CH. IV
La luce era infernale e faceva caldo. Con un movimento pigro e uno sbuffo insofferente, Victoir insinuò l'indice tra la pelle velata di sudore e il colletto della camicia, allargandolo non più di un paio di centimetri. Non abbastanza da ottenere sollievo, ma più che a sufficienza per dare a intendere quanto starsene seduto sul davanzale di quella finestra, con le spalle appoggiate al muro e la tempia premuta contro il vetro, gli richiedesse uno sforzo.
Ancora qualche minuto, al massimo mezz'ora, e finalmente il sole sarebbe sparito oltre lo skyline newyorkese. Sarebbero servite alcune ore affinché i muri rilasciassero tutto il calore immagazzinato durante la giornata, ma almeno la luce che lo colpiva dritto in faccia si sarebbe estinta.
C'erano tante cose che Victoir detestava, la luce naturale era solo una voce dell'elenco. Eppure, anche la nausea suscitata in fondo all'esofago dalla lunga esposizione ai raggi del sole diventava sopportabile quando non era da solo.
Quando c'era lei.
Per questo motivo era rimasto lì, su un davanzale bollente e con la sgradevole sensazione dei capelli incollati alla fronte, nonostante l'istinto di cercare riparo nella penombra. Perché seduta all'altro capo del davanzale c'era la persona più importante della sua vita, l'unica in grado di stimolare il suo atrofizzato spettro emotivo e dargli l'impressione di essere vivo.
Quei brevi e rari momenti di privacy erano, per Victoir, qualcosa a cui aggrapparsi quando la sua condizione di perpetua apatia non lo faceva sentire diverso da un qualunque soprammobile privo di valore. Erano la sua unica prova di possedere lo stesso diritto di vivere e di inseguire la felicità di chiunque altro.
Ma a che prezzo.
Un quasi impercettibile scatto delle iridi di lei parlò più di qualunque dibattito avessero avuto sul loro legame: non ricominciare, Victoir. Lei riusciva sempre a leggerlo come un libro aperto, come se la sua mimica facciale non fosse stata rasente lo zero. Per quanto convincente, il silenzioso ammonimento non impedì però a Victoir di sospirare con rassegnazione e spostare lo sguardo fuori dalla finestra, sul vialetto alberato che si perdeva nello sfondo rosseggiante del tramonto.
Il frinire delle cicale fu sovrastato dallo scoppiare di una risata cristallina in fondo alla strada brulicante di carrozze, e i suoi nervi già provati non ressero il suono della felicità altrui.
«Così non va bene. Tu meriti di meglio...» biascicò a denti stretti, stringendo i pugni fino a sentire le unghie incidere la carne.
Non gli importava di essere accusato di aver rovinato il loro momento di serenità: a furia di ripeterselo, sperava che prima o poi entrambi si sarebbero convinti a fare la cosa migliore, separarsi definitivamente. Sapeva che nessuno oltre lei l'avrebbe mai amato per quello che era, ma neanche questo gli importava. Tutto ciò che Victoir desiderava era che lei vivesse la sua vita al meglio. Aveva tutto: una famiglia pronta a sostenerla nella realizzazione di ogni suo sogno, un'imbarazzante quantità di pretendenti abbagliati dalla sua bellezza e dal suo carisma, un talento invidiabile e una carriera promettente.
E lei, tra tutti, aveva scelto lui.
L'unica opzione che l'avrebbe distrutta.
Ogni volta che ci pensava, ovvero ogni volta che erano soli e lei non perdeva tempo a cercarlo, Victoir si sentiva la persona più disgustosa del mondo.
Adesso non sapeva più se la nausea era causata dall'afa, dalla calura aggressiva o dalla confusione che si mescolava alla paura di ciò che il futuro aveva in serbo per loro. Lei strinse le labbra, incupendosi; nella quiete allungò la mano, catturando quella di Victoir e cercando poi di intrecciare le loro dita. Lui però si ritrasse all'istante, scottato più dal contatto fisico che dal sole.
La luce che la colpiva alle spalle rendeva ancor più vibrante il biondo dei suoi capelli.
«Io merito quello che voglio. E quello che voglio sei tu, Victoir.»
***
Il fischio del treno affondò nelle sue orecchie, tanto acuto da sembrare vibrargli direttamente nel cervello. Victoir strabuzzò gli occhi, strappato bruscamente a un sonno popolato in parte da sogni, in parte da ricordi.
