CH. III
Victoir odiava la burocrazia, e neanche l'anomalia che affliggeva il suo spettro emotivo era in grado di attenuare tale profonda avversione. La burocrazia lo costringeva a pettinarsi e rendersi presentabile, uscire dalla sua camera e sprecare tempo, incontrare persone e averci a che fare. Ma soprattutto lo costringeva a fermarsi e pensare, e lui quel lavoro dal ritmo sfiancante l'aveva scelto appositamente per non trovarsi mai nella logorante circostanza di dover rigirarsi i pollici nell'attesa di parlare con qualcuno. Non a caso scaricava ogni impellenza burocratica su Lorraine, senza nascondere che fosse il suo preferito tra i vantaggi dell'avere un'assistente.
Tuttavia c'erano obblighi a cui neanche lui poteva sottrarsi, tra i quali una convocazione del giudice Fitzgerald.
«Secondo te sono presentabile?»
Lo sguardo indolente di Victoir dardeggiò dal proprio riflesso sul pavimento all'assistente con cui procedeva spalla a spalla. Con un paio di passi laterali si distanziò quanto bastava per squadrarla dalla testa ai piedi, senza che il rischio di sembrare invadente lo impensierisse più di tanto. Lorraine aveva posto una domanda a cui intendeva rispondere con il massimo della serietà, del resto sapeva bene quanto fare una buona impressione fosse per lei essenziale.
Era nel complesso una bella ragazza; non il suo tipo, ma comunque innegabilmente attraente, pertanto essere quantomeno presentabile non le era difficile. Sapeva valorizzare i suoi punti forti, come i capelli morbidi raccolti in una coda di cavallo, e distogliere l'attenzione da quelli deboli, come le poche curve celate dalla mantellina della divisa. Il cammeo appuntato sul colletto testimoniava l'attenzione che dava ai dettagli, senza però dimenticare l'importanza di un'andatura dignitosa.
Benché cresciuta in un ambiente degradato, i pochi anni vissuti alla Black Court avevano fatto di Lorraine una donna abbastanza di classe.
Al termine del suo esame, Victoir annuì con convinzione. «Ti ho vista in condizioni peggiori.»
«Mi consola pensare che tu mi abbia vista in condizioni peggiori...» Lorraine esalò un sospiro di sollievo e tornò a rivolgere lo sguardo davanti a loro.
Per un altro paio di minuti proseguirono in silenzio, accompagnati dal brusìo stentoreo dei motori e dell'eco secco dei loro passi. La sezione amministrativa era tra gli ambienti più maestosi che Victoir avesse mai visto; ogni qualvolta vi bazzicava non poteva fare a meno di lasciar vagare lo sguardo sul soffitto ad arco decine di metri sulla sua testa o sui mastodontici ingranaggi che, all'interno di teche di vetro, facevano da muri. Una volta un tipo gli aveva spiegato che non si trattava di mera estetica, ma di una complessa opera di ingegneria necessaria al mantenimento di una struttura all'avanguardia come la Black Court. Victoir non aveva memorizzato né il tipo né il discorso.
Più per abitudine che per il concreto rischio di rimanere abbagliato, dirottò lo sguardo sul tappeto appena varcarono l'ingresso della galleria, dove il soffitto era sostituito da una cupola. La luce del sole non lo debilitava in alcun modo - il che era un po' un miracolo -, ma lo infastidiva abbastanza da annerire il suo umore.
Peccato che, lentamente, il ritmo dei passi fu sovrastato da un vociferare sommesso che suggerì a Victoir che ben presto il suo umore si sarebbe comunque annerito. Un brontolio gli risalì la gola, suscitando lo sbuffo di una risata nella sua accompagnatrice.
«Pronto a essere giudicato?»
«Quello tutti i giorni. È la puzza di decomposizione che non reggo...»
In fondo al centrale dei cinque corridoi in cui si estingueva la galleria, un modesto numero di sedie e divanetti era stato preso d'assalto da uomini perlopiù di mezza età, che cessarono bruscamente ogni conversazione quando notarono il sopraggiungere del duo. Victoir riconobbe un paio di funzionari, un cacciatore veterano con cui aveva scambiato qualche saluto di circostanza e altri volti che non riuscì a ricollegare a nessuna mansione specifica.
