Parte 11 - Una stanza segreta


Alle spalle del monte sul quale era stato costruito il trono di Ade, si apriva un sentiero. Tanto diverso da quelli che portavano alle valli, questo era costeggiato da alberi di melograno, carichi di frutti.

Ade fece strada a Koros, ancora avvolto nel suo mantello, ancora spaventato, fino a raggiungere le mura tramite le quali si accedeva alle stanze segrete, angolo remoto e prezioso del Tartaro che nessuno, nemmeno la curiosa Ecate, poteva varcare. Erano le stanze riservate ad Ade e al suo sposo.

Benché le nozze non fossero state né consumate né celebrate ufficialmente, Ade voleva che Koros le vedesse. Fremeva di rabbia, ripensando a quanto era accaduto, alla sfacciataggine e alla protervia di Apollo, che credeva di poter varcare persino il regno degli Inferi, pur di soddisfare i propri capricci. Avrebbe voluto abbracciare Koros, dirgli che con lui non doveva temere nulla, ma non ne aveva il coraggio: non voleva spaventarlo né essere inopportuno.

«Che posto è questo?», lo riscosse Koros.

«Adesso lo vedrai, non è niente di cui tu debba aver paura». Ade aprì la massiccia porta di pietra.

Davanti a loro rifulgeva nella sua bellezza una stanza d'oro, sulle cui pareti erano incastonati rubini e diamanti. Lo stesso talamo, ricoperto di candide lenzuola, conservava la luce del sole, come se fosse un suo raggio ad averlo creato.

Un triclinio, una mensa già apparecchiata, due sedie, anfore decorate. Tutto splendeva. Koros si avvicinò alle anfore, le accarezzò con le dita, su di esse erano effigiate immagini d'amore tra Achille e Patroclo. L'amore, pensò Koros, che a lui era negato.

«Perché mi hai portato qui?», domandò, amareggiato.

«Non per quello che tu pensi. Volevo mostrarti qualcosa di bello affinché il ricordo di quello che è successo possa esserti meno amaro».

Koros si voltò verso di lui, tra la tristezza nelle sue iridi si faceva strada la meraviglia. Cominciò a camminare lungo la stanza, posando gli occhi sempre più avidi sui particolari cesellati, sulle pietre incastonate. «Com'è possibile che tu conservi un tale splendore nel regno dei morti?»

«Sono il padrone del sottosuolo, tutto ciò che le viscere della terra producono mi appartiene. I miei fratelli non ci avevano pensato quando hanno accettato di relegarmi qui». Un sorriso ironico si dipinse sulle sue labbra. «Vorrei condividere questo con qualcuno».

«Ti prego, non parlare così, non parlarmi di nozze e di amore».

Ade fu straziato dal suo tono disperato. «Non ne parlerò se tu non vuoi. Dimmi almeno se questa stanza può alleviare le tue sofferenze. Oltre quella porta c'è un corridoio e lì ci sono altre stanze preziose». Ade gli si avvicinò, osò sfiorare le sue spalle, e Koros non si sottrasse. «Non intendo comprarti».

«Sono stanco», mormorò Koros.

Ade per la prima volta si domandò se rapirlo non fosse stato un errore. Era il re degli Inferi, ma davanti alle frecce di Eros persino lui aveva smarrito la tenacia e la forza di volontà per resistere al suo cuore. Eppure, sentiva la sofferenza di Koros come fosse la sua. Sapeva anche che le speranze di conquistarlo si facevano ogni giorno più rade, come le nuvole spazzate via da Eolo. Non vedeva altre possibilità se non restituirgli la libertà, ma gli mancò il coraggio di pronunciare quelle parole. Ti libero voleva anche dire Rimango qui da solo.

«Ti lascio riposare, resta qui tutto il tempo che vuoi. Io mi ritiro nelle mie stanze. Parleremo meglio quando te la sentirai».

Koros si sdraiò sul letto, sfinito. Ade indugiò un momento prima di lasciarlo da solo. Ne osservò il volto candido, le lunghe ciglia dorate, i capelli dorati in cui avrebbe voluto affondare le dita. Era un giovane dio per cui tutti potevano perdere la testa. Lo osservò mentre il respiro si faceva più pesante, segno che Morfeo lo aveva finalmente abbracciato, regalandogli un po' di pace, assaggio dell'eterno sonno che tutti, tranne gli dei, avrebbero prima o poi provato.