L'impatto con la realtà fu intenso e maleodorante: lo scompartimento aveva decisamente bisogno di un ricambio d'aria, ma, a giudicare dal gelo che gli puntellava una tempia, i finestrini dovevano ormai essere composti più da ghiaccio che da vetro. Sbatté le palpebre fino a cancellare il velo opaco che ammorbidiva ogni forma nel suo campo visivo, e quando finalmente ogni angolo tornò ad avere la forma di un angolo si scostò dal finestrino e spaziò con lo sguardo sull'esterno. Uno scenario desolato, fatto di campagne che sulla linea dell'orizzonte lasciavano spazio a pendii dei monti Pennini, giaceva sotto un corposo e uniforme strato di neve. Le uniche note di colore erano date dagli alberi, i cui tronchi nodosi si piegavano a ogni folata di vento, e dagli ultimi raggi di sole che faticavano a penetrare la cortina di nuvole plumbee.
Davvero uno schifo.
«Credevo di essere in Gran Bretagna, non nell'Oregon...» commentò con voce ancora impastata dal sonno, per poi distendere braccia e gambe e abbandonarsi a un sonoro sbadiglio.
Poche cose erano piacevoli quanto stiracchiarsi dopo un lungo periodo di immobilità, peccato che lo spazio a sua disposizione fosse così ristretto da infrangersi presto contro un paio di piedi e una borsa.
Lorraine, seduta composta di fronte a lui, non diede segnali di fastidio né alzò gli occhi dal libro che teneva con la mano sinistra a pochi centimetri dal volto. «Il treno è in ritardo a causa della nevicata...» spiegò distrattamente.
L'unico movimento che accompagnò quelle parole fu un frettoloso cacciare dietro l'orecchio una ciocca di capelli sfuggita allo chignon, un gesto che Victoir aveva notato le veniva automatico quando era concentrata. Tentò di leggere il titolo del volume, ma la copertina era troppo nascosta dalle dita affusolate per scorgere più di qualche lettera.
Compreso che difficilmente sarebbe riuscito a fare conversazione, evase di nuovo con lo sguardo sul paesaggio monotono. «Ha nevicato?»
«Abbondantemente, durante le quattro ore in cui hai dormito.» ribatté secca l'assistente col tono di chi non vuole essere disturbato.
Lui però se ne accorse in ritardo, solo dopo aver aggiunto, incredulo: «... quattro ore?»
«Esattamente quattro ore.»
Victoir si appoggiò una mano sulla fronte, massaggiando le tempie col pollice e il medio. Era conscio di aver dormito tanto, ma non così tanto. E non si sentiva neanche rinvigorito, ma anzi stanco e persino stizzito; non aveva messo un oceano tra sé e la sua vecchia vita per esserne comunque perseguitato nei sogni, soprattutto durante un incarico importante.
Rilasciò un sospiro esasperato. «Fosse stato almeno un sonno decente...» e quando rimosse la mano da sopra gli occhi, incontrò lo sguardo pensoso della brunetta, che sembrava aver rinunciato a leggere.
«Ultimamente ti vedo nervoso» disse, correggendosi dopo un secondo di silenzio «cioè, più del solito. Vuoi parlarne?»
«Sarà solo l'arrivo dell'inverno...» Victoir si strinse nelle spalle, senza neanche sforzarsi di sembrare credibile. «Piuttosto, mi è tornata in mente una cosa. Mi spieghi quella faccia davanti al proiettore?»
Le sopracciglia di Lorraine si aggrottarono come se avesse parlato in una lingua sconosciuta. «Riformula. E levati questa terribile abitudine di fare economia anche sulle parole, ti prego. Non puoi essere così pigro...»
Poteva eccome, lo era sempre stato. Da bambino collezionava rimproveri su rimproveri a causa della brutta abitudine di eliminare parole troppo lunghe, articoli e preposizioni dai suoi discorsi. Si portò una mano al mento, riflettendo. Il potere telepatico di Lorraine non funzionava mai quando serviva.
«Mi riferisco a quando il giudice Fitzgerald ci ha mostrato il proiettore. Quando ci ha spiegato come funziona e da dove viene, mi sei sembrata... strana.» mentre Victoir parlava, sul volto di Lorraine riapparve la stessa espressione che l'aveva tanto confuso. «Esattamente come ora. Ecco, è proprio quella la faccia di cui parlavo... ed è colpa mia.» la sua già scarsa vitalità si estinse a metà frase.
