsi, i bambini si guardarono gli uni con gli altri e scambiarono cenni d'intesa.

«Immagini bene!» il più alto gli puntò un dito contro; aveva le punte dei guanti sfondate e i polpastrelli facevano capolino rossi come pomodori. «Noi proteggeremo le nostre famiglie dalla Black Court! Non ci fai paura, cane della Black Court!»

Persino quella parola scortese era divertente in bocca a un marmocchio col naso imporporato dal freddo.

Deciso a stare al gioco, Victoir trasformò il suo sorriso provocatorio in un vero e proprio sogghigno. «Ah sì? Dovete essere davvero coraggiosi per mettervi contro un mostro...»

«Lo siamo!» l'unica bambina del gruppo fece un passo avanti e, con un oscillare violento di trecce bionde, gli scagliò contro la prima palla di neve. «Ecco!»

Victoir non solo non tentò di schivarla, ma anzi mosse un impercettibile passo laterale per essere colpito meglio all'altezza della spalla.

Si lamentò con troppa enfasi. «Che faccia tosta! Spero siate pronti a subire le conseguenze delle vostre azioni, nanerottoli, perché un'offesa mortale va ripagata...» breve pausa tattica. «... con la morte.»

I bambini rabbrividirono e, senza sapere come, Victoir si ritrovò coinvolto nella più intensa battaglia a palle di neve della sua vita. I suoi piccoli avversari si rivelarono ancor più micidiali di quella forza della natura di sua sorella, avendo la meglio senza che lui si fingesse sopraffatto dalla quantità di neve che nei successivi dieci minuti lo seppellì. Alla fine di quel confronto si ritrovò steso a terra, con gli occhi che vagavano sui volti color porpora dei cinque diavoletti che troneggiavano su di lui.

«Abbiamo vinto! Abbiamo sconfitto il cane della Black Court!» cinguettò il più tondo del gruppo, così accaldato da avere il fiatone.

«Ammetto la sconfitta, prodi guerrieri di Alcor East.» acconsentì Victoir con un sospiro, venendo sommerso da grida di gioia di cinque piccoli indiani che ora gli danzavano attorno.

Finalmente in salvo dalla furia del branco, Victoir riuscì a mettersi seduto e scrollarsi da braccia e spalle una quantità di neve che non credeva possibile. Erano davvero delle macchine da guerra, quei pestiferi! Perlomeno, quella nata come una scaramuccia sembrava essersi trasformata infine in un gioco che aveva spazzato via ogni remora nei suoi confronti. Poteva approfittarne e forse mettere le mani sull'informazione che tanto desiderava?

«Ditemi, prodi guerrieri di Alcor East... perché odiate così tanto la Black Court?»

Il ragazzino più silenzioso alzò le sopracciglia fino a farle sparire sotto il bordo del berretto marrone. «Davvero non lo sai?»

Con quella domanda Victoir capì perché evitasse di schiudere le labbra anche mentre rideva: la fatina dei denti era passata di recente per uno dei suoi incisivi.

I bambini si scambiarono degli sguardi esitanti, ma infine a prendere la parola fu di nuovo l'unica femminuccia, che cedendo alla stanchezza si accomodò accanto a Victoir come se con quel rito di iniziazione fosse stato liberato dal male che albergava in lui e ammesso al loro circolo.

«Mia nonna dice che ai tempi di suo nonno... o del nonno di suo nonno...» la bambina si picchiettò il mento con l'indice, rincorrendo la risposta nel cielo plumbeo. «Comunque, Alcor East fu attaccata da una fata. L'amministratore di allora chiese aiuto alla Black Court, ma la Black Court non mandò nessuno ad aiutarci. Così l'amministratore, che era un vampiro─»

«Alcor East ha avuto amministratori vampiri?» la interruppe istintivamente Victoir.

Nessuno lo aveva informato che Alcor East fosse stata un tempo sotto l'egida dei clan. Non che lui avesse fatto domande in merito. In realtà non faceva alcuna differenza, ma pensare che la mentalità di quel luogo a lui tanto ostile fosse stata plasmata dai suoi simili era... strano, in qualche modo ironico.

«Solo lui, poi sono arrivati i signori Coleman. Comunque, l'amministratore capì che avrebbe dovuto combattere da solo, così imbracciò con coraggio le sue armi e affrontò la fata! Lo scontro durò tre giorni e tre notti─» e quella parte era chiaramente romanzata dalle labbra di una nonna che celebra i fasti del suo paese, ma Victoir non ne fu infastidito. «E alla fine vinse, ovviamente! Ma a che costo? La fata era davvero malvagia e potente... e i due si uccisero a vicenda.»

Il racconto fu interrotto bruscamente, gli occhi di tutti puntati su Victoir. Forse aspettavano una sua reazione, forse no. Per sicurezza si impegnò per rendere uno stentato "Oh!" il più convincente possibile.

Apparentemente soddisfatta, la sua giovane barda riprese a narrare. «Comunque, la Black Court inviò dei cacciatori quando ormai era troppo tardi e Alcor East rimase per diversi mesi senza amministratore. Che è una cosa gravissima, sai? Sarebbe potuto accadere di tutto mentre la Black Court si grattava la pancia.»

Ora si spiegavano tante cose, pensò tra sé e sé Victoir stringendo le labbra, l'isolamento e la mentalità arretrata dovevano aver radicato nel pensiero comune un'ostilità antica ma ormai inutile, soprattutto in un momento in cui la storia sembrava a un passo dal ripetersi.

«Ed è per questo che odiate la Black Court.» concluse.

«Sì, perché la Black Court sa solo comandarci, non proteggerci.» annuì la bambina, donandogli poi un sorriso inaspettato. «Comunque, secondo me tu sei troppo carino per lavorare per loro, dovresti proprio mollarli e trasferirti qui.»

Non era sicuro di aver capito il sotteso, ammesso che ci fosse un sotteso. Gli altri scriccioli si prodigarono in smorfie, versi disgustati e gare a chi arricciava di più il naso, dando prova di intelligenza sociale nettamente superiore alla sua, che di anni ne aveva diciotto.

«Grazie, ma non posso accettare la tua proposta.» liquidò l'invito della bambina, non avendo intenzione di arrovellarsi il cervello persino per una cosa del genere. «Io però sono qui per proteggervi, stavolta la Black Court non ha aspettato la tragedia per inviarmi. Non cambia niente?»

«No.» decretò il bambino alto, intransigente nello sguardo verde mare. «Non importa cosa sei, ma con chi stai.»

Una crudele realizzazione gli gelò il sangue: aveva frainteso tutto.

Quella gente non discriminava in base alla razza. A differenza della Black Court, che in cambio di cieca obbedienza accoglieva quasi chiunque nei suoi ranghi, quella gente discriminava in base al credo. E Victoir non sapeva quale delle due fazioni avesse più torto.

«E poi tu sei stato mandato qui per proteggere l'amministratore, non noi. Il mio papà dice che non muoverai un dito per noi...» concluse il marmocchietto pasciuto: non con rabbia, ma con tristezza.

Victoir sentì l'amaro in bocca.

Negli occhi che lo circondavano vide qualcosa di inafferrabile, qualcosa che desiderava disperatamente comprendere. Ma non poteva. E non poteva comprenderlo esattamente per il motivo per cui Marianne Fitzgerald lo aveva incaricato di fermare Elijah Griffiths.

Inspirò l'aria fredda, che gli pizzicò ogni centimetro della gola e del petto come spilli, e ricambiò ogni sguardo con tutta la determinazione di cui era capace.

«Combatterò per tutti, ve lo prometto.»

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