Più di un paio di occhi squadrò frettolosamente Lorraine per poi arenarsi con aperta ostilità su di lui, che ben presto si ritrovò a fronteggiare con insolenza una selva di sguardi affilati in una guerra inutile contro chi sapeva non gli avrebbe riservato altro che disprezzo. Chi dettava le regole non gradiva gli scherzi della natura come lui, imprevedibili e incontrollabili.
Nonostante tutto, la voce di Lorraine risuonò squillante e cristallina. «Buon pomeriggio, signori.»
Il cacciatore roteò gli occhi: far buon viso a cattivo gioco non era tra le sue attività preferite. Per quanto si sforzasse non riusciva proprio a capire dove Lorraine trovasse la voglia di avere a che fare con quei vecchi testardi e arroganti che, sfortunatamente per loro, si occupavano di un po' troppe cose nella Black Court. Avevano affrontato l'argomento in più di un'occasione, ma Lorraine l'aveva liquidato con una sbrigativa e poco credibile giustificazione basata sull'essere del segno zodiacale del sagittario e, di conseguenza, incapace di non raccogliere una provocazione.
Superarono le sedie occupate dai burocrati in attesa e si fermarono innanzi a un leggio, sul quale troneggiava un registro aperto alla data odierna. Firmarono in corrispondenza del riquadro che attestava che il loro ricevimento avrebbe avuto luogo in meno di tre minuti, e nel momento in cui la punta della penna si sollevò dall'ultima linea l'inchiostro fu pervaso da un fioco bagliore azzurro.
Marianne Fitzgerald era stata ufficialmente informata della loro presenza.
Victoir era profondamente affascinato dalle singolari invenzioni che erano parte della vita quotidiana della Black Court, sebbene spesso lo lasciassero con più domande che risposte. Non era però abbastanza interessato da volerne indagare a fondo ogni caratteristica, la curiosità rientrava tra le qualità di Lorraine. Ad esempio, dei registri come quello gli bastava sapere che ciascuna copia sparsa per l'Overworld trasmetteva le informazioni ivi trascritte ai tomi madre, conservati sotto chiave dal Curatore dell'archivio.
Notando la moltitudine di firme, Victoir si sporse verso la collega per commentare sottovoce. «Certo che ne hanno di tempo da perdere, per essere qui con una, due... due ore e mezza di anticipo?»
La risposta fu un'occhiataccia ammonitrice e l'inconfondibile suono di qualcuno che si schiariva la gola alle sue spalle, grazie a cui Victoir si ricordò dell'ottima acustica del corridoio.
«Non dovevo dirlo.» dedusse con tono asciutto.
«Non dovevi dirlo.» confermò Lorraine.
***
Lo studio privato di Marianne Fitzgerald era la nemesi di coloro che soffrivano di vertigini, e per sua sfortuna Lorraine ne faceva parte. Victoir la sentì trattenere il respiro nel momento in cui varcarono la porta, che si chiuse con uno scatto secco lasciandoli soli con il giudice, il suo assistente e la vista mozzafiato dell'orizzonte londinese tutto intorno a loro.
In quella stanza non esistevano muri a parte quello che coincideva con l'ingresso, solo finestre. Era impossibile non dardeggiare con lo sguardo sulla città oltre ventimila metri più in basso, tanto impressionante da obliare persino colei che avrebbe dovuto catalizzare l'attenzione. Victoir non aveva mai compreso il perché di una scelta estetica così bizzarra, ma né l'afa estiva né il gelo invernale rendevano l'ambiente invivibile e persino la luce, che avrebbe dovuto essere abbagliante, era invece tenue. Il tutto si riduceva dunque a, effettivamente, una mera scelta estetica.
Una voce femminile, cordiale ma priva di inflessione emotiva, fece confluire gli sguardi dei due giovani sulla figura seduta alla scrivania. «Buon pomeriggio mister Evans, lady Winchester.»
Lorraine si affrettò a ricambiare il saluto con un inchino. «Giudice Fitzgerald, grazie per averci ricevuti con così poco preavviso.»
Victoir si limitò ad abbassare rispettosamente il capo.
