Parte 13 - Abbandono



Le tenebre si diradarono, lo scalpiccio dei cavalli riecheggiava tra la cavità della terra, cupo, come il rombo del tuono, fino a schiarirsi, a vibrare nelle acque del lago attraverso le quali il carro dorato di Ade avanzava, inesorabile.

«Tieniti, adesso», il dio disse a Koros.

Il giovane, seduto al suo fianco, si aggrappò al primo appiglio che il carro gli offriva. Era stato muto fin dal mattino, quando il dio era venuto a chiamarlo nella sua stanza e gli aveva detto di prepararsi. Non una parola era stata scambiata tra loro mentre, seduti alla lunga tavola della sala dei banchetti, consumavano il pasto e bevevano ambrosia, né quando erano saliti entrambi sul carro e Ade aveva afferrato le briglia dei cavalli.

Ora, però, Koros non riusciva più a tenere a fremo la lingua. «Mi riporti da mia madre, adesso, perché hai ottenuto ciò che volevi».

Attraverso le acque dense del lago un raggio di luce lambiva la chioma di Ade. Il dio si volse di scatto verso di lui, ma mitigò la sua espressione furente.

«Pensi davvero questo?»

«Cosa dovrei pensare?»

Ade strinse le briglie, spronò i cavalli ad accelerare, fino a quando le acque del lago non si aprirono e la luce non colpì tutti loro. I cavalli nitrirono per via del rapido cambiamento, ma Ade fu abile a tenerli sotto controllo e a riportarli all'ordine.

Il carro avanzò fino alla riva, per poi fermarsi sul prato, nello stesso punto in cui Koros aveva strappato il narciso tempo prima.

«Sei libero, non era quello che volevi?», domandò Ade.

Koros si morse le labbra, incatenò i loro sguardi, quello di Ade gli parve pieno di risentimento e non ne capiva il motivo. Ade lo aveva rapito, gli aveva fatto rompere il giuramento fatto ad Artemide, gli aveva fatto provare emozioni a lui sconosciute e adesso si preoccupava per la sua felicità e lo buttava via come uno dei tanti concubini che di certo erano pronti a scaldargli il letto. La morsa della gelosia tornò a stringerlo.

«Non sei migliore di Apollo, che fa e disfa come più gli conviene».

Gli occhi di Ade si accesero di ira. «Quindi avrei dovuto lasciarti a lui», replicò con voce dura.

Koros lasciò le briglia. «Meriti di non avere uno sposo legittimo». Balzò giù dal carro. Non si voltò, udì solo il mormorio dell'acqua che tornava a ingoiare il carro e lo scalpiccio dei cavalli sempre più lontano.

Sentì il calore del sole sulla pelle, le lacrime inumidirgli gli occhi. Era felice di vedere la luce, eppure triste perché Ade lo aveva abbandonato in quel modo. Quando riaprì gli occhi non riconobbe i prati che gli erano famigliari. Non c'era erba né profumo di fiori. Nessun colore né canto di uccelli. Tutto era una distesa deserta, brulla, dal colore dell'ocra.

Fu allora che Koros tornò a pensare a sua madre, sentì tutto insieme il dolore che l'aveva travolta da quando lui era stato rapito. Si mise a correre fino a raggiungere il tempio di Artemide, che per tanto tempo era stato il suo rifugio e la sua casa.

Salì a perdifiato i gradoni, si appoggiò sfinito alle colonne in stile dorico. «Madre», chiamò, sperando di trovarla lì, «madre», ripeté ancora.

Voleva che lei comparisse tra le colonne, che lo abbracciasse poi che ridesse la vita alla terra. Solo allora, ne era sicuro, si sarebbe sentito di nuovo a casa.

«Sei tu?», una voce famigliare riecheggiò tra le colonne e le sue scanalature. «Sei tu, figlio mio?», domandò ancora Demetra, correndo verso di lui.

Koros ne scorse la sagoma, il volto deformato dall'emozione, e le lacrime che aveva trattenuto fino a quel momento sgorgarono copiose.

«Figlio mio», Demetra lo strinse, «credevo di non vederti mai più, ho pregato Zeus in tutti i modi, ma non credevo avrebbe ascoltato le mie suppliche, non così presto almeno». Gli prese il volto tra le mani, e lo scrutò. Tentava di cogliere sul suo viso i segni della sofferenza che, era sicura, Ade gli aveva inflitto, ma era Koros a scorgere i segni di dolore sul suo viso smunto.

«Madre, non vi siete presa cura di voi e del resto», le disse.

