Parte 4 - Il rapimento


Koros sistemò i fiori raccolti il pomeriggio precedente in un vaso di cristallo. Affondò il naso nei petali profumati delle rose, accarezzò la corolla delicata del croco, chiudendo gli occhi gli pareva persino di poter respirare ancora la brezza marina e di rivedere i mandorli fioriti della Sicilia. Era stato il dio Apollo, il giorno prima a convincere Demetra e Artemide che i fiori più belli si trovavano nei pressi del lago Pergusa e che solo quelli potevano rendere omaggio a entrambe le divinità.

Demetra, altrimenti, non avrebbe mai concesso a Koros di lasciare la piana di Nisa, e con essa la Grecia. Gli aveva raccontato una volta che gli dei dispettosi non conoscevano confini e che, anzi, fuori dalla terra natia diventavano più arditi nel perseguire gli insani desideri che li animavano. Solo la presenza di Apollo l'aveva tranquillizzata, e Koros si domandava come fosse possibile che sua madre non si fosse resa conto del corteggiamento delicato che il dio aveva messo in atto nei suoi confronti. Le scuse per stare da soli ai piedi dell'Etna lo avevano travolto una dopo l'altra, come succose ciliegie a cui non si può resistere. Una volta Apollo voleva insegnargli nuove note, un'altra voleva aiutarlo a raccogliere i fiori più belli, un'altra voleva mostrargli il percorso del suo carro in cielo. E ogni volta ci scappava una carezza un po' più audace che lui aveva finto di ignorare.

Si sfiorò la cintura che legava la sua tunica. Le dita indugiarono sul lino modesto con ansia e desiderio. Da un lato si sentiva protetto dal legame con sua madre, dall'altro si domandava perché i tocchi di Apollo non avessero su di lui nessun effetto, e questo, anche se avrebbe dovuto tranquillizzarlo, gli riempiva la testa di nuove domande. Perché non poteva essere come Ciane, che una notte, mentre le altre ninfe dormivano, e loro due guardavano le stelle, gli aveva confessato che lo invidiava e che se fosse stata al suo posto, si sarebbe gettata tra le braccia del dio del sole senza pensarci?

Koros prese un paio di fiori e ne sparse i petali sull'altare di Demetra. Li vide posarsi delicatamente sugli altri, ma il senso di colpa non scemò, come invece aveva sperato. C'era qualcosa che non aveva avuto il coraggio di confidare neanche alla sua amica Ciane. Da quando erano stati in Sicilia, lo ossessionava il ricordo di un paio di occhi scuri come carbone che gli era parso di intravedere tra la radura nei pressi del lago. Si era sentito osservato e quando aveva voltato il capo verso i mandorli in fiore, aveva visto due occhi fendere il verde smeraldo del fogliame. Un brivido lo aveva percorso, come se fosse stato privato della tunica ed esposto ai capricci di Eolo. Poi Apollo lo aveva chiamato e le iridi scure erano sparite.

«Koros, vieni con noi, ci sono fiori nuovi verso il ruscello», la voce di Ciane lo riscosse.

L'amica gli porse un cesto di vimini, poi lo prese sotto braccio. «Da quando siamo tornati ieri sei strano, non credere che non mi sia accorta che stanotte ti sei rigirato nel letto a lungo e poi hai deciso di uscire a guardare le stelle. La corte di Apollo comincia a fare effetto?»

«Non dire sciocchezze», l'ammonì lui.

«È un'impresa ardua non cedere alla corte di un dio», chiosò lei, prima di allungare il passo verso la piana ammantata di erba.

Il mormorio del ruscello attirò Koros come il canto di una sirena. Voleva dissetarsi con le sue acque, non pensare più alle iridi che avevano tormentato i suoi sogni e da cui si sentiva attratto e spaventato in egual misura. Possibile che occhi del genere appartenessero a un semplice pastore?

Ciane, intanto, aveva lasciato il suo braccio, e si era chinata verso un cespuglio di rose. Aveva l'abilità di coglierle senza che le spine lacerassero la sua pelle. Koros si era convinto che fosse un dono della dea Artemide per premiare la sua fedeltà.

Notò giacinti di nuovi colori, magenta e cerulei, viole dal colore delle ametiste, rose che somigliavano alle gote di bambini. Poi vicino al lago vide un fiore per lui sconosciuto, la cui corolla gli ricordava il sole, tanto per la forma che per il colore. Lo colpì l'effluvio che emanava. Si insinuava discreto nelle sue narici per poi esplodere nella sua testa e oscurare tutti gli altri fiori.