Richiuse la porta alle sue spalle, senza far rumore. Addosso aveva ancora la rabbia per l'oltraggio subito da Koros, il dolore per non riuscire a farsi amare, la certezza di una solitudine imminente che sarebbe durata per sempre.

A grandi passi si diresse verso la sala dei banchetti, a cui spesso partecipavano le Erinni e semidei a cui, per via del loro status, veniva concesso di scendere nel regno degli Inferi. Aveva bisogno di distrarsi, di non pensare al dolore che lo avrebbe travolto quando avrebbe perso Koros, quando avrebbe dovuto sopportare che Demetra lo riportasse in superficie.

Afferrò il primo calice di ambrosia, sempre colmo e pronto per lui, ma non gli fu sufficiente. Con uno schiocco di dita fece apparire la bevanda di Bacco, e sperò che il dio fosse tanto pietoso da concedergli l'oblio. Bevve a grandi sorsi, sentendo l'alcol che bruciava la gola, ma all'ennesimo bicchiere che tentava di versarsi, comparve uno dei concubini con cui, prima di conoscere Koros, si intratteneva, illudendosi di sconfiggere la cupa sorte che gli era toccata.

Il giovane, nato dalla relazione tra Zeus e una ninfa, e relegato nell'Averno per volere di Era, non si era mai lamentato della vita che conduceva. Era sempre stato servizievole, pronto a soddisfare i suoi desideri e quando Ade gli domandava se non volesse risalire in superficie, godere della luce del sole di Apollo, gli rispondeva che conosceva fin troppo bene i pericoli che il mondo lassù riservava a quelli come lui e che preferiva di gran lunga la compagnia di Ade ed Ecate.

«Mio signore», disse il giovane, prendendo con delicatezza il calice dalle sue mani.

«Lasciami bere, Menta», ringhiò lui.

«Se cercate un rimedio contro la disperazione, posso offrirvene uno di gran lunga più piacevole», le sue mani corsero lungo le spalle di Ade, «so che il vostro talamo è vuoto, freddo e io non chiedo altro che darvi conforto».

«Quello di cui ho bisogno non puoi darmelo». Tentò di riprendersi il calice, ma Menta lo posò sulla mensa, poi con fare suadente si gettò tra le sue braccia. «Aspettate invano che lui venga da voi», sussurrò il giovane concubino.

Ade gli prese il volto tra le mani, il potere del vino cominciava a fare effetto e, forse, Menta aveva ragione: la sua era un'inutile attesa che prolungava solo la tortura prima dell'inevitabile rifiuto. Menta, invece, era lì, il suo corpo caldo, le sue labbra accoglienti, perché non avrebbe dovuto affogare nei suoi baci la sofferenza che lo attanagliava? Con un rapido gesto gli strappò di dosso la tunica. Menta sorrise, si accarezzò il petto, in attesa della prossima mossa di Ade.

Il dio lo spinse verso il triclinio, sentì le mani di Menta correre lungo le sue spalle, infilarsi sotto la tunica, andare dritte verso il basso con la sapienza che tante volte gli aveva già dimostrato. Ade non esitò a ricambiarlo, ad affondare dentro di lui, immaginando che il corpo che lo accoglieva fosse quello di Koros, ma l'intontimento del vino non fu sufficiente per far sopravvivere quell'illusione. La memoria dei baci di Koros, delle sue carezze esitanti, della passione che gli aveva fatto intravedere dietro la timidezza dell'inesperienza, era troppo diversa dalla consumata abilità di Menta, capace di risvegliare i suoi istinti, senza far palpitare il suo cuore. Afferrò il concubino per i fianchi e lo fece voltare, spinse dentro di lui, cercando di scacciare via con ogni colpo il ricordo dell'altro. Venne dentro il concubino con un grido di frustrazione, poi, esausto, si mise a sedere.

Menta si voltò sulla schiena, il volto soddisfatto. «Sarò per voi quello che lui non potrà mai essere, tenetevelo pure come sposo, non ne sono geloso».

«Non parlare di lui», lo ammonì Ade, ma non fece in tempo ad aggiungere altro che la porta della sala si spalancò. Sulla soglia stava Koros, gli occhi fissi sui corpi nudi di entrambi, sui segni del piacere inequivocabili che macchiavano entrambi.

«Tu e lui...», mormorò con voce spezzata.

«Koros, ascoltami». Ade si alzò, infilò la tunica nera, mentre Menta non sembrava intenzionato a spostarsi dal triclinio, trono del piacere di cui era esperto.