«Come potevo? Ti ho cercato per nove giorni e nove notti, senza sosta. Ho pregato tutti, ho chiesto in ginocchio a Eros di strappare via la freccia che aveva piantato nel cuore di Ade, il terribile. Quanto avrà riso Afrodite di questo...», lo sguardo si velò di ira.

«E gli uomini? Sono affamati? Non riconosco più i luoghi del mio cuore». Il pensiero andò ad Ade che aveva accettato un regno oscuro pur di risparmiare a tutti una guerra fratricida.

«Hai ragione, ma non rimproverarmi. Tu non saprai mai cosa significa per una madre generare una creatura e saperla in pericolo, vederla strappata dalle proprie braccia».

Koros si sfiorò istintivamente il ventre, non aveva pensato che l'incontro con Ade potesse generare i suoi frutti. Scacciò via quel pensiero.

Demetra riprese a parlare: «Ora non hai ragione di preoccuparti, il mio cuore scoppia dalla gioa e presto tutta la terra si risveglierà, i fiori torneranno ad ammantare i prati, le messi a ondeggiare nei campi e i frutti a pendere dai rami degli alberi». Il suo sorriso svanì. Koros si sentì addosso i suoi occhi indagatori. «Koros, figlio mio, dimmi se ti ha fatto del male».

Koros si morse l'interno della guancia fino a sentirne il sangue. Sì, gli aveva fatto del male, ma non nel modo in cui sua madre pensava. Gli aveva fatto del male dandogli una briciola del suo amore e poi strappandola via, come se lui non valesse più di Cerbero. Gli aveva fatto del male svelandogli la vera natura di tutti gli dei, persino di Apollo, che lui riteneva amico, e di Zeus che aveva sempre creduto saggio. Scosse la testa. «Sono stato lì per pochi giorni, ho visto le anime, Ecate, il fiume della dimenticanza...»

Sua madre lo interruppe: «Cose che non avresti mai dovuto vedere. Adesso vieni di là a ristorarti, Ciane sarà contenta di vederti, così come Apollo».

«Per adesso non voglio vedere nessuno».

Demetra annuì, poi lo condusse nella sua stanza. Koros vi rimase a lungo, per giorni, si fece un bagno, e gli parve così strano rimanere in acqua mentre il sole disegnava su di essa ricami di luce. Indossò la cintura che sua madre gli aveva regalato, per sostituire quella che Ade gli aveva strappato il giorno del rapimento. Alle sue narici cominciavano ad arrivare i profumi dell'erba e dei fiori, così diversi dal profumo di papavero che aleggiava negli Inferi, soprattutto vicino ad Ade. Si immerse in acqua per non pensare al suo odore, al tocco delle sue mani, ma le dita corsero lungo il suo petto, immaginò che fosse ancora Ade a toccarlo, poi verso il suo membro, gli scappò un gemito, stonato nella tranquillità di quel luogo consacrato ad Artemide, ma non riuscì a trattenersi. Diede sfogo al suo piacere, poi, come un ladro pulì le tracce di quanto era successo.

Uscì, convinto che la sensazione straniante di ritrovarsi tra i vivi, sarebbe svanita se si fosse fermato sui prati a lungo. La gioia di Demetra per averlo ritrovato si riversava sulla natura, nuovamente in vita. In particolare la piana di Nisa risplendeva di profumi e colori come mai Koros l'aveva vista. Camminò lungo il ruscello, il mormorio gli era famigliare, le sue acque chiare, e non prese d'assalto dai lamenti delle anime. Il pensiero corse ancora ad Ade. Lo immaginò seduto sul suo trono, lo sguardo malinconico, a scegliere il destino di chi gli si presentava davanti. Da solo.

Immerse una mano nell'acqua, ma non trovò il conforto che si aspettava. Sulla superficie del ruscello si delineò una figura a lui famigliare. Una donna che indossava una corta tunica, le frecce in mano e la faretra sul dorso, al suo fianco un cervo.

«Ben tornato tra noi, mio caro Koros», disse la dea Artemide.

Koros sollevò lo sguardo fino a incrociare quello di miele di lei. Sapeva. A lei non avrebbe potuto nascondere che aveva infranto il voto di castità.

«Non hai sacrificato nulla sul mio altare da quando sei arrivato», riprese la dea.

«Lo farò, se è questo che desideri».

Un sorriso ironico piegò le labbra di Artemide, il cervo parve agitarsi, ma lei lo calmò con un gesto della mano. «Quello che io desidero è che tu ti allontani dal tempio, non puoi vivere con le mie ninfe; e liberati della cintura, non può più rappresentare la tua castità».

Koros desiderò che il lago si aprisse e che Ade fosse lì. A lui avrebbe potuto gridare la sua rabbia. Ecco cosa gli aveva fatto il dio che diceva di amarlo: lo aveva reso estraneo al suo mondo, e allo stesso tempo lo aveva cacciato dal suo regno.