Si chinò istintivamente per accarezzarne i petali. «Conosci questo fiore, Ciane?»

La ninfa si voltò verso di lui, un fascio di rose tra le braccia. Una ruga sulla fronte turbò la sua espressione serena. «È un narciso, lascialo, portano solo guai, come la persona da cui prendono il nome».

«Che sciocchezza», replicò lui. Avvolse le dita attorno allo stelo, spinto da una tentazione che neanche i più assennati consigli avrebbero vinto. Lo strappò. Gli sembrò che la sua amica gli avesse detto qualcosa, ma non riuscì a udirla. Un frastuono improvviso squarciò l'aria, ammutolì il cinguettio degli uccelli, fece oscurare il sole.

Le onde incresparono le acque del lago, schiumando come mare in tempesta. Koros sentì il cuore saltargli in gola, la sensazione netta eppure inspiegabile che qualsiasi cosa stesse accadendo non riguardava Artemide né Apollo, né nessuna delle ninfe del tempio. Riguardava lui.

Le acque del lago si squarciarono. Dalle sue profondità emerse un carro dorato guidato da quattro cavalli dal colore della notte. Un dio reggeva le briglia. Nessuno se non un dio poteva comparire dal nulla, nel territorio sacro ad Artemide, rifugio dei suoi adepti dal sangue divino. Nessun umano avrebbe potuto trasmettere una tale oscura energia. I capelli e la barba riccioluta erano ancor più scuri del manto dei cavalli, se possibile.

Ma furono le iridi del dio a far tremare Koros. Iridi che il giorno prima gli erano parse color carbone, ma che adesso, più il carro si avvicinava, più gli parevano scure e preziose come l'onice. Non aveva dubbi che fossero le stesse che avevano tormentato il suo sonno. Aveva creduto appartenessero a un pastore, come era stato stupido.

«Vieni via», gli gridò Ciane.

Koros avrebbe voluto ubbidirle, ma era come se una forza magnetica trattenesse i suoi piedi sul terreno. Era terrorizzato eppure affascinato dalla tunica nera che aderiva al corpo possente del dio, dal mantello che svolazzava come se si trovasse in mezzo a una tempesta, dal modo in cui controllava le briglie dei cavalli selvaggi. Quando sentì il nitrito dei cavalli avvicinarsi e il tocco della mano del dio su di sé fu troppo tardi per fare qualsiasi cosa. Provò ad opporsi, ma le dita del dio affondarono nei suoi fianchi, il suo corpo premette contro quello più esile di Koros.

Il giovane sentì i riccioli della barba di Ade sfiorare il suo viso, i piedi sollevarsi da terra. Il terrore gli paralizzava le viscere. Quasi non si accorse di essere scaraventato sul carro divino. Poi il dio si avvicinò ancora, la mano pericolosamente scivolò lungo il suo petto, si fermò all'altezza della vita. Con un rapido gesto Ade afferrò la cintura di lino, simbolo di castità e modestia che cingeva i fianchi di Koros. Simbolo del suo legame con Demetra. La strappò via.

Koros emise un urlo. Vide la cintura ondeggiare lontano dal carro, in aria, poi planare sul prato dove poco prima lui stava raccogliendo i fiori per la dea Artemide. Il dio rimase in piedi sul carro, incatenò le sue iridi a quelle di Koros, erano tanto scure che al giovane parvero una notte infinita. Uno sguardo cupo a cui mancava la consolazione delle stelle.

Koros arretrò istintivamente, ma Ade tornò a sedersi sul crocchio e non lo degnò di alcuna attenzione, sapeva che per Koros sarebbe stato impossibile scappare. Alle orecchie del giovane giunsero le urla disperate delle ninfe, persino il mormorio del ruscello tanto amato sembrò trasformarsi in un pianto. Poi, affannato, si trascinò fino al limitare del carro, si affacciò. Quello che vide furono i suoi amati prati, il tempio di Artemide, le braccia delle sue compagne che si agitavano. E tutto si faceva sempre più lontano, mentre lo scalpiccio dei cavalli aumentava di intensità e gli animali divini si inoltravano di nuovo nel lago. Koros trattenne il fiato. Poteva vedere le spalle possenti di Ade che guidava con sicurezza il carro dorato, le acque del lago richiudersi sulle loro teste, la luce diventare azzurra, debole, poi annullarsi in un'oscurità che gli era sconosciuta e innaturale.