Marianne Fitzgerald aveva la rara capacità di essere al contempo anonima e insolita. Una donna uguale a tante altre nella statura media e nella corporatura esile, nei capelli biondi striati di bianco e nel vestiario sobrio. Non la si sarebbe riconosciuta in mezzo alla folla, non ci si sarebbe aspettati di trovarla in un luogo diverso da un salotto dell'alta società, non la si sarebbe presa troppo sul serio se non fosse stato per l'atteggiamento. Era infatti nel portamento, nei modi di fare, nell'intonazione della voce e nell'intensità dello sguardo che il giudice si rivelava il perfetto connubio tra un'aristocratica e una persona di potere. La natura le aveva donato una personalità da leader e la vita, che non era stata affatto clemente nei suoi confronti, aveva fatto di lei una guida. E questo non andava bene a talmente tante persone che Victoir dubitava che ella avrebbe lasciato quel mondo in maniera naturale.
Marianne mise momentaneamente da parte i fogli che stava leggendo per rivolgersi al suo assistente. «Puoi lasciarci soli, Leonard.»
Ma Leonard non si mosse, almeno finché un'occhiata obliqua del giudice non parve dargli una vigorosa spinta in avanti. Con un'occhiata rovente, che Victoir capì essere tutta per lui, l'uomo chiamato Leonard tolse il disturbo.
Finalmente soli, Victoir si concesse un sospiro rassegnato. «Credo di detenere il primato di persona più indesiderata della Black Court...»
«Se davvero ambisci a quel primato allora ho una brutta notizia per te: ne hai di strada da fare.» Marianne accolse il suo commento con una risata sommessa, producendo un breve stridio con la sedia mentre si alzava. «Leonard è solamente zelante.»
Il sotteso era chiaro, ma solo Lorraine parlò. «Immagino non si fidi di noi...»
Il primo istinto di Victoir fu di sottolineare che colui di cui nessuno si fidava era ovviamente e solamente lui, ma preferì evitare di incupire la conversazione e piuttosto rivolse un sorriso beffardo alla ragazza ancora al suo fianco.
«Ovvio. Chi mai si fiderebbe di uno gnomo incapace di impugnare un'arma?»
E Lorraine, come sempre, non perse tempo a rispondere a tono. «Se volessi far fuori qualcuno, mio caro, non avrei bisogno di un'arma. A differenza di te.»
«Heh. A che mi serve un'arma quando io stesso sono un'arma, mia cara?»
Il loro frivolo battibecco suscitò una seconda risata cristallina nel giudice. Marianne non doveva avere molte occasioni per divertirsi, a giudicare da come sembrava rilassarsi quando era in loro compagnia.
«Piuttosto» prese parola il giudice, ottenendo subito il silenzio dei ragazzi. «ho saputo che qualcuno è partito di nuovo da solo.»
Il suo sguardo serafico, così come il successivo commento mordace di Lorraine, furono tutti per Victoir.
«Sta parlando del tuo complesso dell'eroe.»
Il cacciatore inarcò un sopracciglio. «Ho solo cercato di tenerla al sicuro...»
Non riusciva proprio a capire cosa ci fosse di così inaccettabile. Conosceva le ambizioni di Lorraine e la stimava per l'impegno e la costanza con cui pian piano si stava facendo largo nella Black Court, ma le sue missioni erano spesso troppo pericolose per un'umana e la triste verità era che lui era bravo a combattere, non a proteggere.
Victoir era una spada, non uno scudo.
«Le buone intenzioni non hanno sempre un esito positivo.» Marianne interruppe il suo cupo rimuginare, sorridendogli ingentilita. «Il tuo desiderio è nobile, Victoir, ma prova ad avere più fiducia nei tuoi alleati. A ogni modo, mi solleva vederti sano e salvo.»
Quelle parole gli donarono un po' di pace. Era ancora ben lontano dal sentirsi a suo agio, ma la tensione era stata smorzata abbastanza da spingerlo a scrollare le spalle. «Era solo un poltergeist. Serve ben altro per mettermi in difficoltà.»
Un'istantanea gomitata da parte della sua assistente gli suggerì di aver risposto nella maniera sbagliata. Victoir avvertì a malapena una pressione contro l'avambraccio, a riprova di quanto affermato sulla carente forza fisica di Lorraine.
«Un po' di umiltà!» fu redarguito.
«Ma... è solo la verità...»