Gli occhi di Koros si colmarono di sdegno, le sue labbra si piegarono in una piega amara. «Siete tutti uguali».

«Cosa vuoi che faccia?», gridò Ade in preda alla frustrazione. «So bene che tu non mi vuoi!»

«E questo ti giustifica? Per un attimo avevo creduto di averti capito, invece non sei diverso da Apollo».

«Non osare», Ade gli respirò in faccia.

Koros lo allontanò. Si avvicinò a Menta, che lo guardava con aria maliziosa. «Questo intendi fare dietro le spalle del tuo sposo?»

«Credevo che tu non volessi essere tale», replicò Ade.

Menta scelse quel momento per mettersi a sedere e prendere la parola. «Mio signore, prendilo pure come sposo, io non sono geloso. Potrebbe mai darti un devoto di Artemide quello che ti do io? Con lui il tuo talamo sarebbe sempre freddo, un deserto non dissimile da quello in cui Demetra sta trasformando la terra».

Koros prese la tunica di Menta, caduta a terra, vincendo il disgusto che lo animava. Gliela lanciò addosso. «Taci. Chi sei tu per parlare di me in questo modo?»

Menta si alzò. «Sono colui che accende il tuo sposo di desiderio, sempre l'ho fatto e sempre lo farò, proprio come per sempre scorreranno i fiumi di questo regno».

Koros sentì una nuova forza animarlo, una forza sconosciuta che mai aveva provato. Forse rabbia, forse gelosia, forse indignazione. Non avrebbe saputo dirlo, sapeva solo che il sangue scorreva veloce nelle sue vene, che il cuore pompava come il giorno in cui Ade lo aveva strappato alla terra. Le mani diventarono calde ed era come se dalle sue dita uscisse del fumo. Istintivamente invocò l'aiuto di una dea. Non di Demetra, sua madre; non di Afrodite, la dea dell'amore; non di Artemide, la dea a cui era consacrato. Invocò Ecate e le sue arti magiche. Ecate che era una sua pari, al contrario del concubino che gli stava davanti e che osava parlargli in quel modo.

Mosse la mano verso Menta, e quello si immobilizzò all'istante. Il suo sorriso tronfio non ebbe il tempo di trasformarsi in un'espressione sorpresa. Il suo corpo si pietrificò come se Koros fosse stato Medusa e lui una delle sue tante vittime. Poi crollò a terra, sbriciolandosi, facendosi a brandelli. Pareva un'erba, una di quelle che potevano trovarsi lungo un fiume.

Ade rivolse uno sguardo pietoso a chi a lungo gli aveva scaldato il letto. «Cosa hai fatto?», domandò a Koros.

«Quello che avresti dovuto fare tu!», urlò Koros, poi sembrò riscuotersi. Il colore che gli aveva macchiato le gote fu trascinato via dal suo volto, sostituito da un candore lunare. Ricordò le parole di Ecate, i poteri che aveva per il solo fatto di essere lo sposo di Ade. Eppure quel matrimonio non era stato consumato. Si aggrappò al braccio del dio. «Fa' qualcosa per lui», lo implorò, ma l'altro lo guardò sconsolato.

«Non c'è nulla che io possa fare, se non concedergli di risalire verso la superficie della terra, e inondare i greti dei fiumi con l'odore dell'erba». Mentre pronunciava queste parole, quel che rimaneva del concubino sparì dalla loro vista.

Ade sollevò il mento di Koros, una speranza si era affacciata nel suo cuore. «Perché l'hai fatto? Sei geloso?»

Koros gli afferrò il polso. «Non essere ridicolo».

«Sono ridicolo?», Ade gli soffiò sulle labbra, «eppure non avresti avuto altra ragione di odiare Menta, se non la gelosia».

Koros voltò il capo verso il punto del pavimento, dove era rimasta la tunica del concubino, poi tornò a fissarlo negli occhi. «Io ti odio, Ade. Mi hai trasformato in un mostro».

Ade sentì la speranza svanire, lo spinse via. «No, il mostro sono io, ma non preoccuparti. Domani ti riporto a casa».

Non gli diede il tempo di rispondere né si fermò a osservare la sua reazione. L'idea di vedere il sorriso sul suo volto lo straziava. Preferì rifugiarsi in una delle tante valli dove non sorgeva mai il sole, avvolto dalla nebbia e dal suo dolore.

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