«Cosa ho udito?», domandò Demetra, appena sopraggiunta con un fascio di grano tra le braccia. «Vorresti cacciare mio figlio?»

«Tuo figlio ha infranto l'unico voto che chiedo ai miei adepti».

Demetra gettò il fascio di grano a terra, divenne rossa. «Koros, mi avevi detto...», ma non terminò la frase, credendo che il figlio non si fosse confidato per vergogna, «è Ade che lo ha costretto», disse, invece, dandosi l'unica spiegazione plausibile. Attese una conferma, un accenno di assenso da parte del giovane, che non arrivò.

La risata di Artemide ruppe il silenzio. «Il mio culto non è per tutti».

Demetra andò su tutte le furie. «È stato condizionato da Ade, non può essere altrimenti. Non oserai paragonare mio figlio ad Afrodite e alle sue seguaci!»

«Non ho più tempo per voi», chiuse la questione Artemide, e preparò una nuova freccia per la caccia.

«Figlio mio», cominciò Demetra, «parlerò con tuo padre e...»

«Non ce ne è bisogno. Non vi umiliate, madre. Forse Artemide ha ragione, io non sono fatto per venerarla».

«Apollo potrebbe ospitarti nel suo tempio».

Koros evitò di dirle quello che Apollo aveva tentato di fargli, una guerra tra il dio del sole e la dea delle messi era l'ultima cosa di cui gli uomini avevano bisogno. «Ci penserò, vorrei solo che mi prometteste che non lascerete mai più seccare in questo modo la terra, vi prego».

Il tono accorato di lui la convinse. «Farò del mio meglio». Gli si accostò e gli diede un bacio sulla fronte, poi scomparve in una nuvola di luce.

Koros riprese a camminare. Si sorprese a pensare che non gli dispiaceva lasciare la dimora che lo aveva ospitato fino a quel momento. Nella casa adiacente al tempio di Artemide non si sentiva più a suo agio, come se quello che aveva vissuto con Ade gli impedisse di tornare il giovane spensierato che correva per i prati e trascorreva il tempo raccogliendo fiori per la dea.

Si domandava quando Ade sarebbe venuto a prenderlo. Doveva, se la storia sui frutti del melograno non era stata una menzogna, una frottola per impressionarlo. Doveva, anche se non avrebbe voluto. L'idea che potesse tornare a prenderlo controvoglia lo riempì di malinconia. Sedette sulla sponda del ruscello, accarezzò l'erba tenera nata dalla benevolenza di sua madre, la vita che si rinnovava sotto i suoi occhi, poi notò un odore diverso da quelli a cui era abituato, un'erba a foglie più larghe. Non poteva sbagliarsi: era lo stesso odore di Menta. Ecco qual era stata la fine che Ade gli aveva concesso. Menta era stata annientata dalla furia di Koros, ma Ade lo aveva trasformato in una pianta odorosa che gli umani avrebbero usato per trarne poteri afrodisiaci e per insaporire i loro cibi.

La gelosia tornò a ghermirlo, affondò la mano tra quelle foglie e le strappò dal terreno, poi le gettò nel ruscello. Proprio allora il sole si oscurò, il mormorio del lago divenne un boato, le acque si aprirono. Koros balzò in piedi, questa volta non spaventato come la prima, ma ugualmente incerto su cosa stesse per accadere. E se Ade non fosse spuntato dal lago sul suo carro dorato? Se a guidare i cavalli fosse stato il vecchio Caronte o l'astuta Ecate? Si immaginava che Ade avesse potuto mandare i suoi portavoce per dirgli che non aveva intenzione di riprenderselo e che avrebbe potuto mangiare anche cento chicchi della melagrana, ma lui lo lasciava a sua madre e ad Artemide.

Corse verso le acque che si aprivano in alte onde, desideroso di mettere fine al suo tormento. Lo assaliva il senso di colpa di lasciare ancora sua madre mischiato al desiderio di parlare ad Ade, di capire quali fossero i suoi sentimenti.

Lo vide. In piedi sul carro, il mantello nero svolazzante, macchiato dalle gocce di acqua che vorticavano, le briglie in mano, saldamente strette per controllare i destrieri. Koros sentì il cuore saltargli in gola. Era più bello di come lo ricordava, ed erano passate solo alcune settimane dall'ultima volta in cui lo aveva visto. Il senso di mancanza che gli aveva lacerato il cuore scomparve, sostituito dall'eccitazione di rivederlo.

Ade gli porse la mano. «Un chicco per ogni mese», gli disse.

Koros salì sul suo carro.

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