Doveva aver detto qualcosa di sbagliato. Tanto per cambiare. Infastidire o ferire le poche persone con cui andava d'accordo era l'ultima cosa che voleva, ma niente sembrava cambiare il fatto che dovesse avere un talento naturale per offendere il prossimo. Il filo dei suoi pensieri, già scatenati nella ricerca di un modo convincente per scusarsi, fu spezzato dallo sbuffo di una risata.
Lorraine aveva di nuovo mutato espressione, come se non fosse accaduto nulla.
«Credo che tu ti stia prendendo gioco di me...» ammise Victoir, non sapendo se doversi sentire in imbarazzo, irritato o umiliato.
«Stai cercando di dire che ti sei preoccupato per me?» la ragazza si sporse in avanti, riempiendo il vuoto tra loro con una mano che andò a scompigliare vigorosamente i capelli del cacciatore. «Che angelo, il mio caro Victoir!»
«E questa credo sia di nuovo ironia...» bofonchiò lui prima di sottrarsi a quella chiara presa in giro; fortuna che nello scompartimento erano completamente soli. «Se non vuoi rispondermi, almeno non giocare con le mie capacità relazionali. È come infierire su un criceto...» non avrebbe potuto trovare una similitudine più adeguata, commentò tra sé e sé.
Prima di raddrizzare le spalle contro lo schienale, l'assistente tirò fuori dalla borsa abbandonata per terra una mantellina nera, che si avvolse intorno alle spalle per contrastare il freddo intenso. Solo allora, nella debole luce soffusa delle lampade installate tra una fila di posti e l'altra, Victoir notò in lei un accenno di occhiaie; doveva essere stanca, dedusse, ma allora perché non approfittare delle ore di viaggio per riposare?
«Devi capire che non puoi pretendere di serbare i tuoi segreti e avere libero accesso a quelli degli altri.» lo rimproverò Lorraine con tono bonario.
Victoir fece spallucce. «Touché.»
«Comunque per stavolta sei fortunato, dato che non si tratta di un segreto. Pensavo solo che quelli della Black Court non cambieranno mai, si ricordano di noi del mondo di sotto solo quando fa loro comodo... quando possono prendere qualcosa e migliorarlo. Lo fanno con le scoperte, con le invenzioni... e neanche le persone fanno eccezione, naturalmente.» avendo concluso, Lorraine spostò lo sguardo fuori dal finestrino.
Finalmente una risposta, che però Victoir non pensava di poter comprendere appieno: non aveva idea di che cosa significasse crescere tra i dimenticati, la sua chance di fare carriera l'aveva avuta servita su un piatto d'argento grazie al prestigio dei genitori. Probabilmente neanche nei momenti più cupi della sua vita, quando si era buttato a capofitto sul lavoro, si era mai impegnato la metà di quanto si impegnava ogni giorno Lorraine. E anche per questo non la portava mai con sé, temeva che cosa sarebbe stata capace di fare pur di raggiungere i suoi obiettivi: le buone intenzioni non hanno sempre un esito positivo.
«Capisco...» annuì, decidendo che fosse meglio non approfondire. «Grazie della risposta. Piuttosto, che ne dici di darci il cambio? Tu dormi e io... non so, contemplo l'inutilità della vita disprezzando il genere umano e cose così.»
Era serio, ma per qualche motivo Lorraine scoppiò a ridere.
«Mi riposerò una volta arrivati ad Alcor East. I preparativi sono il mio lavoro, l'azione il tuo. A tal proposito, mi stavo documentando su Elijah Griffiths e i morrwen, oltre a fare l'inventario del tuo equipaggiamento...»
«Pensavo che la mia solita baionetta bastasse.»
«Haha, spiritoso.»
L'euforia forzata di Lorraine si estinse in un profondo silenzio, e per alcuni secondi non ci furono altro che il fischio del vento contro i vetri e il vibrare sordo delle ruote sulle rotaie. Cacciatore e assistente si fissarono, l'uno in attesa che l'altra aprisse bocca.
Alla fine fu Lorraine a cedere per prima. «Victoir, tu sai cos'è un morrwen, vero?» suonava come una minaccia, e ancor più minaccioso era il sorriso che le incurvava un solo lato delle labbra.
Quasi timoroso, Victoir azzardò una risposta che perse ogni credibilità nel momento in cui la pronunciò. «... un tizio che succhia le emozioni dalle sue vittime?»