Il suo magro tentativo di giustificarsi si esaurì in un sospiro di Lorraine. Forse non aveva scelto le parole più adatte, ma era vero che le occasioni in cui si era finora ritrovato con le spalle al muro si contavano sulle dita di una mano. Le cacce erano il più delle volte lunghe e ripetitive, complice la confusione che la sua complicata natura generava nei superiori, i quali non avevano ancora capito che grado di rischio potesse correre senza rimanerci stecchito.
«In tal caso, troverai il tuo prossimo incarico più stimolante.»
Con quelle parole Marianne lasciò intendere che la parentesi spensierata era finita: da quel momento erano di nuovo il giudice Fitzgerald e i suoi subordinati. Lorraine tornò subito seria e raddrizzò la schiena, seguita a ruota da un Victoir leggermente svogliato. Per tutta la vita aveva pensato a Marianne Fitzgerald come una cara amica di famiglia, quasi al pari della nonna paterna che non aveva mai conosciuto, pertanto pensare a lei come a un datore di lavoro e comportarsi adeguatamente non gli veniva spontaneo.
La donna attraversò con calma flemmatica l'ufficio, tornando alla scrivania dove prese ad armeggiare con qualcosa a cui Victoir non aveva prestato attenzione da quando erano arrivati: non avrebbe saputo come definirlo se non un ammasso di ferraglia. Considerato però quanto la Black Court fosse piena zeppa di ammassi di ferraglia, riconosceva che non era la più precisa delle definizioni.
«Cos'è?» chiese, ma istintivamente si mosse con tale rapidità da raggiungere Marianne ancor prima di darle il tempo di rispondere.
Entrambe le donne sussultarono: Lorraine rumorosamente, Marianne appena. Nei suoi occhi strabuzzati Victoir vide un moto di sgomento misto a timore, emozioni con cui si scontrava tanto di frequente da riconoscerle ormai senza difficoltà.
Si immobilizzò anche lui.
Chiunque sarebbe stato assalito dalla paura, ma non Marianne. Lei lo conosceva da prima che venisse al mondo, lo aveva visto crescere e aveva sempre supportato suo padre nelle indagini sul mistero che avvolgeva la sua natura. Marianne non aveva paura di lui, e proprio per questo Victoir si sentì come un bambino che abbia inavvertitamente rotto qualcosa di molto prezioso. Mortificato, sconfortato. Era ingiusto che le poche emozioni che percepiva con un minimo di nitidezza fossero proprio quelle che non avrebbe voluto provare.
Col silenzio che pesava sulle sue spalle e due paia di occhi puntati addosso, Victoir abbassò la testa in preda a una profonda vergogna. «... chiedo scusa.»
Ma il suo bisbiglio fu spazzato via dall'improvviso scoppio di un frastuono metallico intorno a loro, tanto forte da vibrargli nelle orecchie fino a fargli digrignare i denti. Victoir sobbalzò e dardeggiò con lo sguardo sulla stanza, realizzando che in realtà niente era cambiato. Si fermò solo quando notò la fronte distesa e le labbra incurvate in un sorriso comprensivo di Marianne, e allora capì: qualunque fosse stata la causa di quel fracasso, ella la conosceva e non la reputava anomala né pericolosa.
«Va tutto bene.» lo rassicurò, per poi invitarlo con un composto movimento del braccio a guardare più da vicino l'apparecchio.
La preoccupazione era però ancora troppo vivida in lui per concentrarsi su qualcosa che non fosse la causa del rumore, ora meno assordante ma comunque persistente. Il suo udito ipersviluppato suggeriva che provenisse da fuori, tuttavia furono necessari alcuni lunghi secondi perché si rendesse conto che quello che aveva sempre creduto un normale telaio fosse provvisto di lastre, che in quel momento si stavano chiudendo sui vetri come gigantesche imposte. Era senza parole: tutto quel rumore solo per spegnere le luci, in sostanza.
In meno di un paio di minuti l'ufficio sprofondò in una penombra falciata da sporadici fasci luminosi sfuggiti alla copertura. Doveva logicamente essere stata opera di Marianne, ma quale poteva essere il motivo? Victoir cercò risposta in Lorraine, che durante l'incalzare delle tenebre si era avvicinata e ora sembrava disorientata quanto lui.
«Va tutto bene, sono stata io.»
