CH. II
Il pavimento vibrava come se fosse stato percorso da continue piccole scosse telluriche. Il rombo stentoreo dei motori dell'aeronave era tanto forte da impedirgli persino di ragionare - il che, considerati gli eventi della notte appena trascorsa, non era del tutto negativo.
Il cacciatore osservò il cancello di ferro dell'ascensore chiudersi sul volto emaciato della figlia dei Moore e della persona che l'aveva presa in custodia, una donna dal cipiglio austero che li aveva intercettati con passo incalzante appena a bordo della Black Court. Sospettava che non avrebbe mai più rivisto quella bambina, eppure, come tutti i sopravvissuti che aveva avuto modo di conoscere nelle sue missioni, ella sembrava stesse portando via qualcosa di lui.
Lasciò che un sospiro pesante gli sfuggisse dalle labbra, condensandosi appena un attimo prima di sparire. Era solo. Finalmente solo, col ricordo grottesco della carneficina che riaffiorava a ogni battito di ciglia - orribile, ma comunque preferibile al silenzio funereo del viaggio con la bambina di cui non aveva chiesto il nome. Il rientro alla Black Court era durato appena tre ore, ma lui le aveva percepite dilazionate come se fossero state una scorta di cibo da cui dipendeva la sua vita.
Rivolse gli occhi esausti alla finestra più vicina, oltre la quale Londra indugiava ancora nel sonno e il sole, sullo sfondo di un cielo fiammeggiante, ne accarezzava i tetti coi primi raggi tiepidi, riflettendosi come oro sulle acque placide del Tamigi. Vista da quell'altezza, soprattutto senza coltri di nubi plumbee o cortine di fumo delle fabbriche ad affumicarla, l'alba era sempre uno spettacolo, ma quel giorno il cacciatore era troppo stanco e indolenzito per goderne come faceva di solito.
Distolse immediatamente lo sguardo, che per ingannare l'attesa abbracciò l'imbarco nella sua spropositata grandiosità. Ancora oggi, sebbene tecnicamente vi abitasse da quasi un anno, faticava a dar credito al miracolo di ingegneria e magia che teneva quell'enorme aeronave sospesa nei cieli di una delle più popolate capitali europee. Ogni tanto si chiedeva che reazione avrebbero avuto i londinesi se il velo di invisibilità che celava l'esistenza della Black Court fosse venuto meno anche solo per un minuto - domanda alla quale seguiva sempre una convinta speranza di non essere presente se e quando la cosa fosse mai avvenuta. In appena qualche ora quel luogo sarebbe stato preso d'assalto dall'incredibile quantitativo di persone che ogni giorno andavano e venivano dalla Black Court, e che lui avrebbe naturalmente fatto carte false per non incrociare. L'ultima cosa che voleva era rimanere imbottigliato in una folla composta al sessanta percento di sbuffi e al quaranta percento di occhiatacce indirizzate a chi, come lui, aveva la precedenza.
Non appena il fracasso dell'ascensore cessò, avvisandolo che si era liberato, il cacciatore tirò la leva per richiamarlo e si dispose ad attendere con le braccia incrociate al petto e gli ultimi residui di pazienza di cui disponeva che scivolavano via, sforzandosi di ignorare i macchinisti e i meccanici che cominciavano a darsi il cambio coi colleghi del turno successivo. Che gli inglesi fossero discreti e silenziosi era una grande bugia. Sembravano competere coi motori a chi faceva più baccano... o a chi gli avrebbe fatto saltare i nervi per primo. Non appena alla vista delle corde si accompagnò la figura squadrata dell'ascensore, il cacciatore ne seguì la lenta discesa con un'urgenza man a mano più visibile nel picchiettare incessante della punta del piede contro il cancello di ferro. Infine si fiondò all'interno della cabina e dardeggiò con occhi roventi sulla piccola folla che in pochi momenti sparì dal suo campo visivo.
Appoggiò le spalle alla parete dell'ascensore e cominciò a massaggiare circolarmente le tempie con le punte delle dita, esalando un altro sospiro. Di nuovo, gli bastò socchiudere gli occhi per ritrovarsi in piedi tra due file di cadaveri appesi.