La brutalità con cui gli venne passato il libro lo avrebbe colto di sorpresa se non fosse stato allenato. Brontolando una lamentela sconclusionata sulla delicatezza poco femminile, si prese un momento per analizzarlo da vicino: sottile in modo inusuale per una lettrice specializzata in mattoni, per niente fresco di stampa e con un titolo tutt'altro che incoraggiante, Morrwen: indagine su una specie misteriosa.
Magnifico, aveva tra le mani uno studio accademico o qualcosa del genere.
«Molto bello. Penso proprio che lascerò a te i preparativi e me ne tornerò a dormir-...» provò a borbottare, solo per essere interrotto bruscamente.
«Io sono senza parole. I tuoi genitori sono ispettori, e non tra gli ultimi arrivati. Come fai a sapere così poco dell'Overworld?»
Victoir socchiuse gli occhi con malcelato fastidio, lasciando correre lo sguardo di nuovo fuori dal finestrino. Non era la prima volta che gli facevano quella domanda e ancora una volta l'unica risposta che sapeva dare faceva acqua da tutte le parti.
«Non mi sono mai interessato molto a questa roba... oltre lo stretto indispensabile, intendo. New York è piena di stimoli.»
«Ma tu sei qui adesso.»
Di nuovo silenzio. Quelle precisazioni avevano il potere di far evaporare qualunque voglia di conversazione avesse racimolato. Fece ancora una volta spallucce, mentre la porta del vagone si apriva alle spalle di Lorraine. L'ingresso di una coppia di anziani mise momentaneamente fine alla loro discussione, costringendo l'assistente al mutismo e Victoir a non tapparsi il naso per schermarsi dal forte profumo di gelsomino che si diffuse nella carrozza; i due, dopo averli squadrati senza nascondere una buona dose di sorpresa, presero posto nella prima fila, molto distante da loro.
Non passarono neanche tre minuti prima che la ragazza incrociasse le braccia al petto e iniziasse a picchiettarsi un avambraccio, indice di nervosismo chiaro anche per lui. Due giovani della loro età in viaggio da soli attiravano già abbastanza l'attenzione senza bisogno di filippiche su creature da incubo o inverosimili città nel cielo, sebbene Victoir avesse la convinzione che più che il contenuto sarebbe stata la forma dei loro botta e risposta a suscitare scalpore in chi li ascoltava. Era stato più che felice di far propria la rilassatezza tipica dell'Overworld nell'usare il voi con parsimonia, tanto che ora la formalità che impregnava ogni dialogo del mondo di sotto lo infastidiva.
Chiuse di nuovo gli occhi, accorgendosi di avere un lieve mal di testa di fondo probabilmente accentuato dall'intensità del profumo, delicato come una sprangata sui denti. Il soffio del vento si stava gradualmente trasformando in un infuriare che non lasciava presagire niente di buono per l'arrivo. L'interno della carrozza era una cassa di risonanza per la tosse catarrosa del vecchio e i bisbiglii della vecchia, perfettamente udibili per Victoir nonostante la lontananza.
«Caro, pensate che siano scappati di casa? Dovremmo chiamare il controllore?»
«Non ha senso chiamare il controllore se li hanno fatti salire...»
Victoir arricciò il naso: non pensava di sembrare così giovane da ricoprire in maniera convincente la parte dello scanzonato scappato di casa. O meglio, scappato di casa in un certo senso lo era, ma non con la sua fiamma. Pensare a Lorraine come un possibile interesse amoroso era alquanto tragicomico, considerando come i loro caratteri cozzassero in ogni ambito possibile.
Si schiarì la gola, ottenendo un immediato silenzio da parte degli anziani ma non di Lorraine, il cui bisbiglio teso troncò il suo rimuginare.
«Andiamo! Tanto vale usare questo tempo per documentarti a dovere sul tuo nemico! Quando saremo lì potrò farti solo da supporto...»
«D'accordo, d'accordo.» tagliò corto lui, la voce ugualmente smorzata. «Leggerò questa roba dall'aria complottistica. Ma solo a una condizione...» sollevò un dito a mezz'aria, pronto a zittire la protesta che vide subito affiorare sulle labbra dell'assistente. «Io leggo, tu dormi. Non mi servi a niente se non sei al massimo della forma.»
In realtà avrebbe comunque letto quel tomo dall'aria complottistica: era svogliato, sì, ma non al punto da lanciarsi incontro a un nemico di cui non sapeva niente. Tuttavia non sopportava di vedere Lorraine ridotta in quelle condizioni e dubitava che avrebbe avuto una seconda occasione di imporle un po' di riposo.