Una debole luce si accese nella visione periferica di Victoir, alla sua sinistra. Si trattava di una misera lampadina dalla testa allungata e tutta l'aria di aver vissuto giorni più gloriosi, che con caparbietà teneva duro nonostante i continui cali di tensione.
La luce aranciata si estendeva fino a enfatizzare il biondo dei capelli di Marianne, ancora nella stessa posizione in cui Victoir l'aveva lasciata prima del cambio di atmosfera. Sembrava avere a cuore che lui soddisfasse la sua curiosità, soprattutto dopo la gaffe, così decise di assecondarla e si piegò sulle ginocchia per osservare più da vicino, inclinando la testa per analizzare nel dettaglio ogni componente.
«Si chiama proiettore.» spiegò il giudice.
L'oggetto chiamato proiettore non sembrava altro che una piccola scatola di legno pregiato montata su un appoggio massiccio, sulla cui parte frontale si avvicendavano cinghie e bobine che a Victoir ricordarono dei rocchetti. Come se non fosse stato già abbastanza incomprensibile, sulla sommità spiccava un cilindro munito di lente.
«È una nuova trovata della sezione ricerca?» azzardò.
«Tutt'altro. Il prototipo viene dal mondo di sotto, anche se con un altro nome e un'altra funzione. I nostri esperti l'hanno solo perfezionato.»
«Hai capito, gli umani...»
Talvolta erano davvero pieni di sorprese, doveva riconoscerlo. Quella umana era una realtà che non aveva mai realmente vissuto, pur essendo cresciuto nel mondo di sotto; così come, in effetti, non aveva mai sperimentato neanche lo stile di vita dell'Overworld. Tutto a causa della scelta dei suoi genitori di camminare sul sottile confine tra i due mondi, col risultato che Victoir non sentiva di appartenere né all'uno né all'altro.
Quell'apparecchio apparentemente insulso aveva avuto il potere di farlo di nuovo precipitare nella sensazione di essere fuori posto.
«E a cosa serve?»
Victoir batté le palpebre, riportato alla realtà dalla voce di Lorraine; si era talmente isolato da non accorgersi della presenza di lei al suo fianco. Raddrizzò la schiena e indietreggiò, notando nel tono dell'assistente una nota stonata a lui incomprensibile.
Marianne fece loro il favore di evitare una lezione teorica e rispondere coi fatti, un'abitudine molto apprezzata dal cacciatore. Con un rapido tocco sul lato nascosto del proiettore fece scattare qualcosa, forse una molla, che lo mise in funzione; un brusìo poco promettente si dilungò per un tempo che a Victoir parve interminabile, finché dalla lente non eruppe un fascio di luce che si riversò sull'unica parete dell'ufficio.
Adesso, a quattro metri da loro, un uomo sulla quarantina sedeva a un banco e li fissava con occhi incavati. La prima impressione che Victoir ne ebbe fu tanto contraddittoria da togliergli la parola. Sugli abiti e i capelli impeccabili, come se fosse appena uscito di casa o avesse avuto ogni comodità domestica a sua completa disposizione, troneggiava il volto di una persona digiuna da giorni, con la pelle che aderiva agli zigomi e ai lineamenti duri conferendogli un aspetto ferino. Trattandosi di un'immagine in bianco e nero era impossibile capire se fosse pallido, ma era ovvio che non stesse bene. Affamato oltre il sopportabile e al contempo ineccepibile, una beffa alla logica che, in mancanza di empatia, era tutto ciò a cui Victoir poteva aggrapparsi nella sua perpetua lotta per decriptare il mondo.
La sua analisi fu interrotta da una voce distorta fuoricampo. «Imputato Elijah Griffiths, in piedi.»
Lorraine soffocò un gridolino. Victoir dardeggiò con lo sguardo sul proiettore, che aveva immediatamente identificato come fonte del suono, e quando tornò a guardare l'immagine sulla parete vide l'uomo al banco eseguire l'ordine.
«... è reale?» domandò sottovoce, quasi temendo di spezzare la magia; non capitava spesso che qualcosa lo turbasse tanto, la sua mente era già al lavoro sul trovare una spiegazione a quel che stava vedendo. «È una specie di lanterna magica?»
