Il negromante
Cletus stava in ginocchio da un pezzo, tanto che sentiva male alle articolazioni. Un dolore tutto sommato da poco, che non poteva competere con quello dell'anima, che era come una tagliola dai denti affilati. Li sentiva affondare nel cuore, stringere, mollare e stringere di nuovo.
Al diavolo, si disse.
Infilò le mani sotto la schiena e le gambe del
(morto)
ragazzo e lo sollevò. Il ragazzo era pallido da far paura, più delle lenzuola, e le labbra erano viola come il cielo al tramonto. Mentre usciva dalla stanza gli parve che pesasse di più, come se la morte l'avesse appesantito. Quando mise piede in soggiorno, Mia sollevò la testa e, nel vederlo con in braccio il
(morto)
ragazzo, perse un'altra tonalità di rosa. Alla luce della lampada a cherosene le sue guance si fecero bianche. Cletus la fissò e lei pensò che non l'aveva mai visto così serio. Era un uomo gioioso, che amava ridere e scherzare anche quando le cose non giravano bene. In quel momento, però, le parve di avere di fronte un estraneo.
«Lo porto dal negromante», disse Cletus.
Mia drizzò la schiena e si portò una mano al seno. Fece per dire qualcosa che era di certo un'obiezione sensata, ma la vista del
(morto)
ragazzo le chiuse la bocca. Qualsiasi cosa volesse dire, per quanto sensata, sprofondò nella cantina buia dalla quale era emersa. Mia ce la chiuse dentro, dietro una porta solida, e si alzò. Cletus pensò che volesse strappargli il ragazzo dalle mani ed era pronto a opporsi, ma Mia gli passò semplicemente accanto. La vide andare nella stanza da letto, prendere un lenzuolo, tornare in soggiorno e dispiegarlo sul tavolo, accanto alla lampada. Giunse quindi le mani e osservò Cletus.
«Sei sicura?» chiese lui.
Lei annuì. Era pallida come uno spettro. Cletus adagiò il corpo sul lenzuolo e confezionò il sudario. Quindi prese l'involto e, dopo un'ultima occhiata a Mia, uscì di casa.
Il carretto era sul retro, già pronto. Il mulo che lo trainava stava annusando la terra. Cletus adagiò il corpo sul pianale e montò in cassetta. Spronò il mulo e, quando passò accanto alla finestra, vide che Mia sedeva al tavolo dove loro tre avevano consumato ogni pasto nelle ultime dodici primavere. Il ricordo lo invase e si sciolse quando si accorse che Mia fissava in maniera morbosa la sedia dove si accomodava il ragazzo. La cosa lo turbò, ma poi pensò a dov'era diretto e a cosa sarebbe accaduto quando ci fosse arrivato, e il timore che sua moglie stesse impazzendo svanì. Tutti i timori svanirono.
Si allentò persino il morso di quella tagliola che gli azzannava il cuore.
* * *
Per tutto il viaggio Cletus pensò al ragazzo e a cosa avrebbero fatto una volta che il negromante l'avesse riportato in vita. Potevano andare a pescare. Dopotutto avevano un lago tutto per loro. Cletus dubitava che ci fossero pesci e, se ce n'erano, forse non erano manco commestibili, ma l'immagine di loro due su una zattera era così nitida nella mente che non dava spazio ad altri ragionamenti.
E proprio mentre rifletteva su questa possibilità vide oltre una macchia di vegetazione la capanna d'argilla. Aveva il tetto di paglia e sembrava una creatura nata dal fango della palude. Cletus fermò il carretto e zompò giù, atterrando a piè pari nel fango con un ciak!. Il terreno era un pantano anche se non pioveva da tempo.
Cletus pigliò l'involto con dentro il ragazzo. I piedi nudi spuntavano fuori del lenzuolo, bianchi come la pancia di un pesce. Camminò sino alla porta della capanna e lì si fermò. Per bussare avrebbe dovuto mettere a terra il ragazzo. Cominciò a chinarsi e la porta si aprì di uno spiraglio. Apparve un occhio catarroso a spiarlo. Aveva la sclera ingiallita, una ragnatela di venuzze rosse e la pupilla chiara. L'occhio lo esaminò e si fermò con morboso interesse sull'involto dal quale spuntavano i piedi.
«Mi chiamo Cletus McGowan.»
«Quello cos'è?» gracchiò il tizio nella capanna.
«Mio figlio.»
«Scommetto che indovino perché sei qui. Vuoi che riacchiappo l'anima del tuo ragazzo e gliela rificco in corpo.»
«Voglio che lo riporti in vita.»
«E che ci guadagno?»
«Ho dell'argento.»
L'occhio si fece attento e scrutò il viso di Cletus come se volesse imprimersi ogni ruga. Lo spiraglio si chiuse e dopo un secondo la porta si aprì lentamente. Cletus entrò. La capanna era piccola come un ditale e puzzava come una stalla. Non c'erano finestre e l'unica fonte di luce era data da quattro candele posizionate agli angoli. C'era poi un giaciglio di paglia in fondo e un misero tavolo di legno marcio.
