Parte 16 - Concubino


Appena voltò le spalle gli occhi si inumidirono. A grandi passi Koros attraversò i corridoi. Nella stanza che Ade gli aveva assegnato all'inizio, dopo il rapimento, si sentì libero di buttarsi sul letto e dar sfogo alle sue lacrime. Credeva che non avrebbe più visto Ade, ma presto percepì il profumo inconfondibile di papavero e il fruscio del suo mantello. Quando udì il ciglio della porta non osò voltarsi. Non lo fece neanche quando sentì il peso del dio affondare sul materasso.

Ade posò una mano sulla sua spalla, poi si chinò su di lui per sostituire le sue dita con un bacio. Anche attraverso la stoffa della tunica, Koros ne percepì il calore. Fu scosso da un singhiozzo.

«Cosa fai qui? Il tuo concubino non è in grado di soddisfarti come credevi?»

«Il mio unico desiderio è per te», gli sussurrò Ade all'orecchio.

Koros tremò, come la prima volta che Ade lo aveva preso tra le sue braccia.

«E allora perché mi tratti così?»

«Il mio amore è maledetto, Koros. Afrodite si è ben presa gioco di me quando ha deciso di farmi capitolare al tuo cospetto. So che tu non vuoi diventare il mio sposo, ti fa orrore camminare tra queste valli, sederti accanto al mio trono».

Koros si voltò verso di lui. «Eppure ho mangiato il chicco della melagrana per tornare qui».

Un sorriso comprensivo piegò le labbra del dio. «Tu stesso mi hai detto che lo hai fatto per curiosità, e che Apollo ha un palazzo di luce pronto per te. So bene che gli uomini non possono sopravvivere a lungo senza i favori di Demetra. Mi sono chiuso in questo regno per non causare sofferenze, ma il mio amore non ha fatto altro». Allungò una mano sul suo viso. «Non ho fatto in tempo a conquistare il tuo amore sincero. Un rapimento non può essere dimenticato, e adesso farò bene a rinunciare a te».

Koros si mise a sedere. Posò la sua fronte su quella di Ade. La sua espressione ferita lo straziava. I suoi occhi erano tornati a essere un cielo scuro senza stelle. Sollevò una mano e sfiorò il suo petto, sentì attraverso la tunica il cuore battere furiosamente. «Non è come pensi», gli mormorò sulle labbra. Con delicatezza afferrò il suo labbro inferiore, lo baciò con dolcezza fino a quando la passione non prese il sopravvento. La barba di Ade lo graffiava, ma a lui piaceva in quel modo. Gli piaceva tutto di Ade e non immaginava di poter essere toccato da qualcun altro. Ma quando si aspettava di andare oltre, di essere adagiato sul letto per accogliere il dio, Ade si allontanò.

«Non possiamo più», disse affannato.

«Perché?», gli domandò lui, confuso. Sentiva ancora le labbra turgide, pizzicare, ma Ade lo stava spingendo via.

«Vuoi diventare il signore degli Inferi?»

Sbigottito dall'enormità della domanda, Koros rimase in silenzio. Nel cuore sentiva la nostalgia per i campi, i fiori, il cielo azzurro e questo gli impedì di dirgli di sì, che lo voleva e lo amava. Il ruolo di sposo di Ade lo spaventava. Non era l'oltraggio del rapimento a separarli, come Ade credeva, ma la sua paura di cambiare vita, il peso della responsabilità delle ire di sua madre, il dolore di non sentirsi totalmente a casa né negli Inferi né sulla terra.

Ade gli accarezzò le labbra. «Come immaginavo... Rinuncio a te, se averti significa farti soffrire. Mi dimenticherai in fretta, la luce di Apollo è bugiarda, sì, ma è capace di abbagliare anche i cuori più puri».

«Rimarrai da solo», disse Koros.

Ade indurì lo sguardo. «È una condizione a cui sono abituato, e della tua pietà non ho bisogno».