Le lanterne magiche erano giocattoli particolarmente amati da suo padre, grazie ai quali lui e sua sorella erano cresciuti viaggiando con l'immaginazione tra scenari sconosciuti e animali esotici. Il proiettore però aveva qualcosa che alle lanterne magiche mancava: la capacità di riprodurre i suoni, come un grammofono.
«È una registrazione di fatti accaduti ormai sette settimane fa, quando abbiamo arrestato due morrwen. Memorizza questo volto, Victoir.» spiegò Marianne, subito sovrastata da una seconda voce fuori campo in cui Victoir riconobbe il giudice Moore.
«Siete accusato degli omicidi di sette vostri pazienti, o più realisticamente di un numero incalcolabile di vittime umane e non umane. La legge prevede la pena capitale per i morrwen, su questa terra non c'è spazio per la vostra razza e voi lo sapete bene. Eppure avete comunque chiesto un'udienza... questa è l'unica occasione che vi sarà concessa per perorare la vostra causa.»
A dispetto delle condizioni in cui versava, Elijah Griffiths era un uomo dal portamento dignitoso, e per avere sulla coscienza almeno sette persone, o più realisticamente un numero incalcolabile, sembrava sorprendentemente padrone di se stesso. La qualità dell'immagine era infima, ma Victoir riusciva comunque a leggere sul suo volto denutrito una determinazione lapalissiana persino a lui; ancor più che dalla magia del proiettore, a turbarlo ora era la facilità con cui aveva riconosciuto lo stato d'animo del condannato a morte, di cui si scoprì ad attendere con trepidazione la risposta.
Ma questa gli fu negata.
La registrazione fu interrotta prima che Elijah potesse aprire bocca, e la parola che gli sarebbe dovuta spettare fu rubata da Marianne.
«Circa tre mesi fa abbiamo arrestato due morrwen. Il primo è morto, il secondo è riuscito a sfuggire ai nostri flagellanti prima di essere giustiziato.» incrociò le braccia al petto, senza distogliere lo sguardo severo dall'immagine proiettata sul muro. «Elijah Griffiths è in fuga da sette settimane, durante le quali ha ucciso tre degli otto membri della corte da cui fu ascoltato quel giorno.»
Victoir cominciava a mettere insieme i pezzi del puzzle. La Black Court gli aveva ordinato quella deviazione per sincerarsi delle condizioni del giudice Moore, anticipandogli che forse sarebbe comunque arrivato troppo tardi; ma la verità era che, tra tutti i dipendenti in giro per l'Inghilterra, avevano scelto proprio lui perché si sospettava il coinvolgimento di un morrwen.
Ora sapeva dove sarebbe andato a parare il discorso di Marianne. Nonostante il pressante istinto di interromperla per fare la fatidica domanda che già aleggiava nell'aria, la lasciò proseguire.
«Ci siamo già mobilitati per trasferire alla Black Court i restanti giudici, ma uno di questi ha rifiutato di lasciare la sua abitazione. E sfortunatamente, se Elijah Griffiths continuerà a risalire l'Inghilterra come ha fatto finora si tratta proprio della prossima vittima. Perciò non c'è tempo da perdere.»
Calò un silenzio teso, durante il quale Victoir riallacciò lo sguardo con quello immobile del morrwen sulla parete. Era strano, quasi disturbante pensare che una persona all'apparenza tanto distinta fosse in realtà un navigato pluriomicida.
«Quindi è lui il mio prossimo obiettivo? Elijah Griffiths.» chiese finalmente, andando dritto al punto.
A rispondergli non fu la voce calma di Marianne, ma quella inusualmente acuta di Lorraine.
«Non voglio mancarvi di rispetto, giudice, ma pensate davvero che Victoir possa fronteggiare un morrwen?»
Questo non se l'aspettava. Proprio Lorraine, costantemente in prima fila per accaparragli le missioni migliori, adesso esternava delle remore. Victoir non faticava a intuirne il motivo, dopotutto un morrwen era un avversario decisamente pericoloso, ma avvertì comunque un pizzico di delusione bruciare in fondo allo stomaco.
«Non hai fiducia in me?» si fece avanti con tono accusatorio, fronteggiando la ragazza sul cui viso si alternavano troppe emozioni troppo velocemente perché potesse identificarle; sperò che tra esse ci fosse almeno un po' di pentimento.
Lorraine si strinse nelle spalle e indietreggiò, evitandolo. «Non si tratta di questo. Un morrwen è...»
