2009 - 7 anni
«Tu che cosa hai scritto?» Gli occhi grandi e scuri di MJ mi fissavano con intensità, come se avessi la risposta a tutte le sue domande.
Le mie gambe dondolavano sulla sedia, non riuscivano nemmeno a sfiorare il pavimento.
La maestra Kim ci aveva assegnato un compito: scrivere una letterina a un amico di penna straniero, di cui ancora non conoscevamo l'identità, qualsiasi cosa ci venisse in mente, purché si usassero parole semplici e comprensibili.
Quell'anno era stato avviato un progetto con una scuola all'estero, nella quale gli allievi stavano imparando l'inglese.
Con il pennarello nero in mano osservai il foglio bianco: mi ero già assicurata di far sapere al mio amico di penna che mi piacevano gli scarabocchi sulle pagine. Con righello e matita avevo, infatti, decorato accuratamente ogni angolino di cornicette.
«Ancora non lo so... ma, chiunque sia, vorrei proporgli una sfida!» mormorai, mordicchiando il tappo del pennarello.
I nostri compagni avevano scritto letterine di presentazione, raccontato storie, creato disegni... Io feci tutto insieme.
Sempre utilizzando il pennarello nero tratteggiai un'immagine stilizzata di quella che dovevo essere io, con gli occhi scuri, poi ne presi un altro e colorai i miei capelli di un rosso tenue, assicurandomi di segnare il neo sulla guancia sinistra, ne presi un altro ancora per il vestitino blu notte che indossavo nelle occasioni speciali.
Sotto una freccia scrissi: Colore preferito: blu; animale preferito: l'aquila; materia scolastica preferita: musica; età: 7 anni.
Voltai il foglio, non c'era nemmeno bisogno di pensarci a lungo, le parole si stavano scrivendo da sole:
C'era una volta una bambina dai capelli rossi che non riusciva a vivere senza sognare le sue storie preferite. In alcune era una guerriera coraggiosa, in altre una principessa bellissima, in altre un'allevatrice di puledri dai manti arcobaleno, in altre una tessitrice di vestiti colorati.
In questa, nella storia della vita di tutti i giorni e senza i c'era una volta, era solo una bambina di sette anni. Era curiosa. Amava la torta al cioccolato, i pennarelli blu, vedere i film alla tivù con la sua migliore amica e sognare che suo papà trovasse l'amore. Le parti che le piacevano di più delle storie erano sempre gli inizi, perché la facevano sentire al sicuro. I finali, invece, le piaceva farli scrivere alla sua migliore amica. Fino ai suoi sette anni la vita era volata, fra mille avventure. Grazie alle storie che amava inventare era come se ne avesse vissute tantissime.
Ora ti domanderai: perché stai leggendo questa lettera? E chi è questa spaziale e incredibile bambina? Non è un caso che questo pezzo di carta sia finito nelle tue mani! Vuol dire che sei uno dei prescelti per fare una cosa difficile: custodire per sempre i ricordi della me di sette anni, le parole e l'inchiostro che adesso sto usando per scrivere a te e al futuro.
Che ne dici se ci incontriamo dopo che saranno passati quattro volte sette anni? 7+7+7+7 che, secondo la maestra, sommando anche i sette anni che abbiamo adesso, fa 35. Il 17 agosto fra 35 anni in questo punto del mondo...
Mi interruppi e puntai i piedi per scendere dalla sedia e avvicinarmi al mappamondo appoggiato sulla cattedra. Gli diedi una spinta e chiusi gli occhi, con l'indice pronto a farsi guidare dal destino e scegliere il punto del mondo che mi avrebbe restituito questi miei ricordi.
Il polpastrello toccò la superficie liscia: in prossimità di Londra, leggermente sopra. Quasi vicino a York.
Tornai di corsa, facendo scivolare più in basso le calze della divisa scolastica, e saltai di nuovo sulla sedia, questa volta con le gambe incrociate:
... York, in Inghilterra.
Se non ti presenterai, ti perseguiterà per sempre lo spirito di una bambina molto arrabbiata e il tuo c'era una volta potrebbe finire in un tragico: scomparve dalla faccia della Terra.
Ci vediamo nel futuro! Ciao.
