Parte 14 - Uno sposo legittimo?



Ade sedeva sul trono, giudicava le anime destinate al Tartaro e quelle a cui spettava la beatitudine eterna dei Campi Elisi. Il cuore era gravato dal peso che lo opprimeva da quando aveva sacrificato il suo amore per Koros pur di vederlo felice.

Poi era giunta Ecate, gli aveva porto la melagrana, a cui mancavano i chicchi. «Per essere il padrone di questo regno ci sono parecchie cose di cui non ti accorgi», gli disse con il solito tono impertinente che tanto invisa la rendeva agli altri dei.

Ade le rivolse uno sguardo distratto. Mandò via l'ultima anima, verso la pena che meritava. «Non ho tempo per te adesso».

«Ci sono leggi eterne che anche tu devi rispettare».

«Cosa vuoi dirmi, Ecate? Che Koros ha mangiato un chicco? Forse lo ha fatto per sbaglio», replicò, terrorizzato all'idea di crearsi false speranze.

«Ma per favore... gli avevi detto chiaramente cosa sarebbe successo se lo avesse fatto, e poi la storia di Menta... almeno provaci».

Ade strinse i pugni. Sì, avrebbe potuto farlo, avrebbe potuto tenere Koros con sé ancora per un mese per tentare di conquistarlo e questa volta Demetra non avrebbe potuto incolparlo. Con uno schiocco di dita chiamò i suoi cavalli, saltò sul carro, attraversò le cavità della terra, fino a giungere al lago. Non sapeva se avrebbe trovato Koros davanti allo specchio d'acqua o se gli sarebbe toccato entrare nel tempio che lo ospitava e portarlo via da lì.

Quando lo vide, però, gli sembrò che Koros lo stesse aspettando e il suo cuore si colmò di speranza, sentimento che nell'ineluttabilità del regno che governava gli era estraneo. Fu come avvertire un palpito nuovo, un'emozione sconosciuta e realizzò che per Koros doveva essere stato lo stesso quando si era congiunto a lui per la prima volta. La meraviglia di sentire le loro anime unite in quel modo gli fece dimenticare la vita di sacrifici che aveva condotto. Porse a Koros la sua mano e lui la prese.

Ridiscesero negli Inferi, senza scambiarsi una parola. Prima che le acque del lago si richiudessero Koros sciolse il nodo della sua cintura e la fece scivolare via. La osservò impregnarsi di acqua e affondare, poi tornò a fissare la strada davanti a sé.

Ade giunse davanti al pioppo bianco. Le anime tacevano, essendo state tutte giudicate e mandate nell'antro più profondo del regno. Il dio tirò le briglie, calmò i cavalli stanchi per la risalita e la ridiscesa negli Inferi.

«Perché hai mangiato il chicco della melagrana, volevi che ti riportassi qui?»

«L'ho mangiato solo per curiosità», mentì Koros. «Volevo sapere se mi avevi raccontato una bugia».

Ade lo fulminò con lo sguardo, scese dal carro e passò dalla parte di Koros per aiutarlo. «Il bugiardo tra noi due sei tu». Lo prese per i fianchi e lo fece scendere dal carro. Bastava un solo contatto, le sue dita affondate nella carne dei fianchi del giovane, per stravolgerlo e farlo ardere ancora di desiderio. Ma il desiderio non ricambiato, o, peggio, non accompagnato dall'amore lo straziava. «Non ti piace la luce di Apollo, e se avessi un po' di coraggio lo diresti ad alta voce».

Koros allontanò le sue mani. «Vaneggi, forse le nebbie che avvolgono il tuo regno non ti permettono di vedere chiaramente».

Ade lo attirò ancora a sé, ferito e stanco. «Sei venuto per questo, quindi», disse, e attaccò la sua bocca. Sentì Koros schiudere le sue labbra, pronto ad accogliere il suo bacio. Dopo quello che era accaduto tra loro la dea Artemide non lo avrebbe mai riammesso nella sua schiera e, forse, Koros voleva approfittarne per recuperare le esperienze che la devozione gli aveva negato. Che strana ironia del fato capriccioso che Ade da rapitore si sentisse in balia di Koros e usato da lui solo per soddisfare i suoi istinti.

«E tu non mi hai rapito forse per questo?», ansimò il giovane sulle sue labbra.

No, avrebbe voluto urlargli lui, ma avvolse entrambi nel suo mantello e trasportò Koros nella sua stanza.

Koros non vi era mai entrato. Il grande talamo era avvolto da tende di seta color della notte, ma trapuntate di oro, come fosse un cielo stellato, su due pareti opposte si aprivano altrettante finestre: una dava sui verdi Campi Elisi, l'altra su una valle avvolta dalla nebbia.

«Il letto del mio sposo», disse Ade, indicandolo. Il tono era stato ironico, poiché avevano consumato le nozze fisicamente, ma nessuna cerimonia era stata celebrata e senza di essa Koros non era che come Menta, un concubino, seppur dal sangue divino.

Il dio vide Koros mordersi le labbra, fremente di rabbia. «Cosa dovrebbe fare il tuo sposo?»