È amore non pietà, avrebbe voluto urlargli lui, ma Ade si era già alzato, gli aveva già voltato le spalle. Koros lo seguì sulla soglia, allungò una mano verso il suo mantello, ma non riuscì a prenderlo. Un solo mese e poi sarebbe stato scacciato dal regno di Ade. Non lo avrebbe mai più rivisto, neanche se avesse voluto. Era sicuro che sua madre avrebbe preso le sue precauzioni per impedirgli di girare liberamente tra i prati, figurarsi per vedere un dio o un uomo senza il suo consenso. Era un giovane, ma era adulto, solo che Demetra non voleva capirlo.

Si sentì ancora lacerato, incapace di fare una scelta definitiva tra il mondo della luce e quello delle tenebre. Aveva bisogno di un appiglio, qualcosa che lo tenesse ancora legato ad Ade, e se lui non voleva capirlo ci avrebbe pensato da solo.

«Dove credi di andare?», una voce gli domandò. Si sentì tirare una spalla, e riconobbe le unghie e la voce di Ecate.

«Non posso muovermi liberamente?», rispose lui frettoloso. Ecate rappresentava ciò che degli Inferi temeva e allo stesso tempo ciò che lo affascinava del regno.

Ecate lo sfiorò con una mano, fredda come Koros immaginava fosse il suolo della luna.

«Oh, Koros! Devi decidere da che parte stare. Ade non è mai stato paziente e non sopporta di essere tenuto sulle spine, tanto meno in amore».

«E si è innamorato spesso?», domandò lui, la curiosità lo assalì insieme alla gelosia, sentimento che gli era diventato fin troppo famigliare.

Ecate sorrise, nel modo enigmatico che le era proprio. «Stai pure tranquillo, nessuno gli ha mai fatto battere il cuore come sai fare tu».

«Dov'è adesso?»

«Immagino ad affogare il suo dolore per le fallite nozze nella bevanda di Bacco, forse in compagnia...»

Un'idea si affacciò in Koros, e da come Ecate lo guardava poteva dire che la dea aveva già capito cosa volesse fare. Koros la invidiò, perché lei si spostava leggera tra il mondo dei vivi e quello dei morti, senza che nessuna condanna pendesse sugli uomini per colpa sua.

«Sarà talmente inebriato da non capire quale concubino ha tra le braccia», gli disse sibillina. Poi si fece da parte e con un gesto della mano lo invitò a passare.

Koros non perse tempo. La sua idea era folle, ma non aveva niente da perdere. L'unica cosa che avrebbe potuto legarlo ad Ade e che gli avrebbe permesso di scendere negli Inferi quando avesse voluto era un figlio. Il frutto del loro amore o, perlomeno, della passione che Ade stesso gli aveva insegnato, strappandolo dalle braccia di Artemide.

La porta della stanza d'oro era chiusa, ma Koros sentì una risata provenire dall'interno, un gemito. Ricacciò indietro la gelosia e senza far rumore entrò. Ade, come Ecate gli aveva anticipato, non si accorse della sua presenza. Aveva un calice tra le mani, l'ultimo di una lunga serie, ed era semi sdraiato sul triclinio.

Ai suoi piedi lo stesso servo che lo aveva servito a tavola quella sera. Nudo. Koros lo fulminò con lo sguardo, e quello, dopo aver rivolto una fugace occhiata ad Ade, che giaceva con la testa reclinata all'indietro e gli occhi chiusi, si defilò. Non voleva fare la fine di Menta, la cui sorte era andata di bocca in bocca nelle cavità degli Inferi fino a giungere in superficie.

«Che aspetti?», domandò Ade, la voce arrochita, gli occhi ancora chiusi.

La sua bellezza strinse il cuore di Koros, accalorò la sua pelle. Pensò che Ade non meritava la sorte che il fato gli aveva riservato. Non meritava di restare da solo. Provò il bisogno di soddisfarlo, di farlo gemere e poi di sedersi sopra di lui in modo che il suo piano potesse compiersi.