Inclinai la testa per rileggere un'ultima volta prima di correre al banco di MJ. Lei soffiò sulla fronte per spostarsi una ciocca di capelli neri e mi guardò con due punti interrogativi al posto degli occhi. Le misi le mie parole in mano. «C'era una volta?» domandò sorridendo.
«Me l'hai detto tu.» Mi appoggiai con le mani sul suo banco mi avvicinai a lei per studiare l'espressione del suo viso durante la lettura: «È così che cominciano tutte le storie, vero?».
I suoi occhi profondi si muovevano su ogni sillaba che avevo scritto, contò gli anni con le dita come avevo fatto anch'io per assicurarsi che fosse giusto il calcolo e alzò lo sguardo su di me per sorridermi, mettendo in mostra la piccola fossetta sulla guancia sinistra: «Far credere a un bambino che potresti tormentarlo per sempre dopo la morte solo perché non ti ha restituito una lettera è proprio una cosa da Ester Wyre».
«Ogni volta che chiedo a papà di raccontarmi le cose che faceva quando aveva sette anni, mi dice che non si ricorda quasi niente di quando era bambino, perché i ricordi vanno via con il tempo. Io però non voglio dimenticare chi sono adesso» sussurrai.
«Anche mia mamma non si ricorda quasi niente. Non è che ogni volta che facciamo il compleanno perdiamo un po' di memoria?» disse MJ sinceramente curiosa.
Piegai subito il foglio e lo misi dentro la busta colorata che ci aveva distribuito la maestra, ci incollai uno degli sticker più belli che avevo in fondo al diario: una clessidra con dentro tante stelline olografiche multicolori.
Fu in quel momento che, per la prima volta, mi sentii protagonista di una delle storie che io e MJ amavamo scrivere, con una fine incerta ma con un inizio che non poteva non essere c'era una volta.
Incollando l'adesivo, cominciai a fantasticare su chi fosse il destinatario o la destinataria di quelle mie parole: forse una bambina della mia età che proveniva dall'altra parte del mondo, tipo il Messico? O magari un'altra che, invece, viveva in una ricca cittadina, come nei film, e aveva anche una casetta per i suoi chihuahua? Non che mi aspettassi che la promessa venisse mantenuta.
Lo pretendevo.
Quel compito aveva segnato il nostro ultimo giorno di scuola.
Le vacanze estive sarebbero cominciate a partire da quello stesso pomeriggio e, finalmente, le mie giornate sarebbero state scandite da ore e ore di racconti e storie insieme a MJ.
La mia casa si trovava proprio davanti a quella della mia migliore amica e di sua mamma Sue, a separarci una strada, che però ci impediva di realizzare il nostro sogno più grande: vivere ogni giorno e ogni ora insieme.
Eravamo migliori amiche dall'asilo, dal giorno in cui, all'ultimo anno, le maestre della materna ci avevano chiesto di raccontare la nostra favola preferita e MJ se n'era inventata una tutta sua. Mi ero avvicinata per chiederle come continuasse, mentre mi mangiavo il secondo panino alla marmellata di albicocche, e da lì non avevamo mai smesso di lasciare che le nostre vocine acute inanellassero una parola dopo l'altra, nel silenzio delle nostre camerette, per creare le storie più belle del mondo: un giorno eravamo delle streghe, un altro cavalcavamo draghi, un altro ancora sapevamo a memoria gli incantesimi di Hogwarts e... per MJ c'erano sempre principi azzurri che arrivavano a salvarci dal pericolo.
«Principessa Ester, quali sono le tue ultime parole?» domandò lei, giocherellando con il tappo del pennarello.
La mia camera con i muri rosa pallido, il letto a baldacchino con le tendine bianche, la scrivania che quasi non si vedeva per la quantità di pennarelli e fogli che la ricoprivano e la moquette chiara e nuova di zecca facevano da sfondo alla nostra avventura di quel pomeriggio: eravamo due principesse di un regno molto lontano che, grazie all'aiuto di due giovani cavalieri e alleati, avevamo liberato dal nostro nemico più grande.
