3. Provino

Oggi è il grande giorno.

Mi sistemo la tuta nera, arrivata a destinazione, scendo dalla metro. Mi ritrovo al centro della città in un viale alberato. Le case sono per lo più costruite in architettura coloniale e si tratta soprattutto di villette e bifamiliari. Proseguo sotto ai grandi alberi di acacia, fino ad arrivare al Gaslamp Quarter, tra edifici mattonati di rosso, arrivo alla 5th Avenue; percorro la strada costituita da palazzi tutti uguali ricoperti dello stesso colore come una coperta enorme che li avvolge; arrivo al numero centotrentacinque. Suono al citofono, una lastra in metallo grigia, pigio il bottoncino nero accanto al nome Harris, stampato su una targhetta in stampatello.

Un uomo con la voce squillante e sveglia, risponde all'altoparlante:

«John Harris?»

«Salve sono la signorina Green, sono venuta per il pro-»

mi interrompe severo «terzo piano» e il portone si apre con un forte "clac". Entro impacciata, di fronte a me si ergono delle scale in marmo che prontamente salgo con l'ansia che scorre nelle vene insieme al sangue gelato.

Ho paura.

Una volta arrivata alla porta dell'appartamento, suono il campanello e una signora sulla sessantina, vestita di tutto punto con un tailleur rosa confetto e una collana di perle bianche e che porta fieramente un neo sopra le labbra gonfiate chirurgicamente e ricoperte da un rossetto bordeaux molto appariscente, mi apre; la osservo, mentre lei mi fissa da capo a piedi con aria critica e giudiziosa.

«Ne deduco tu sia la ragazza inesperta venuta per il provino, togliti le scarpe e quella giacca, vogliamo vedere la tua figura»

«Non pensavo il corpo avesse così tanta importanza...» asserisco ammutolita e non più tanto convinta di voler fare il casting. Se queste sono le premesse, mi sto cacciando in un guaio.

«Shhh...» mi zittisce, alzando una mano.«Sto creando.» afferma con aria altezzosa continuando a rivolgere le pupille verso di me con un tono superiore, cercando qualunque tipo di difetto per sminuirmi.

Abbasso lo sguardo sul pavimento, una moquette blu. I muri sono dipinti di celeste e qua e là sono appesi dei premi sotto vetro e attestati di partecipazione; su delle mensole ci sono delle statuette d'oro. È tutto così sfarzoso e al limite del ridicolo. È tutta scena.

Seguo la donna, guardandomi attorno, passo davanti a una porta aperta, dove sono seduti tre uomini di fronte al monitor di un computer acceso. Si trovano al buio, le serrande sono chiuse e anche la luce è spenta, solo il riflesso del bagliore del desktop disegna i lineamenti dei loro visi. Mi blocco sulla porta a guardarli; l'uomo in mezzo sembra spiegare agli altri due qualcosa. Alzano tutti e tre gli occhi su di me. Mi salta un respiro.

«Léa! Ci si rivede!»

Oddio no!

Greg.

La donna in tailleur mi chiama:

«Signorinaaa! Non abbiamo tutto il giorno!» mi lancia uno sguardo tagliente.

«Arrivo!» corro verso di lei.

Entro nella stanza, che in realtà è una sala molto grande dalla forma rettangolare, al centro del muro in fondo c'è un palco in legno e al lato sinistro un pianoforte nero "Yamaha".

«Preparati per il monologo e scaldati la voce per la canzone, chiamo i miei colleghi» si rivolge a me con voce atona e meccanica. Mentre io faccio esercizi con la voce, entra una donna giovane, sulla trentina, è bionda, molto bionda, ha gli occhi verdi, coperti da un paio di occhiali molto grandi fucsia; è molto magra, al limite; indossa una gonna molto corta nera con dei collant grigi, un paio di stivaletti con tacco e una camicia celeste.

«Ciao, sono Katrin» si avvicina e mi porge la mano, che stringo volentieri.

«Ma tu non sei l'attrice di...»

«"Una canzone per due", sì, inaspettato, ma sono io»

«Fai il provino anche tu? Non pensavo che i grandi attori dovessero farne uno...»

Lei si mette a ridere, mostrando i suoi denti troppo perfetti, troppo dritti, troppo bianchi.

É una donna oggettivamente molto bella.

«Non faccio il provino, io faccio già parte del cast, come Michael» mi sorride con dolcezza, mentre io aggrotto un sopracciglio e la guardo con una espressione interrogativa.

«Michaeeel!» chiama un ragazzo

Ma il nome non mi è nuovo...