Ade gli si avvicinò da dietro, afferrò l'orlo della sua tunica. «Questo», gli sussurrò all'orecchio, sollevando la veste e sfilandogliela con un rapido gesto. Abbassò le mani fino a sfiorare il membro di Koros e con sorpresa si accorse che era già duro. Aveva ragione, dunque, a pensare che Koros volesse usarlo come un dio con cui sfogare i suoi istinti, per poi magari tornare in superficie e raccontare ad Apollo e a sua madre quanto cattivo fosse stato Ade con lui. Bene, gli avrebbe insegnato cos'era la passione se era questo ciò che voleva. «Va' a sdraiarti sul letto», gli disse con voce roca.

Koros ubbidì, salì sul talamo e si sdraiò a pancia in giù, mostrando le sue grazie. Un brivido lo percorse. Ade si prese un momento per osservare il suo corpo divino, la pelle rosea, i muscoli accennati, ma sodi. Si spogliò in fretta del suo mantello e della sua tunica e lo raggiunse. Prese a baciarlo, sforandolo con i suoi riccioli e la sua barba. Brividi a fior di pelle seguivano i suoi movimenti. Sentì Koros soffocare una risata nel cuscino.

«Mi fai il solletico», gli disse il giovane.

Ade gli afferrò le natiche e la risata si spense in un gemito. Si abbassò per esplorarlo con la lingua, lo sentì gemere ancora fino a quando lo vide spingersi con il bacino contro di lui, capì, allora, che era arrivato il momento di dargli qualcosa di più.

«Ade...», ansimò Koros.

Il dio gli accarezzò le braccia, poi gli scivolò dentro senza trovare nessuna resistenza.

«E adesso?», domandò Koros.

Ade si abbassò sopra di lui, intrecciò le loro dita. «Lo sai già», rispose, e cominciò a spingere dentro di lui. Si stupì di come Koros si muovesse per incontrare le sue spinte, del ritmo martellante e del sudore che bagnava la loro pelle. Consumarono il loro amplesso voracemente, come due amanti che il fato fa ritrovare dopo troppo tempo, ed entrambi si stupirono di quanto sentissero l'altro fin dentro il cuore. Entrambi credevano di non essere ricambiati.

Ade liberò Koros dal suo peso, ma gli rimase vicino. Il giovane si girò sulla schiena, ancora incredulo di quanto l'altro lo avesse fatto cambiare. Da devoto di Artemide a giovane sposo.

«Non voglio essere il tuo concubino», disse, ancora affannato.

Ade contemplò il suo viso. Si sporse verso il mobile più vicino dove teneva sempre una coppa di argento con i chicchi di melagrana. Ne avvicinò uno a Koros. Se lo amava lo avrebbe preso, ma quello strinse le labbra e voltò il capo.

«Se non vuoi essere trattato come un concubino, non comportarti come tale», gli disse Ade frustrato.

«Non capisci! Mia madre non darà mai il suo consenso», ringhiò Koros.

«Menzogne, se il tuo cuore fosse sincero, riusciresti a convincerla, almeno in parte».

Negli occhi di Koros baluginò il rimorso. «Su di me grava il peso di una terra priva di messi. Apollo ha per me pronto un palazzo di luce».

Ade si mise a sedere e gli diede le spalle. «Allora va' da lui». Si alzò per allontanarsi dal corpo che lo aveva inebriato e che lo aveva ridotto a elemosinare l'amore. Lui, il dio degli Inferi, temuto e potente, si sarebbe persino potuto inginocchiare ai piedi del giovane che era ancora sdraiato con addosso i segni del piacere che si erano regalati. No, si disse subito dopo in un rigurgito di orgoglio divino. Cosa cambiava per lui, in fondo? Era il dio abituato a essere rifiutato, a essere scansato nei consessi divini, a essere, per paura certo, quasi ignorato dagli uomini.

Raccolse la sua tunica e il suo mantello, ma non li indossò davanti all'altro. «Ti aspetto a cena, se hai fame. Non preoccuparti, non ti offrirò frutta a te sgradita», disse, e scomparve in una nuvola scura. Non vide Koros avvicinare le gambe al petto, guardare con desiderio e repulsione insieme i chicchi della melagrana nella coppa. Tra loro era stata innalzata una muraglia, come quelle di cui le città si cingevano per difendersi, una muraglia i cui guardiani erano il sospetto, l'orgoglio e gli dei che osteggiavano il loro amore. Chissà quanto ne stava ridendo Eros, pensò Koros. Lo immaginò tra le braccia di Psiche a giocare con la loro bambina. Come poteva essere tanto crudele un dio che aveva sofferto per amore? Si sfiorò il ventre, e pensò che le conseguenze della passione avrebbero potuto travolgerlo. Cosa avrebbe fatto sua madre se lui avesse concepito un figlio con Ade? Demetra poteva opporsi alla passione, persino alla legge per cui il primo dio ad avere Koros sarebbe stato legato a lui per sempre. Poteva strepitare, affamare la terra, far marcire i frutti. Ma al frutto supremo di un legame divino non si sarebbe potuta opporre.

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