Sulle prime Lorraine non parve prendere bene l'idea di perdere tempo che avrebbe potuto dedicare ai suoi tanto amati preparativi, ma dopo una lotta di sguardi fiammeggianti, tanto intensa quanto breve, acconsentì con un sospiro rassegnato, annuendo arrendevolmente. Era stacanovista, ma non al punto da lanciarsi incontro a un nemico senza la forza di tenersi in piedi.
Si rannicchiò contro la finestra, appoggiando la fronte al vetro come aveva fatto in precedenza Victoir, e usando il mantello come una coperta finalmente chiuse gli occhi cerchiati di occhiaie.
Victoir rimase in ascolto finché non udì il suo respiro farsi regolare e pesante. Era assurdo dover impedire a una persona di autodistruggersi in favore di un ideale. Una pazzia che lui non avrebbe mai capito.
Finalmente solo con se stesso, adagiò con cura il libro sulle gambe e lo aprì, saltando le prime pagine con le informazioni sull'edizione e il commento dell'autore di cui non gli importava niente.
L'elegante frontespizio, quasi al limite del pomposo, non aveva niente a che fare con la piccolezza dei caratteri del testo. Leggere in quella luce soffocata dalla scadente qualità delle lampadine era tanto difficile che non si sarebbe stupito se Lorraine avesse rimediato un mal di testa ben peggiore del suo in quelle lunghe ore.
Sperava di aver fatto bene a costringerla a prendersi una pausa.
"Specie misteriosa, hm?" l'odore dell'inchiostro sostituì quello del gelsomino; col volto di Elijah Griffiths ancora vibrante nei suoi ricordi, si immerse nella lettura.
[...] "Il primo contatto con una creatura appartenente alla razza dei Morrwen (probabilmente dall'indoeuropeo Mor•wen : "creatura affamata di terrore") risale al secolo IX, quando un bambino del villaggio di Dorselt, a sud di Bonn, fu ritrovato a vagare per le campagne in uno stato quasi catatonico. Condotto dalle forze dell'ordine, affermò che i suoi compaesani erano impazziti in seguito all'arrivo di uno straniero. Quando le forze dell'ordine giunsero sul posto, si ritrovarono a testimoniare una scena tanto grottesca quanto incredibile: tutti gli abitanti di Dorselt sembravano essersi tolti spontaneamente la vita. A oggi quel bambino, la cui identità non è mai stata rivelata, è considerato l'unico superstite ai poteri dei morrwen.
L'episodio di Dorselt, a oggi considerato la più grande strage a opera di un morrwen, ci insegna che le loro capacità di assimilazione di emozioni possono influenzare un gran numero di persone contemporaneamente o comunque nel breve periodo.
Da allora i casi attribuiti all'operato di un morrwen sono divenuti sempre più sporadici e di difficile identificazione, tanto da far ipotizzare che la razza si fosse estinta. È impossibile fare una stima di quanti ne esistano in epoca contemporanea, l'ultima cattura risale infatti al caso di Charles Stokes (luglio 1841, Leicestershire), ma è interessante notare come non ne siano mai stati identificati al di fuori dei continenti europeo e americano.
La loro origine rimane avvolta nel mistero.
Non presentano caratteristiche fisiche visibili a occhio nudo che li differenzino dagli esseri umani. Benché spesso vengano paragonati ai vampiri, i morrwen sono in tutto e per tutto vivi, in possesso di capacità fisiche (quali forza, resistenza, agilità, velocità e soprattutto discrezione) nettamente superiori agli standard umani. Le autopsie hanno però rivelato la presenza di una sezione del lobo frontale, posizionata sopra l'occhio sinistro, dotata di particolari recettori capaci di risucchiare le emozioni altrui e trasformarle in energia vitale.
Il mantenimento delle loro funzioni vitali richiede acqua, cibo ed emozioni, senza queste ultime il corpo si deteriora rapidamente fino a morire di inedia. La morte sopraggiunge generalmente dopo quattro, massimo sei giorni.
I loro poteri sembrano essere controllabili solo in parte e con notevole difficoltà: un morrwen che attinga a una fonte di nutrimento (con questo termine ci si riferirà sempre a creature umane e non-umane provviste di emozioni; non parrebbero infatti in grado di estrapolare emozioni dagli animali) finirà quasi sempre col prosciugare la vittima fino a privarla del desiderio stesso di vivere, come approfondiremo nel capitolo quinto. Perciò distinguere i suicidi dalle vittime dei morrwen richiede un'analisi approfondita il più delle volte inefficace.