«Andiamo...» non immaginava di trovare chiare tracce di stanchezza persino nella propria voce. «Ho visto molto di peggio. Non può avermi impressionato così tanto...»
Ma la verità era molto diversa, e lui ne conosceva bene il motivo. Scrollò e raddrizzò le spalle, deciso a rimandare l'autoanalisi a dopo che avesse consegnato i rapporti sulla missione e la deviazione a casa Moore.
Per prima cosa si diresse all'armeria per riconsegnare le armi. La guardia di stanza era troppo presa dalla lettura di un quotidiano per intavolare una conversazione con qualcuno, figurarsi con lui, con la nomea che si ritrovava. Scambiò un breve saluto e fornì i suoi dati, adagiando poi con attenzione il fodero della baionetta e le armi supplementari sul bancone; ormai era così abituato ad avere addosso tutta quella roba da sentirsi inusualmente leggero quando se ne liberava.
In pochi minuti fu già in un altro ascensore, stavolta diretto al settimo piano, dove la temperatura era meno rigida e, come notò, i primi rumori oltre le porte preannunciavano l'inizio della giornata lavorativa. In risposta accelerò il passo, già proteso con tutto se stesso verso i dieci minuti di riposo che si sarebbe concesso prima di dirigersi verso i piani alti del tribunale.
Viveva per quei dieci minuti, niente gli avrebbe impedito di diventare una cosa sola col suo letto. Niente.
Tranne trovarlo già occupato.
La porta della camera si chiuse con lentezza inversamente proporzionale alla rapidità con cui era stata aperta. Lo scatto secco della serratura coincise con l'inarcarsi di un sopracciglio del cacciatore. Se uno sguardo avesse potuto uccidere, quello che rivolse alla ragazza sfacciatamente distesa sul suo letto avrebbe compiuto una strage.
«Buongiorno, Lorraine.» esordì con un brontolio a metà tra un saluto e un'esortazione lasciata in sospeso.
Decise che quello era il momento perfetto per fare tutto il rumore di cui era capace, quindi lasciò cadere sulla moquette la sacca contenente i suoi equipaggiamenti, poco numerosi ma abbastanza da produrre un sonoro clangore.
Lorraine levò gli occhi nocciola dalla lettura in cui era immersa, per nulla turbata dalla poca calorosità riservatale, e gli regalò un sorriso affabile. «Oh. Bentornato, Victoir! È un piacere vederti sano e salvo.» aveva chiaramente finto di non accorgersi della sua presenza.
«E stanco.» sottolineò lui, prima di sfilarsi di dosso il cappotto e appenderlo allo schienale della sedia accostata alla piccola scrivania, era decisamente troppo lungo per non strofinare per terra, ma al momento quello era l'ultimo dei suoi problemi. «Che ci fai nella mia stanza?»
Lorraine adagiò con delicatezza un segnalibro tra le pagine. «Ti mostro le conseguenze delle tue azioni.»
«Non ricordo di aver intrapreso una relazione romantica con te.»
«Per carità del cielo, no!» il sorriso che le aveva adornato finora il volto si incrinò in una smorfia contrariata. Scosse con veemenza la testa, chiudendo il volume mentre si sedeva sul bordo del materasso dal lato del comodino, il cui spigolo le sfiorò pericolosamente le ginocchia. «Ma sai, avendomi tu di nuovo abbandonata qui ho pensato di aspettarti nell'unico posto in cui avevo la certezza che saresti tornato, anche se parecchio in ritardo.» scrollò le spalle, inondate da cascate di capelli bruni arruffati dallo strofinio contro il cuscino. «Il mio diabolico piano consiste nello sfruttare la tua stanchezza per convincerti a lasciarmi svolgere il mio lavoro di assistente.»
Sembrava irritata, e tuttavia sorrideva. Victoir non poté fare a meno di fissarla con un'insistenza che avrebbe messo a disagio chiunque non fosse stato a conoscenza del suo stile di vita eremitico. Dopotutto era pratico di comportamenti umani quanto poteva esserlo qualcuno che non perdeva occasione di recludersi nel silenzio delle proprie quattro mura.
Dopo un interminabile silenzio, avanzò in un sussurro la sua ipotesi. «... era rancore, quello?»