Cletus vide la luce alle sue spalle smorzarsi e udì la porta chiudersi. Si girò e vide una forma scura che pareva un'ombra.
«Scommetto che hai fatto un luuungo viaggio per arrivare qui», disse l'ombra con la voce da cornacchia.
Cletus la vide strisciare sulle braccia, lasciandosi dietro uno strascico nero, e solo allora capì: il negromante indossava una veste nera con cappuccio e non aveva le gambe.
«Sei dell'Entro-Terra?»
«Vivo sulla sponda del lago», disse Cletus.
Il negromante smise di strisciare e sollevò la testa. Cletus vide due occhi luminosi ficcati in un volto scavato e vecchio come il mondo. Due ragnatele di vasi sanguigni li tenevano sospesi nelle sclere malaticce.
«Bene», fece il negromante e sorrise sollevando un angolo delle labbra.
Cletus rabbrividì e strinse a sé il ragazzo avvolto nel sudario come se fosse un amuleto in grado di proteggerlo da un maleficio.
Il negromante riprese a strisciare, passando accanto a Cletus e dirigendosi verso il misero tavolo. Cletus stava abituandosi all'oscurità della capanna e si accorse di una seggiola sgangherata accostata al tavolo. Il negromante ci si issò sopra con un po' di difficoltà. Spostò lo strascico nero e Cletus vide i moncherini delle gambe, orribilmente mutilati. La pelle era lucida e c'erano delle cicatrici scure. Cletus provò a dissimulare il disgusto ma non ci riuscì.
«Non è un bello spettacolo, eh?» fece il negromante.
Aveva ancora quel sorrisetto sghembo. Sembrava una paresi. I denti storti, accavallati come microscopiche lapidi piantate in modo disordinato una accanto all'altra, avevano bisogno di una pulita. E avevano pure lo stesso colore delle sclere.
«Quante primavere aveva?»
Cletus capì che chiedeva del ragazzo. «Dodici.»
«E com'è morto?»
«Che differenza fa?»
«Se è morto di qualche male particolare e io lo resuscito, facile che il male che se l'è portato via la prima volta se lo porta via pure la seconda.»
«È morto di polmonite», fece Cletus e il negromante annuì. «Puoi riportarlo?»
«Se hai l'argento.»
«Ce l'ho.»
«Vediamolo.»
Cletus mise a terra il fagotto, si ficcò una mano in tasca e tirò fuori un sacchetto di cuoio morbido. Allentò il laccio, ficcò due dita dentro pigliò una moneta e la lanciò al negromante che l'acchiappò al volo. Se la guardò per bene, poi la morsicò. Cletus pensò per un attimo ai denti non proprio di primo pelo e si aspettò di vedere il negromante sputarne un paio, ma non accadde.
«Sembra buono», fece l'uomo e tese la mano come un mendicante, il palmo all'in su.
«Prima riportalo in vita», disse Cletus.
Il negromante ritrasse la mano. Una smorfia di disappunto gli sollevò il labbro superiore di un niente. Si calò dalla sedia e strisciò sino al giaciglio. Nascose tra la paglia la moneta e disse a Cletus: «Esci.»
Cletus lo fissò.
«Il rituale è pericoloso per i vivi.» Cleuts si accigliò e il negromante intuì la domanda che gli passava per la mente, perché disse: «A me non mi toccano perché so come tenerli a bada.»
«Chi devi tenere a bada?»
Il negromante sollevò un angolo della bocca in modo beffardo. «Meglio se non lo sai», disse e poi, come fosse infastidito dalla presenza di Cletus: «Allora, te ne vai o aspettiamo che il tuo ragazzo marcisce?»
Come in un sogno, Cletus si mosse lento e impacciato. Girò i tacchi e uscì alla luce del giorno, benedicendo il Sole e l'aria fresca che spazzarono via la semioscurità e il puzzo della capanna. Chiuse la porta e, non sapendo cosa fare nell'attesa, restò nei paraggi a gironzolare. Il silenzio della palude era irreale. L'unico suono era quello del mulo che sbuffava. Cletus non ricordava di averlo mai visto così nervoso. Si chiese il motivo e, come risposta, gli giunse alle orecchie un ululato bestiale.
Cletus trasalì mentre il mulo agitava la testa e rinculava. Si voltò verso la capanna e sentì ancora una volta quell'ululato. Solo che non era proprio un ululato. Era come se più voci gridassero all'unisono, creando una cacofonia insopportabile per l'orecchio umano. Cletus sentì la pelle che si ritirava come se volesse staccarsi dalle ossa e fuggire via, e per un attimo ebbe voglia di imitarla. L'ululato salì di intensità e ricadde come una folata di vento. La cacofonia esplose per l'ennesima volta e Cletus percepì una diabolica nota di trionfo.