Data la loro natura di parassiti di emozioni privi di totale controllo sui propri poteri, non c'è da stupirsi che i morrwen si adoperino per vivere in comunità umane tenendo un basso profilo..."
***
Se Dio esisteva, allora lo voleva morto. Victoir ne era assolutamente certo.
Appena posato il primo piede sulla passerella del binario due era stato investito da un soffio di vento tanto gelido da convincerlo a fare dietrofront e rintanarsi dentro al treno fino al mattino seguente. Lo sguardo severo di Lorraine l'aveva inchiodato ma non dissuaso, almeno finché la piccola fila di viaggiatori formatasi alle loro spalle non aveva cominciato a spingere, rischiando di farli capitombolare entrambi sui binari. Si era dunque arreso con riluttanza all'inevitabile e, bagagli in spalla, era sceso dal treno ed entrato in una cella frigorifera sferzata dal vento.
Quello era stato solo il primo evento di una catena da dimenticare.
La previsione di Lorraine si era rivelata infine corretta: la nevicata, quella infuriata nelle quattro ore in cui lui era praticamente andato in coma, aveva comportato un ritardo a dir poco catastrofico. L'ora di cena ormai incombente e la prospettiva di un viaggio ancora lungo e duro li aveva convinti ad approfittare di una taverna adiacente alla stazione, dove, dopo essersi appartati in un angolo della sala comune con la speranza di non attirare l'attenzione, si erano riempiti a stento la pancia con una misera zuppa dal prezzo esorbitante.
Non contenta di ciò, Lorraine aveva passato quasi tutto il tempo del pasto a interrogarlo su quel che aveva appreso riguardo i morrwen dalla lettura del saggio, reprimendo uno strillo quando Victoir le aveva mostrato il tomo di cui aveva letto solo un terzo.
«Non preoccuparti» aveva cercato di rassicurarla sottovoce, perplesso dal pallore del suo volto «sto solo leggendo con calma per memorizzare tutto. Se il giudice Coleman è poco collaborativo come dicono, allora una volta ad Alcor East avrò tutto il tempo per finirl-»
«Non si tratta di questo, Victoir!» lo redarguì la collega, con l'indice destro che picchiettava sull'angolo di pagina trentuno piegato su se stesso. «Non devi mai fare gli orecchioni ai libri, soprattutto quando sono presi in prestito dalla biblioteca della più importante istituzione dell'Overworld!»
E da quel momento glielo aveva ripetuto con la frequenza di un mantra, offesa come se a subire il torto fosse stata ella stessa, finché Victoir non aveva decretato di avere un nuovo motivo per abbandonarla in futuro alla Black Court.
Dopo la cena si erano dati da fare per organizzare il resto del viaggio. Reclutare un cocchiere era fuori discussione: Alcor East era un Confine tra il mondo umano e l'Overworld, perdipiù costruito in una zona abbastanza fuori mano ai piedi dei monti Pennini. Non avevano altra scelta che procurarsi delle cavalcature e sfidare la notte; viaggiare con la luce del giorno sarebbe stato più conveniente per un'infinità di motivi, ma nessuno dei due se la sentì di mettere a repentaglio la missione aggiungendo altre ore di ritardo alla tabella di marcia.
Le cavalcature furono acquistate da un giovanotto dal sorriso smargiasso e la barba incolta, naturalmente non a un prezzo più clemente di quello della cena. La lamentela sulla bocca di qualunque commerciante era sempre la stessa: le cose non andavano bene e l'inverno in anticipo era deleterio per gli affari, motivo per cui, a malincuore, era necessario alzare i prezzi; non aveva niente a che fare con il loro essere evidentemente non del posto e in difficoltà.
«Non ho parole, ho perso il conto di quanti soldi ci hanno praticamente rubato ad Arlington!»
Cavalcavano ormai da circa quaranta minuti, immersi in un'oscurità al contempo minacciosa e suggestiva, rischiarata dalla luce fredda di una falce di luna e da quella fioca delle lanterne. Ovunque Victoir posasse gli occhi, giungendo con la vista là dove un normale umano non sarebbe mai riuscito, lo scenario era il medesimo di qualche ora prima: morbidi pendii che si alternavano alle sagome spigolose degli alberi imbiancati, da cui di tanto in tanto si levava lo stentoreo bubolare di un gufo.
Non c'erano strade che portassero ad Alcor East, ma fortunatamente la vegetazione non era mai tanto fitta da far temere attacchi di animali selvatici, che in aperta campagna non avrebbero avuto modo di avvicinarsi senza essere avvistati con notevole anticipo.