Lorraine nascose lo sbuffo di una risata dietro una mano, dopodiché strizzò un occhio. «E questo è intuito, bravo.»
Probabilmente non era il momento adatto a bearsi del proprio successo, ma riuscire a leggere tra le righe era un'impresa tanto ardua per Victoir che una tenue soddisfazione agì da emolliente sui suoi nervi tesi. Si concesse un sospiro, non si era reso conto di quanto la riservatezza della sua stanza e la complicità maturata con Lorraine negli ultimi mesi gli fossero effettivamente mancate. Era stato il suo corpo, come sempre, a rivelarglielo: si sentiva più leggero, più propenso a un sonno che non fosse solo evasione dalla stanchezza che lo schiacciava, persino la presenza di Lorraine appariva meno intrusiva di prima. Rimaneva solo una cosa a infastidirlo, ovvero la troppa luce che si riversava dalle finestre; adesso il cielo non era più rosseggiante e il sole ben sopra la linea dell'orizzonte.
«Credimi, ho fatto bene a non portarti con me.» diede le spalle alla ragazza, strizzando gli occhi quando la luce lo costrinse a socchiudere le palpebre; era grato che i locali della Black Court fossero provvisti di tende, una comodità che non tutte le case inglesi potevano vantare. «Al ritorno dalla missione, che sarai felice di sapere è stata un successo, mi hanno ordinato di fare una deviazione. Ricordi il giudice Moore?»
«... non dirmelo.» la voce di Lorraine si tinse di tetra consapevolezza, doveva aver già capito tutto.
Seguì un breve e pesante silenzio, in cui la mente di Victoir fu per l'ennesima volta sperduta tra i corridoi di casa Moore. Il ricordo non gli causava disagio né orrore, ma era comunque qualcosa di cui non gradiva la compagnia in una circostanza che avrebbe voluto essere rilassata. Fece del suo meglio per scacciarlo e assumere un atteggiamento goliardico mentre tornava a incontrare l'espressione apprensiva di Lorraine.
«Non saresti riuscita a mettere un piede in quella casa, avresti vomitato la cena sul vialetto del povero giudice Moore.»
La ragazza rimase per un attimo perplessa, colta di sorpresa dal brusco cambio di tono, ma dovette afferrare al volo il bisogno di Victoir di staccare la spina. Scattò in piedi come se avesse avuto due molle al posto delle gambe, ricambiando il sogghigno beffardo con un sogghigno beffardo.
«Intendevi sulle tue scarpe, mio caro.» ma confrontandosi col silenzio di Victoir, che intanto si chiedeva se stesse scherzando o fosse seria, arricciò le labbra in un sorriso arrendevole. «... d'accordo, forse non ho i tuoi nervi d'acciaio, ma ti avrei seguito comunque. È il mio lavoro, e io lo prendo molto sul serio.»
Ed era proprio quello il motivo per cui evitava di portarla con sé, pensò Victoir. Dare voce a questa considerazione avrebbe però prolungato la conversazione, e lui era troppo stanco per non scoccare sempre più di frequente intense occhiate al letto e all'orologio sopra la scrivania.
«Mi dispiace.» tagliò corto, scuotendo la testa.
Lorraine trasse un sospiro più lungo del necessario. «Dovremo lavorare sul renderti più credibile quando esprimi rammarico, androide Evans...» si premurò di stirare le coperte, cancellando così ogni traccia della sua permanenza, e quando ebbe terminato si diresse alla porta. «Ti fisserò un colloquio per domani... cioè, più tardi. Probabilmente alle quindici.»
«Pensavo di lasciare questa roba e andare subito a fare rapporto...» il tentativo di Victoir fu stroncato da una mano sollevata a mezz'aria.
«Sei stato via per una settimana, nella quale, conoscendoti, avrai dormito a malapena.» Lorraine proseguì solo dopo aver letto una tacita ammissione di colpevolezza sul suo volto contratto, con un tono decisamente ammorbidito. «Stilare i rapporti rientra nelle mie mansioni, mi inventerò qualcosa per giustificare il ritardo e più tardi mi racconterai tutto sul caso con calma, senza tralasciare niente. Ah, e ho saputo che la prossima missione ti sarà assegnata dal giudice Fitzgerald in persona, quindi dovrai essere in forma smagliante e pettinarti. Tanti tuoi colleghi non aspettano che un pretesto per liberarsi di un concorrente e farsi belli agli occhi di quella donna.» un sorrisetto le colorò il viso di soddisfazione, non era un segreto che fosse molto fiera dei successi che il suo assistito aveva portato a casa.