«Lo so molto bene cos'è, Lorraine. Ho visto a casa Moore cosa può fare. Tutte quelle persone impiccate... non ho idea di cosa sia accaduto, ma credo che si siano tolte spontaneamente la vita.»
Più parlava, più la voce di Victoir perdeva veemenza e velocità; il moto di fastidio si era estinto con la stessa rapidità con cui venuto a galla, e ben presto il cacciatore tornò a sprofondare nella fredda imperturbabilità che era la sua condizione abituale. Non aveva senso prendersela con Lorraine per aver cercato di proteggerlo come lui aveva fatto tante volte con lei. Doveva riconoscerlo: gli stava bene. Però...
Il cono di luce del proiettore, e con esso il volto di Elijah Griffiths, fu d'improvviso inghiottito dal buio. Le coperture metalliche stridettero ancor più penetranti per poi muoversi nel senso d'apertura. La magia tecnologica del proiettore era finita e il giudice Fitzgerald si ergeva ora davanti ai due subordinati, i lineamenti inaspriti dalla luce che lentamente rimodellava le ombre sul suo viso.
«Probabilmente li ha privati della speranza. È così che i morrwen inducono le loro vittime al suicidio senza sporcarsi le mani.» spiegò, pragmatica.
«Ma lui se le è comunque sporcate, le mani. Il giudice e il cocchiere sono stati freddati e la signora torturata.» la corresse Victoir.
Lei annuì. «Quest'esplosione di violenza era preventivata, faceva parte di una vendetta malata. Di questo passo, il giudice Coleman potrebbe andare incontro a un destino peggiore della morte.»
Con un battito di ciglia Victoir si ritrovò di nuovo sul luogo del massacro, tanto vivido nella sua memoria da poter descrivere con dovizia di particolari ogni sensazione, dall'aria satura dell'olezzo di morte alla freddezza della balaustra che gli premeva contro la schiena mentre, immobile sulle scale, analizzava i corpi martoriati dei signori Moore e il sangue che imbrattava il muro con un grottesco bentornato a casa, papà.
Per quanto pericoloso, non poteva permettere che un altro bambino rimanesse orfano.
Quando il ricordo scemò, nella luce soffusa che rischiarava l'ufficio, vide Marianne rivolgersi a Lorraine.
«Capisco i tuoi dubbi. Per quanto Victoir stia conseguendo ottimi risultati, un morrwen rimane un avversario temibile anche per un cacciatore navigato. Tuttavia...»
Victoir non poteva sopportare oltre. «Io posso combatterlo.» si fece avanti, ignorando lo stupore che si palesò nelle espressioni delle due donne. «I morrwen dipendono completamente dalle emozioni altrui, perciò mandare me è strategicamente vantaggioso. Il giudice Fitzgerald ha ragione: non c'è tempo da perdere, Elijah Griffiths deve essere fermato.»
Per lui il discorso era chiuso, e per qualche secondo l'unico suono che alleggerì il silenzio fu il puntellare della pioggia sui vetri.
Lorraine annuì finalmente, sconfitta. «D'accordo.» sospirò. «Non che io abbia comunque il potere di rifiutare un ordine del giudice Fitzgerald...»
Victoir le fu grato, non solo per aver acconsentito. La discussione finalmente poté vertere su argomenti di carattere più pratico: come arrivare alla meta e dove avrebbero soggiornato, le mansioni da svolgere e gli obiettivi da raggiungere, cosa fare in caso di imprevisti e come avrebbero dovuto fermare, e se possibile uccidere, Elijah Griffiths.
Seguire con attenzione le istruzioni del giudice non fu affatto semplice, non con il volto impenetrabile di Elijah Griffiths che troneggiava prepotente tra i pensieri di Victoir. Il cacciatore non sapeva cosa pensare. La sua determinazione nel voler consegnare l'assassino alla giustizia era granitica, eppure qualcosa non gli tornava, c'era un tarlo insistente che non riusciva a identificare.
Lasciò che fosse Lorraine, come sempre, a svolgere il ruolo di cervello della squadra, mentre lui si limitava ad annuire e di tanto in tanto evadere con lo sguardo sulla città.
Promise a se stesso che quella non sarebbe stata l'ultima volta che vedeva Londra.
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