Doveva ammetterlo: non aveva mai visto tante stelle. Il cielo notturno delle campagne inglesi aveva qualcosa di diverso, di atavico, ipnotico persino per una persona apatica come lui. La tentazione di alzare lo sguardo e lasciarsi incantare dalle scie di stelle era forte, ma il tragitto per Alcor East era ancora lungo e abbassare la guardia sarebbe stato sciocco.
Volse lo sguardo verso Lorraine, che nonostante gli abiti pesanti e il mantello sembrava star patendo il freddo il triplo di lui. Anche quello era uno dei motivi per cui non la portava mai con sé: i viaggi erano sempre impegnativi, talvolta ben oltre il limite dell'estenuante.
«È sempre così.» biascicò, reprimendo un brivido. «Appena capiscono che sono americano si ricordano di avere figli malati, nonne in carriola e micosi alle unghie dei piedi.»
«Dio mio, Victoir, di tutte le immagini che avresti potuto evocare...»
«Ti capisco, anch'io odio i bambini.»
C'era stato un tempo in cui l'orgoglio lo aveva spinto a ribellarsi, anche a costo di compiere a piedi lunghi tragitti o passare le notti all'addiaccio, ma ben presto si era arreso al fatto che non ne valeva la pena. Non era autorizzato a far valere la sua autorità o usare la forza in quasi nessuna circostanza fuori dall'Overworld, e tralasciando fantomatici figli malati, nonne in carriola e improbabili micosi, capiva il disperato bisogno di sopravvivere delle fasce più povere della popolazione. Considerando poi che era finanziato dalla Black Court, in fin dei conti gli importava poco di spendere un po' più del previsto. La cosa davvero importante era ridurre i contatti umani allo stretto indispensabile, così da evitare inutili incomprensioni e grattacapi.
Lorraine non commentò oltre, troppo impegnata a sopprimere i brividi e tentare goffamente di scaldarsi strofinando la mano libera sul braccio con cui teneva a mezz'aria la sua lanterna. Non poteva andare avanti così, di quel passo si sarebbe ammalata ancor prima di mettere piede ad Alcor East.
Gli esseri umani erano così... fragili.
In silenzio, Victoir si sbilanciò verso sinistra per affondare la mano libera in uno dei bagagli e rovistarvi finché non riconobbe, con qualche difficoltà causata dai guanti, la forma sottile e allungata di ciò che stava cercando. L'estrasse e porse all'assistente, colmando più della metà della distanza che li separava stendendo il braccio.
«Cos'è?» Lorraine accettò l'offerta senza indugiare, rivolgendogli da sotto il cappuccio uno sguardo interrogativo non appena riconobbe di cosa si trattava. «... una tavoletta di cioccolato?»
Victoir annuì mollemente. «Aiuta un po' quando fa freddo.» e senza ulteriori spiegazioni, tenendo alta la bandiera del fare economia anche sulle parole, tornò a guardare innanzi a sé, senza interrogarsi né sulla risata sommessa né sul tenue ringraziamento che seguirono.
La domanda che giunse subito dopo, però, lo rigettò nel ciclone delle relazioni sociali.
«Hai mai visto un Confine, Victoir?»
«Un paio.» scrollò le spalle, in un movimento quasi impercettibile sotto il pesante mantello di lana. «Tu no?»
Lorraine rientrò nella sua visione periferica, con la tavoletta di cioccolato già troncata a metà e un sorriso pacato sul volto. «Ne ho solo sentito parlare. Alcor East sarà il primo Confine che vedo coi miei occhi.»
«Non ti sei persa niente, sono città normali nel peggior modo possibile.»
«Se vedere circolare per le stesse strade umani e non-umani rientra nel tuo concetto di normalità, allora spero di diventarne parte prima o poi.»
Per quanto si sforzasse, Victoir non riusciva proprio a comprendere quel viscerale desiderio di appartenere all'Overworld. Non del tutto, almeno. Capiva che la vita di un'orfana dovesse essere abbastanza disperata da cercare ogni scappatoia possibile, tuttavia... quel mondo era pieno di pericoli, di mostri. Perciò gli era tanto difficile accettare che per Lorraine il gioco valesse la candela.
«Sono posti pieni di problemi, e a nessuno piacciono i problemi... comunque l'unico non-umano presente ad Alcor East dovrebbe essere Elijah Griffiths, se mai si farà vivo. Ho sentito dire che al momento l'amministrazione è in mano al giudice Coleman, quindi non entusiasmarti.» concluse col tono di chi non ammetteva repliche.