Victoir, tuttavia, accolse quella notizia con quieta sorpresa. «Si fida così tanto di me?»
Il giudice Marianne Fitzgerald era tra le personalità più eminenti della Black Court: efficiente e analitica, ricopriva da anni il suo ruolo con dedizione e serietà. Tutti ne glorificavano il lavoro impeccabile, molti la detestavano e alcuni avevano addirittura provato a ucciderla, ma erano in pochi a volerle veramente bene. Victoir la rispettava e temeva, e in una certa misura le era affezionato.
«Sei competente e sei il figlio del suo pupillo. Una motivazione personale e una di facciata sono tutto ciò che serve a un potente per agire.» Lorraine si strinse nelle spalle; il cinismo non rientrava nelle sue corde, dunque doveva credere davvero in quel che aveva detto. Senza insistere sull'argomento si avviò verso la porta, che aprì rivelando una chiave che non avrebbe dovuto essere in suo possesso - quella ragazza era tanto piena di risorse da fare paura. Gli sorrise un'ultima volta, con affetto, prima di sparire nella luce soffusa del corridoio. «Fatti trovare pronto per l'una. Buon riposo, Victoir.»
Rimasto solo nel tepore della camera, con in sottofondo il brusio a malapena udibile dei motori, Victoir sospirò e si passò pigramente una mano tra i ricci corvini, fatti al novanta percento di nodi e al dieci percento di umidità.
«Suppongo di dovermi davvero pettinare...»
***
Lorraine era stata di parola e si era ripresentata alle tredici, nel pieno della guerra coi nodi. Victoir le aveva aperto la porta con una mano chiusa a pugno intorno alla spazzola, affondata come un'ascia nel groviglio nero che aveva al posto della testa; dietro di lui, la camera sembrava teatro di una colluttazione.
L'assistente non tentò neanche di non ridere. «Pare che la creatura stia avendo la meglio su di te.»
Parlare doveva essere molto facile per lei, coi chiodi che si ritrovava al posto dei capelli.
Victoir roteò gli occhi. «... dobbiamo andarci per forza, dal giudice?» sbraitò, mollata la presa sulla spazzola, il cui manico tracciava un angolo acuto col suo cranio.
«Puntuali come orologi svizzeri.» Lorraine lo fece voltare e incamminare verso l'interno della stanza. «Lascia che ci pensi io alla creatura. Sono un mago dei nodi.»
Se non fosse stato a conoscenza del passato della ragazza, Victoir non avrebbe trovato alcuna correlazione tra la competenza nello sciogliere i nodi e i suoi lunghi capelli lisci. Con una pigra scrollata di spalle si accomodò sulla sedia e lasciò che la ragazza lo pettinasse con pazienza e tenacia, come aveva fatto tante volte coi bambini dell'orfanotrofio in cui era cresciuta. Il suo tocco era lento e preciso, delicato ma efficace, tanto che dopo pochi minuti Victoir si ritrovò a combattere una seconda guerra, stavolta con le palpebre che si chiudevano con la stessa frequenza con cui la sua bocca si apriva in preda a uno sbadiglio.
«Hai dormito poco?»
Le sue orecchie registrarono la domanda in lieve ritardo.
«Ho dormito male.» la corresse, mordendosi poi il labbro nel fare una smorfia; non aveva voglia di approfondire l'argomento, era troppo geloso di quel poco di se stesso che riusciva a proteggere dall'intuito sagace della sua assistente. «Ma sopravvivrò. Piuttosto, che c'è oggi per pranzo?»
«Windsor soup.»
«Non sopravvivrò.»
Il suo sospiro rassegnato fu coperto dalla risata cristallina di Lorraine. «Mi rincresce che questa terra barbara non possa offrirvi la leggendaria torta di zucca della mamy, Sir Evans.»