«Grazie per il tuo aiuto, mio coraggioso guerriero.» Scattai in piedi, in mezzo alla stanza, per inchinarmi di fronte a un prin- cipe invisibile. «Ma è arrivato il momento di dirti addio, adesso non posso essere la tua fidanzata... devo... devo salvare il mondo!» conclusi, schiarendomi la voce: «... E fu così che non si videro mai più, e i loro destini furono spiaccicati come dei teneri fiorellini sotto i piedi di un orco puzzolente». Mi applaudii da sola.
«Ester!» MJ alzò gli occhi al cielo, muovendo le mani come per allontanare la nuvoletta che mi ero creata sopra la testa.
«Che c'è di male in un e vissero per sempre felici e contenti?»
Cominciò a scrivere, facendo ruotare la sedia girevole davanti alla scrivania, così io continuai a danzare fino a quando non mi stesi sulla moquette e osservai le parole che aveva annotato con cura: E, come nelle più belle storie d'amore, vissero per sempre felici e contenti.
Succedeva in modo spontaneo, senza che avessimo bisogno di definirlo: MJ si occupava sempre della cornice, le ambientazioni, la trama e gli sviluppi delle storie d'amore; io correvo avanti e indietro in giro per la stanza immaginando le azioni, ma soprattutto i dialoghi dei nostri personaggi, come se stessimo vedendo un film.
«Ma il mio, infatti, è un lieto fine! Due principesse che fanno il loro dovere e promettono di proteggere il regno per sempre» dissi.
«Ci aggiungo "Insieme all'amore dei loro principi azzurri"» borbottò.
«Mi piace il mio finale, ma per oggi lo lascio a te» le concessi, giocherellando con le mie gambe.
«Ti domandi mai quante storie ci siano da raccontare?» chiese lei, tratteggiando le parole finali con colori diversi.
«Tantissime... tante come i granelli della sabbia» dissi io. «E molte non finiscono bene.»
«Ma i c'era una volta finiscono sempre con i per sempre felici e contenti» sbottò lei.
«E invece del lieto fine c'era una volta il triste fine» la presi in giro: «Visto?».
Fummo interrotte da papà, che entrato nella mia cameretta, ci avvisò: «Vi ricordate che cosa vi avevo promesso di fare oggi?».
Guardai fuori dalla finestra. Mentre i nostri genitori e i loro amici al piano di sotto avevano ormai finito di cenare, la buia campagna circostante era rischiarata appena dalla luna e dalle stelle. Si sentiva il frinire dei grilli e il tepore piacevole dell'estate inglese sapeva di libertà. Quindi c'era solo una cosa che mancava...
«LA NOTTE DELLE STELLE!» MJ e io ci guardammo e gridammo insieme, alzandoci in piedi.
Papà amava le stelle, non a caso era un professore di astronomia. Aveva un telescopio grande quanto la mia stessa faccia, in grado di zoomare nel cielo come fosse l'obbiettivo di una qualsiasi fotocamera.
Posizionato nella mansarda della nostra casa, aveva inaugurato una tradizione estiva: quando il cielo era sgombro dalle nuvole dovevamo scovare gli astri più belli. O, come diceva MJ, collegare i puntini; o, come dicevo io, far finta di avere un aghetto in mano e tesserci dei disegni. Alla luce delle lampadine a ricarica solare, ci divertivamo a sfogliare i libri di papà e a trovare la corrispondenza su quella tela scura chiamata cielo.
Saltammo in piedi, prendemmo per mano papà e lo trascinammo sulle scale fino ad arrivare al telescopio, al quale, per la pre- cisione, non mi faceva mai avvicinare da sola. Aveva paura che glielo rompessi, preoccupazione legittima visto che una volta, non riuscendo a mettere a fuoco le stelle, avevo tolto una vite che non doveva essere toccata e lui aveva impiegato un giorno intero a rimettere tutto a posto.
La mansarda si riempì immediatamente delle nostre risate.
«Il cielo estivo è il mio preferito» commentò papà mentre io e MJ battagliavamo su chi per prima sarebbe arrivata a guardare dentro l'oculare. Mio padre posò le mani sopra le nostre spalle per fermarci e istruirci.
Mi appoggiai con i gomiti alla piccola finestrella della mansarda. MJ osservava la Via Lattea dal telescopio.