Scesero nelle profondità del lago, poi in quelle del sottosuolo. Koros capí di chi erano le mani che lo avevano rapito. Solo Ade aveva il dominio del regno lontano dall'acqua e dal cielo. Ai pianti delle ninfe e al cinguettio degli uccelli presto si sostituì il lamento delle anime che venivano traghettate negli Inferi. Koros si tappò le orecchie. Non voleva sentire. Non capiva perché fosse stato portato lì. Forse, ipotizzava, era giunta la sua ora? E cosa si sarebbe meritato lui, il Tartaro o i Campi Elisi?

Intanto l'oscurità si era diradata e una luce tenue fendeva le nebbie candide in cui tutto era avvolto. Laddove la nebbia si diradava, come sospinta dal vento, emergevano valli prive di fiori e di erba. Il carro era piombato ancora una volta nel silenzio. Si fermarono davanti a un pioppo bianco. A destra un gorgoglio rivelava la presenza del fiume Lete, che segnava l'ingresso nei Campi Elisi. Koros scorse più in là una macchia di colore, l'inizio dei campi che accoglievano le anime beate. Ma le speranze di essere diretto lì si infransero quando Ade lo prese per un braccio. Non disse seguimi. Non ce ne era bisogno. Tutta la sua figura, avvolta dal mantello, esprimeva forza e comando e rendeva quasi impossibile dirgli di no.

Koros, che senza la cintura si sentiva spoglio, nonostante del suo corpo nulla si vedesse, si lasciò trascinare dal dio a sinistra, al di là del pioppo. Sentì sotto i piedi le rocce scoscese, sfiorò con la mano le pareti rocciose. Rare torce fendevano la nebbia che avvolgeva quei corridoio scavati nel sottosuolo.

Ade si fermò davanti a una porta di legno. Koros non ebbe il coraggio di sollevare lo sguardo. Temeva di rimanere ancora turbato dagli occhi del dio, temeva, soprattutto, di leggervi una richiesta oscena che sarebbe stato costretto a soddisfare. Ade era così diverso da Apollo. Quanto era luminoso il secondo tanto era cupo il primo. Quanto era delicato il dio del sole tanto era possente e massiccio il signore del Tartaro. C'era da stupirsi che nelle vene di entrambi scorresse sangue divino.

La porta si aprì e rivelò un letto a baldacchino in legno, ammantato di veli e lenzuola cremisi.

«Entra», ordinò Ade, con voce roca.

Koros non ebbe altra scelta. Sapeva che se si fosse opposto vi sarebbe stato trascinato con la forza. All'interno della stanza vide un triclinio, vasi decorati, una piccola mensa.

Ade lasciò il suo braccio. «Riposati. Ti farò portare delle tuniche pulite e più adatte al tuo status. Ti ho fatto preparare qualcosa da mangiare», indicò il pane d'orzo e miele e il calice di ambrosia, «mangia, non voglio che tua madre abbia a lamentarsi di come ti tratto».

Koros strinse i pugni. Come osava Ade nominare Demetra?

«Mia madre verrà a prendermi», si ribellò, non sapendo neanche lui dove aveva trovato il coraggio.

Una risata riecheggiò nella stanza. Ade allungò una mano verso il suo viso, sollevò il suo mento e lo costrinse a guardarlo negli occhi. «Non verrà. Tua madre ha sempre pensato di avere più potere di quanto Zeus non le abbia concesso. È un'illusa, come Artemide, che pretende di sacrificare una tale bellezza». I suoi occhi corsero lungo il suo corpo.

Koros avrebbe preferito morire. Capì che non era lì perché era giunta la sua ora, ma perché Ade aveva deciso di fare di lui il suo concubino. Pensò ancora alla cintura che gli era stata strappata con violenza e provò un senso di vuoto, di nostalgia per il regno di delizie in cui sua madre lo aveva confinato per proteggerlo.

Ade lasciò il suo viso. Si voltò bruscamente, come se guardarlo gli desse fastidio. «Tornerò a controllare che tutto sia a posto», disse, prima di richiudere la porta alle sue spalle.

Koros udì i passi pesanti di Ade allontanarsi. Aspettò prima di avvicinarsi alla porta e tentare di aprirla. Si sorprese nel constatare che difatti non era stato chiuso dentro. Si affacciò con il naso fuori. Solo allora notò il profumo di papaveri che aleggiava nei corridoi. Aveva sempre pensato che il Tartaro non potesse avere nulla di buono, invece, quel profumo famigliare riuscì in parte a calmarlo. Strinse la maniglia. Non osava avventurarsi nei corridoi di pietra a lui sconosciuti. In fondo, anche se fosse arrivato al pioppo bianco senza perdersi, era sicuro che Cerbero non gli avrebbe permesso di uscire. Era condannato alla prigionia, e solo perché Ade si era invaghito di lui.