Preso da un raptus improvviso, corse verso la capanna e tentò la porta. Era chiusa. Cominciò a battere la base dei pugni sul legno, gridando al vecchio che aveva cambiato idea e rivoleva il corpo di suo figlio, ma non servì. Tentò allora di buttare giù la porta, ma quella figlia di puttana sembrava inchiodata allo stipite. Un ruggito improvviso la fece vibrare e Cletus arretrò, inciampò e andò col culo per terra. L'occhio gli cadde sulla fessura alla base della porta. Si vedeva una luce rossa e pulsante, come quella di un gigantesco braciere su cui qualcuno soffiasse. Mentre si chiedeva che diavolo stesse accadendo lì dentro, si accorse del silenzio che era calato di colpo. Un silenzio nel quale si muoveva qualcosa. Udì, chiaro, il suono di una gola che prendeva aria. La luce rossa all'interno della capanna pulsò un'ultima volta e si spense.
Cletus si alzò, su gambe non proprio ferme e tentò ancora una volta la porta, che stavolta si aprì. La sospinse e, con cautela, sbirciò all'interno della capanna. Trovò il ragazzo, ancora avvolto nel sudario, che s'era alzato a sedere. Quando i cardini della porta cigolarono, la forma avvolta nel sudario si voltò verso l'uscio e cominciò subito a rinculare. Nel farlo, il sudario scivolò via come un sipario e Cletus vide il suo ragazzo. Nella penombra della capanna pareva uno spettro, ma era lui. Rinculò sino al giaciglio di paglia e lì si fermò. Si guardò intorno, stranito.
«Cristo e Messiah...» mormorò Cletus.
Spalancò del tutto la porta, così che la luce entrasse nella capanna. Quando il rettangolo luminoso lo investì, il ragazzo quasi urlò: «Papà», poi si alzò di scatto e gli corse incontro. Cletus si mise in ginocchio e, quando il ragazzo gli piombò tra le braccia, pianse come non aveva mai fatto. Singhiozzò a lungo, inzuppando la spalla del ragazzo e tenendolo stretto.
«Il mio ragazzo...» disse tra i singhiozzi.
Quando lo mollò, gli piazzò le braccia sulle spalle e rimase a guardarlo con gli occhi umidi. Gli prese il viso tra le mani. Era caldo. Ricordò ancora quando l'aveva toccato, neanche un'ora fa, ed era gelido come la neve.
«È un miracolo», disse Cletus, la voce spezzata dall'emozione.
«Papà, che cos'è questo posto?» chiese il ragazzo.
Cletus si asciugò gli occhi col dorso della mano. «È la casa di un... amico.»
«Puzza», disse il ragazzo.
A Cletus scappò da ridere. «Sì, è vero.»
«Possiamo tornare a casa nostra?»
«Sicuro», disse Cletus. Si alzò e solo allora s'accorse della forma scura nell'angolo più remoto della capanna. «Aspetta fuori, vengo subito.»
Attese che il ragazzo uscisse e mosse un timido passo verso l'angolo della capanna. La forma scura assunse un'aria familiare. Il vecchio negromante stava seduto in un angolo, avvolto nel suo nero mantello. Cletus gli si avvicinò, pigliò dalla tasca la sacchetta con l'argento e gliela tirò ai piedi.
«Non so come hai fatto e manco voglio saperlo. Mi basta solo che ho di nuovo il mio ragazzo.»
Il vecchio non disse né «a» e né «i». Cletus allungò una mano e gliela piazzò sulla spalla. Bastò a far accasciare il vecchio di lato. Il cappuccio scivolò indietro, giusto un po', ma bastò a mostrare quello che celava: un teschio nero, bruciato, al quale restavano incollati pochi frammenti di pelle cotta. Cletus rinculò così in fretta che inciampò nei propri piedi e cadde col culo per terra.
Fissò quello che fino a pochi minuti prima era un vecchio avvizzito e si chiese che diavolo fosse accaduto negli istanti in cui quelle voci belanti avevano invaso la capanna.
Meglio se non lo sai.
Così aveva parlato il vecchio negromante. Cos'altro aveva detto? Qualcosa sul fatto che il rituale era pericoloso per i vivi e qualcos'altro sul fatto che lui sapeva tenerli a bada... ma forse non quanto credeva.
«Al diavolo», disse Cletus.
Si allungò e recuperò l'argento, quindi uscì dalla capanna velocemente e si chiuse la porta alle spalle. Il ragazzo stava accanto al mulo. Si allungava per carezzarlo, ma il mulo non pareva gradire. Cletus li raggiunse.
«Che gli piglia?» fece il ragazzo.
«È un po' nervoso.»
«Perché?»
Cletus ricordò le voci belanti e disse: «La palude non gli piace.»
«Manco a me. Possiamo andare a casa?»
«Sicuro», fece Cletus.
Sollevò il ragazzo per le ascelle e l'aiutò a montare in cassetta, poi lo raggiunse. Pigliò le briglie, le fece schioccare e il mulo fu felice di ripartire. Il carretto compì un mezzo giro e andò verso est.
Mentre si allontanavano, il ragazzo si voltò una volta a guardare la capanna e un angolo della bocca gli si sollevò in una smorfia di trionfo beffardo.
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