Per quanto lo riguardava, i Confini non erano altro che pallidi tentativi di utopica convivenza tra i due mondi. Un progetto per un futuro migliore in cui non credeva.
Un altro centinaio di metri fu aggiunto alla distanza che li metteva al sicuro dagli occhi indiscreti di Arlington prima che Lorraine, con voce decisamente più ferma, avanzasse una proposta.
«Dovremmo essere abbastanza lontani da poter usare la Bussola.»
«Credo di sì.» Victoir passò all'assistente la sua lanterna e si tolse il guanto sinistro, sotto il quale un anello particolarmente spesso occupava la falange dell'indice; lo sfilò con un gesto secco, affrettandosi poi a coprire la mano prima che il freddo disperdesse il poco calore che era riuscito ad accumulare. Chinata la testa in avanti, sussurrò al gioiello ora sul palmo della sua mano destra: «Alcor East.»
Ed esso si animò, rivelandosi composto da quattro anelli che, muovendosi a scatti come lancette di un orologio, ruotarono e si intersecarono fino a trasformarlo in una sfera dorata non più grande di due centimetri. Dagli spazi tra un anello e l'altro si diffuse un bagliore fioco e si spiegarono due piccole ali meccaniche, che vibrando forsennatamente riuscirono a spiccare il volo dopo qualche tentativo.
Sebbene si trattasse di un modello piuttosto obsoleto, Victoir sapeva di poter contare sulla sua Bussola, e a riprova di ciò la creatura meccanica compì un paio di evoluzioni per aria, prima di individuare la direzione da seguire e dirigersi verso nord, ronzando nel silenzio luminosa come un fuoco fatuo.
Con un colpo di redini, Victoir spronò il cavallo a muoversi.
Lorraine lo seguì a ruota, avvicinandosi il più possibile per restituirgli la lanterna. «Che bella invenzione, le Bussole!» commentò entusiasta, con l'intramontabile cipiglio di chi mette il naso fuori dalla porta di casa così di rado da rimanere abbagliato un po' da tutto.
«Già.» convenne Victoir, tirando il cappuccio per ripararsi meglio dal freddo sempre più intenso. «Non hai idea di quante volte la mia Bucciola mi abbia salvato dal girovagare a vuoto.»
«Bucciola?»
«Perché è una Bussola che somiglia a una lucciola.» spiegò con una certa vergogna nella voce. Lì per lì gli era sembrato un bel gioco di parole, ma ora che aveva dovuto condividerlo con qualcuno si rendeva conto di quanto fosse infantile.
Lorraine lo adocchiò con evidente curiosità. «Perché hai dato un nome a un oggetto? Non mi sembra una cosa da te.»
Aveva ragione, ma solo in parte. E spiegarne il perché significava invadere di nuovo la sfera personale di cui era tanto geloso. Forse per la prima volta, Victoir desiderò che Lorraine lo leggesse come un libro aperto, senza bisogno che fosse lui a esporsi.
Strinse la presa sulle redini, sulle quali dirottò lo sguardo teso. «È un po' come quando dai un nome a un animale... mi fa sentire più normale.»
Sentire era probabilmente la parola sbagliata; avrebbe pagato qualunque somma per provare la balsamica sensazione di non essere diverso, una creatura priva di una categoria a cui appartenere.
Né umano, né non-umano: nel mezzo.
Il tocco gentile di una mano sull'avambraccio lo riportò al presente, alle colline innevate del Durham, alla Bussola che tracciava scie luminose puntando verso nord, a una missione assegnatagli proprio in virtù del suo essere uno scherzo della natura, e a Lorraine, che lo fissava intensamente, con un'emozione sul volto che Victoir riconobbe senza difficoltà.
Era pietà.
«Victoir, tu non hai bisogno di queste cose. Sei normale tanto quanto me, solo a modo tuo come io lo sono a modo mio.»
Invece di consolarlo, quelle parole accesero una fiamma di irritazione in lui: non aveva acconsentito a portarla con sé per sentirsi trattare come un bambino ancora troppo piccolo per affrontare le asperità della vita.
«Non prendermi in giro.» si scostò con un movimento brusco, spezzando il contatto visivo e spronando il cavallo al galoppo.
Un centinaio di metri più avanti, la Bussola faceva vibrare le sue ali meccaniche in attesa che la raggiungessero.
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