«Non sarà mica Michael Johnson?» domando confusa

«Come fai a saperlo?» mi chiede lei con sguardo affilato. Giurerei di aver notato un'ombra di gelosia nei suoi occhi.

«Credo di aver conosciuto suo fratello, Greg» ride nuovamente con foga senza nascondersi

«Lui non ha fratelli!»

Cosa?

«Michaeel! Accidenti, vieni!» urla, rimproverandolo

«Ti dispiace se io nel frattempo...?» le mostro i vestiti che vorrei indossare e una volta messi, prendo la matita nera per disegnarmi il monociglio, poi, mentre mi intreccio i capelli con i nastri e li fisso sulla testa con delle forcine con i fiori colorati, si presenta alla porta un ragazzo molto bello con gli occhi azzurri

«Léa»

«Greg»

«Qui sono Michael per te.» asserisce con voce ferma, seria e professionale.

«Quanti nomi hai? Mi confondi...» alza un angolo della bocca in un ghigno che vuole prendermi in giro.

«Da ora in poi chiamami semplicemente Michael»

«Ma non ci si chiamava tuo fratello?» chiedo indagatrice e molto interessata ai suoi segreti.

«Accidenti, mi hai beccato» schiocca la lingua sul palato.

«Non esiste nessun fratello, vero?»

Sorride malizioso

«Non esiste nessun fratello» conclude serio.

«Come ti è venuto in mente il nome Greg?» lo interrogo curiosa

«L'autore del tuo monologo si chiama così.» abbassa il viso verso il pavimento con un'espressione beffarda che stento a riconoscere.

All'improvviso entrano la signora in tailleur antipatica di poco prima e un uomo slanciato, alto con gli occhi neri come abissi e i capelli corvini, mi porge la mano.

«Martin Smith, regista»

«Oh, piacere, Léa Green!» dico imbarazzata

«Signorina, cosa ci propone oggi?» domanda la signora vestita come un maialino.

«Ah sì, un monologo di Frida Kahlo» mi sento nel panico. Michael si trova seduto davanti a me e mi rivolge un occhiolino, mentre io muoio dalla vergogna.

Non ho mai recitato di fronte a un pubblico così importante.

Comincio tenendo tra le braccia uno specchio come un neonato che cullo.

Tutto fila liscio. Mi domandano della canzone e, accomagnata da un pianista, mi ritrovo a cantarla dando il meglio di me. Sono così determinata a volere la parte che neanche la presenza di Michael mi infligge imbarazzo.

«Puoi uscire adesso, dobbiamo discutere tra noi. Fai una pausa nellla sala d'attesa qui di fronte, la signora Thomson ti accompagna, appena fatto ti richiameremo» asserisce la donna in rosa confetto.

Esco e seguendo una signora anziana, ma molto vispa, entro nella stanza ricolma tutt'intorno al perimetro di poltrone rosse in velluto.Sembrano quelle di un cinema. Mi siedo su una di queste, stendendo le gambe per mettermi comoda, mi scompongo e torno me stessa, la solita ragazza imbranata e tutt'altro che elegante.

La donna mi propone un caffè, annuisco con la testa. Ho finito.

Faccio un profondo respiro per far uscire dal mio corpo tutta la tensione accumulata.

Posa sul tavolo al centro della sala d'attesa l'espresso, preso dalla macchinetta e mi offre anche un bicchiere d'acqua.

«È andata molto bene, mi pare» afferma lei con un sorriso dolce.

«Lo spero...»

«Cinque minuti e ti chiameranno»

E infatti faccio appena in tempo a finire di bere il caffè che sento poco dopo Michael urlare il mio nome disinteressato e distaccato.

Raggiungo la porta e lui mi posa una mano sulla spalla e temo il peggio.

Mi posiziono al centro della sala di fronte al regista e alla donna molto simpatica; Michael si siede al lato sinistro nell'angolo.

«Signorina Green, abbiamo valutato il tuo repertorio e siamo giunti alla conclusione che...» inspiro profondamente, mentre le gambe mi tremano, il regista Martin prende la parola

«che potresti esserela ragazza che cerchiamo. Domani recitererai con Michael e vedremo come te la caverai... sarà decisivo» espiro felice e mi percepisco volare e librarmi da terra; non ci posso credere, Sorrido a trentadue denti. Il regista si avvicina e mi porge la mano che stringo fiera di me. «Complimenti»

Michael si avvicina me e mi sussura in un orecchio:

«Temo che dovremo vederci più spesso da ora in poi, fiorellino, a partire da domani.»

Pensavo che l'astio fra di noi fosse finito, ma mi sbagliavo.

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