Cominciai a trapassare le stelle con fili immaginari, tracciando con le dita i percorsi che avrebbero dovuto seguire, facendo assumere loro le forme che più mi andavano a genio. Seppur contemplando dalla finestra, chiusi anch'io un occhio per mettere a fuoco... Un cuore, una stella a forma di... stella, una freccia... Fino a che... «Papà, ma quello è un vero triangolo?»
Sentii scricchiolare le assi di legno sotto i passi di papà alle mie spalle e MJ mi spintonò leggermente per affiancarsi a me sul davanzale della finestra. «Sì, quello è chiamato il "triangolo estivo" e contiene tre delle stelle più luminose in questo perio- do dell'anno: Altair, Vega e Deneb. Formano un vero e proprio triangolo.» La voce accogliente e calda di papà fu come l'inizio di una storia, il principio di qualcosa.
«Ma sono vicinissime» mormorai, continuando a ripassare con le dita quel triangolo celeste.
«Sì, per noi piccoli umani sì» rise papà. «Appartengono a tre costellazioni diverse: Altair a quella dell'Aquila, Vega a quella della Lira e Deneb al Cigno. Sono così distanti tra loro che ci metterebbero anni luce per incontrarsi.»
Mentre lo diceva, tentai di calcolare la distanza con le dita, a spanne, come se valesse qualcosa. Erano lontane... un'eternità. Eppure, sembravano così vicine da poterle tenere in una mano.
«Sono lunghi, gli anni luce?» domandò MJ.
«Non ci basta una vita per poterne percorrere uno solo.» Papà abbozzò un sorriso.
«E quante ce ne servirebbero?» chiesi io. «Se partiamo oggi, intendo, tra quante vite potremo toccare quelle stelle?»
Papà scoppiò a ridere e tornò a concentrarsi sul telescopio.
Lo seguii con lo sguardo e le sopracciglia inarcate per la leggerezza con la quale aveva liquidato la mia domanda: io avevo bisogno di risposte. Era un adulto. Perché non aveva trovato la soluzione al mio problema?
«Magari è così che comincia il nostro c'era una volta...» MJ fece spallucce, accanto a me. «Con un viaggio verso le stelle. Te lo immagini?» Il cielo nero parve specchiarsi nelle sue pu- pille profonde.
«Papà...» Alzai gli occhi su di lui. «Ma quante forme ci sono nel cielo?»
«Tantissime» rispose. «Il cielo è pieno di costellazioni e adesso vi dirò una cosa che vi piacerà molto: ciascuna di loro, come il triangolo estivo, ha una storia da raccontare.» Io e MJ lo guardammo a bocca aperta, lui sorrise.
Il mio sguardo cercò subito quello della mia migliore amica: «Voglio raccontarle tutte».
«Lo faremo» disse lei con la mente già proiettata nel mondo dei sogni. «Però voglio anche contare tutte quelle stelle.»
«Non avete bisogno di viaggiare verso le stelle» intervenne una voce dolce alle nostre spalle. Era Soo-yeon, la mamma di MJ. Per noi semplicemente Sue. O, quando eravamo a scuola, maestra Kim. Si appoggiò con la spalla allo stipite della porta, probabilmente aveva sentito tutta la nostra conversazione: «Siete già le stelle più belle di tutto l'universo». Le si assottigliarono gli occhi per il sorriso. «E ora, chi vuole una fetta di cheesecake? L'ho preparata io e ci ho messo anche le gocce di cioccolato che vi piacciono tanto.»
L'entusiasmo per la torta venne confermato anche dalle voci degli amici di papà e di Sue che provenivano dal piano di sotto.
Come sarebbe cominciata una storia sotto un cielo stellato?
C'erano una volta due non-sorelle, ma praticamente sorelle, che con occhi luccicanti tessevano immagini nel cielo e che, la notte del 15 luglio, si scambiarono uno sguardo consapevole. Speravano, infatti, che una delle storie d'amore più belle di sempre sarebbe nata proprio lì, davanti a loro, tra la persona che Ester chiamava papà e quella che MJ chiamava mamma, e che abitavano ancora in due case divise da una striscia di strada. Le due bambine avrebbero fatto il possibile perché quelle case diventassero una sola.
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