Si inginocchiò ai suoi piedi e non esitò a prendere il suo membro tra le mani, poi lo fece scivolare nella sua bocca, lo sentì diventare turgido, pulsare, e più lo stimolava più le stesse cose accadevano al suo stesso corpo, come se fosse uno specchio di quello di Ade. Del suo sposo, osò pensare, sebbene tutto faceva presagire che le nozze erano lontane, impossibili fino a quando Koros non avesse messo d'accordo Demetra, Ade, e persino Zeus. Sentì Ade gemere, poi le sue dita che affondavano tra le onde dei suoi capelli. Ade lo aveva stretto con forza, ma a lui non importò. Lasciò che il dio guidasse i movimenti della sua testa.

«Basta», lo sentì ansimare. «Voglio averti».

Era quello che Koros voleva. Prima che Ade riaprisse gli occhi, si voltò, in modo che il dio non ne vedesse il volto. Fece scivolare lentamente la tunica dalle sue spalle fino a che non venne colpito dall'aria fredda della stanza, che le torce non riuscivano a scaldare.

Ade lo afferrò per le spalle «Sei perfetto. Nessun artista potrebbe mai eguagliarti».

Koros trattenne il fiato. Non sapeva se il vino avesse inebriato Ade a sufficienza e temeva che voltandosi il dio lo avrebbe riconosciuto.

«Non ti girare», disse Ade, «voglio immaginare che tu sia il mio sposo». Lo afferrò per i fianchi e lo fece stendere sul triclinio a pancia in giù.

«Ade...», mormorò Koros. Le parole appena uscite dalla bocca del dio gli avevano stretto il cuore. «Sarò il tuo sposo», gemette, mentre sentiva il corpo possente dell'altro sdraiarsi sopra di lui.

Ade gli aprì le gambe, insinuò una mano tra le sue natiche, ma presto la sostituì con il suo membro. Non gli aveva riservato la delicatezza che usava con Koros. Per Ade, in quel momento, non era che un concubino, uno tra i tanti con cui si illudeva di scacciare la solitudine. Eppure con quella foga non aveva mai amato.

Koros si morse le labbra. Il primo gemito di dolore venne sostituito da mugolii di piacere. Desiderava che le spinte di Ade fossero profonde e che senza ritegno consumasse l'amplesso dentro di lui. Sollevò il bacino per incontrare i suoi movimenti vigorosi, si offrì a lui totalmente, incurante del dolore che, ne era certo, avrebbe avvertito alla fine dell'estasi. Avrebbe pagato il prezzo necessario per concepire un bambino che lo tenesse legato ad Ade per sempre. Se avesse portato un bambino in grembo, né Ade né Demetra gli avrebbero vietato l'accesso al regno sotterraneo. La gioia di tenere tra le braccia quella creatura avrebbe impedito a Demetra di affamare gli uomini.

Le labbra di Ade che si posarono sulla sua spalla lo riscossero. «Koros, Koros», mormorò il dio, in preda alla sua fantasia amorosa. Poi Koros avvertì i denti del dio affondare nella sua pelle, una spinta più profonda delle altre. Fu come ricevere una scossa. Tremò, e sentì Ade fare lo stesso. Lo trattenne con una mano, vicino a lui, fino a quando non fu sicuro che avesse fatto il necessario per concepire un bambino. Il corpo di Ade era diventato molle, quasi avvolto dal sonno. Fu facile per Koros sfuggirgli. Lo vide chiudere gli occhi, scivolare giù dal triclinio. Con un ultimo gesto di tenerezza lo coprì con il suo mantello, e, dopo aver indossato la tunica, sgattaiolò via dalla stanza.

Si domandò quante volte Ade avesse fatto questo, quante volte avesse tentato di colmare il vuoto della solitudine con un altro mentre pensava a lui. Non doveva più succedere, si disse. Si sfiorò il ventre, non poteva essere sicuro che il suo piano fosse giunto a compimento e per questo aveva bisogno di un'altra assicurazione che gli permettesse di tornare lì. Un mese passava in fretta.

Tra la nebbia riconobbe la sagoma di un melograno, i suoi rami nodosi, i frutti sempre maturi, sottratti all'incuria del tempo. Ne colse uno e lo nascose sotto la tunica.

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