«Non mettere il dito nella piaga...» la voce di Victoir fu pervasa da una malinconia esagerata ma sincera. Di recente aveva non festeggiato il suo diciottesimo compleanno, il primo in Inghilterra senza la deliziosa torta di zucca che sua madre non mancava mai di fargli trovare fumante in tavola. Era stato un duro colpo. Pensare alla sua pietanza preferita con la consapevolezza che il primo pasto sereno dopo oltre una settimana sarebbe stata la Windsor soup era un trauma.
Per un po' rimasero in silenzio, la ragazza concentrata sulla matassa apparentemente impossibile da sbrogliare e il cacciatore con lo sguardo perso oltre la finestra. Benché la temperatura nella camera fosse piacevole, all'esterno faceva abbastanza freddo perché la condensa avanzasse come un velo bianco sul vetro punteggiato di pioggia.
Passarono diversi minuti prima che Lorraine chiamasse di nuovo il suo nome, stavolta con quel tono morbido che lo metteva sempre a disagio, mentre i colpi di spazzola si facevano più radi. «C'è un'altra cosa di cui dovrei informarti, Victoir... tuo padre ha chiamato di nuovo.»
Qualunque traccia di assopimento evaporò dalla mente di Victoir.
Ruotò la testa tanto in fretta da sentire una scia di dolore ramificarsi lungo la cervicale. Quando cercò gli occhi di Lorraine, per nulla sorpresi dalla sua reazione, vide la mano che stringeva la spazzola sospesa a mezz'aria, rigida come se avesse preso la scossa.
«Non gli hai detto quando sarei tornato, vero?»
L'amarezza nello sguardo della ragazza divenne tanto distinguibile che persino Victoir non ebbe difficoltà a riconoscerla. Lorraine scosse debolmente la testa, per poi appoggiare la spazzola sulla scrivania. Per qualche secondo la stanza fu ingolfata da un silenzio vibrante di aspettativa e del ronzio di sottofondo dei motori dell'aeronave.
«Gli ho detto la verità: che neanche io lo sapevo con precisione. Non mi importa quali problemi tu abbia con loro, Victoir, ma non intendo mentire alla tua famiglia.»
Victoir annuì lentamente. Non era la prima volta che affrontavano quel discorso, e nonostante la netta divergenza di opinioni era grato a Lorraine per non aver mai invaso la sua sfera personale con domande indiscrete.
«Grazie.» stavolta si sforzò di essere quanto più sincero e convincente possibile, prima di mettersi in piedi nella penombra.
Incontrò di nuovo gli occhi di Lorraine, socchiusi con severità in un intrico di ombre che indurivano i lineamenti del suo volto; in quel momento appariva molto più austera di qualunque giudice della Black Court.
«Spero solo tu smetta presto di nasconderti dietro questo lavoro e trovi il coraggio di affrontare tuo padre.»
Victoir si morse le labbra, incapace di dare una risposta. Avrebbe voluto affermare con altrettanta sicurezza che a mancargli era proprio il coraggio, che a impedirgli di affrontare suo padre, anche solo per telefono, era una paura paralizzante... e ancor più dal profondo avrebbe voluto provare il desiderio di avere paura.
Ma la cruda verità era che non sentiva niente.
Quando pensava a suo padre, alla famiglia che lo aspettava a New York, non avvertiva altro che un vuoto interiore. Come poteva riallacciare i rapporti con una delle persone più importanti della sua vita quando era ridotto all'osso dall'apatia, incapace di empatizzare con una bambina i cui genitori erano stati massacrati?
Un disorientante senso di nausea gli chiuse lo stomaco.
Lorraine gli sfiorò l'avambraccio, strappandolo al groviglio di pensieri in cui era rimasto ingarbugliato. Adesso sul suo volto tremolava un sorriso che Victoir non riuscì in alcun modo a decifrare.
«Diamoci una mossa, abbiamo un rapporto da stilare e due Windsor soup ad attenderci prima dell'incontro col giudice Fitzgerald.»
«... sì.» la sua voce era asciutta e fredda, carica di una imperturbabilità in cui Victoir non si riconosceva.
Dubitava che sarebbe riuscito a mettere qualcosa nello stomaco.
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