Sedette alla mensa, ma non toccò nulla di quello che gli era stato preparato. Non si fidava. Dentro di sé cresceva il dolore per il distacco da Demetra e dalle compagne e il risentimento per chi lo aveva separato da loro. Provò nei confronti di Ade un odio cieco, come non gli era mai capitato di provare per nessuno.

Non seppe dire quanto tempo fosse passato quando la maniglia si abbassò di nuovo e Ade comparve davanti ai suoi occhi. Indossava ancora il mantello e la tunica scura, gli zigomi leggermente squadrati erano coperti dalla barba riccioluta, i capelli si inanellavano con le stesse onde sul suo capo.

Se Koros non avesse saputo dell'immortalità degli dei, non avrebbe esitato a infilzarlo con un coltello della mensa. Forse, pensò, avrebbe potuto farlo ugualmente, giusto per dargli fastidio. Senza farsi vedere dal dio, ne afferrò uno e poi corse a sedersi sul letto. Per la prima volta da quando Demetra e Zeus lo avevano generato invidiò gli uomini mortali che vedevano un giorno la fine dei loro tormenti.

Ade rivolse uno sguardo sprezzante alle focacce e all'ambrosia. «Non hai mangiato niente».

Koros sentì il suo peso affondare sul materasso, vide il dio sedersi accanto a lui. Percepì il suo profumo simile ai fiori di papaveri che danno il sonno e uno strano stordimento. Ade sollevò una mano, accarezzò il suo viso. Era calda, ma Koros non aveva intenzione di cedere alle sue lusinghe.

«Dovresti davvero mangiare qualcosa», disse il dio, questa volta in tono più suadente.

Koros strinse il manico del coltello, nascosto sotto la tunica. «Cosa vuoi da me?»

Ade lo fissò. «Voglio uno sposo».

«Perché io?»

«Perché Eros mi ha acceso il sangue e il cuore per te, perché sono stanco di sostenere il peso di questo regno da solo e di coricarmi in un talamo vuoto».

«Sei sei qui da solo è perché te lo meriti», gli sputò in faccia Koros.

Gli occhi di Ade si adombrarono, come il mare nero di una tempesta. Il dio gli afferrò il volto. «Cosa ne sai tu della mia solitudine? Di ciò che merito? Le favole che ti ha raccontato tua madre non sempre corrispondono alla realtà».

«Non nominare mia madre. Mia madre verrà a prendermi e mio padre, Zeus, scaglierà su di te la sua vendetta per questo oltraggio». Koros tirò fuori il coltello. Non sapeva cosa lo avesse fatto diventare tanto audace, forse la disperazione, forse il modo in cui Ade aveva parlato di sua madre o, forse, la sicurezza che ostentava nel fatto che nessuno sarebbe venuto a salvarlo. Glielo puntò alla gola. Ma gli occhi di Ade non si dipinsero di terrore.

Il dio si avvicinò ancora un po' a lui, quasi facendo affondare la punta del coltello nel suo collo. Le iridi di onice lo sfidarono. «Credi che il dio della morte abbia paura di un po' di sangue?»

Koros provò ad affondare il coltello, ma Ade gli afferrò il polso. «Nessuno verrà a prenderti. Zeus, tuo padre, è d'accordo con me. È stato lui a darmi il consenso affinché ti rendessi mio sposo».

Koros abbassò l'arma, un senso di impotenza lo invase. «Menti».

Ade scosse la testa. «Niente affatto. Il dio che vive nell'oscurità non ha paura della verità. Lo stesso non si può dire di tanti che tu credi migliori di me». Si alzò. Si pulì con il dorso della mano le gocce di sangue che sgorgavano dalla pelle divina. «Sei il mio sposo, ma non ti preoccupare: non ti toccherò. Rimarrai casto come Artemide e tua madre desiderano per te, ma rimarrai qui, nel mio regno. Presto, stanne certo, ti convincerò persino a dormire nel mio talamo. Sarai tu a pregarmi».

«Mai», sibilò Koros, ancora sconvolto dal peso delle rivelazioni dell'altro.

Ade gli voltò le spalle e senza dire un'altra parola uscì. Koros si sentì schiacciato dal tradimento del suo stesso padre: come poteva Zeus venderlo in quel modo, senza neanche consultare Demetra? Era questa la violenza di cui gli aveva parlato qualche volta sua madre? Si pentì di aver dubitato di lei e delle decisioni che aveva preso per la sua vita. Capì in quel momento che per lui non ci sarebbe mai stato il lieto fine come era accaduto per Eros e Psiche.

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