Capitolo 27

Il sapore della terra era ricco e forte.
Nonostante cercasse sempre di focalizzarsi su qualcos'altro, l'odore della terra lo perseguitava.
Questo saliva nelle sue narici e gli suscitava molti ricordi, la maggior parte dei quali infelici. Ogni volta ripensava ai campi vicino casa, dove migliaia di servi lavoravano a braccio con i contadini. L'odore gli ricordava la stagione umida e fredda dell'inverno.
A casa sua, quando venivano le prime nevicate, tutta la gioia del mondo moriva: non poteva mai fare nulla, se non rimanere in casa e pregare per il bel tempo.
Questo era l'inverno che conosceva: un perpetuo aspettare.
Ma lui non sapeva aspettare, spesso non riusciva a stare fermo più di un secondo. Sentiva il bisogno famelico di fare qual cosa, anche una stupida piccola azione.
Fin da bambino odiava rimanere seduto, come invece faceva molto bene sua madre, ed aspettare un qualcosa.
Così l'inverno scappava dalle stalle, dove abitava, e faceva lunghe passeggiate.
Gli piaceva osservare.
Non con insistenza da maniaco, piuttosto osservava il mondo con gli occhi colmi e bramosi di un bambino curioso, che come un fantasma si spostava fra le terre.
Aveva appreso molte cose durante quelle giornate in cui scompariva: molte cose degli animali, molte altre sugli esseri umani.
Aveva visto una volta un riccio partorire, vicino a un albero, e se non fosse stato per lui, sarebbe morta per il freddo e con lei l'intera cucciolata.
Dopo un anno esatto, sempre nello stesso giorno e sotto lo stesso albero aveva visto una donna partorire.
Il bambino non era come il cucciolo, non era viola e silenzioso, bensì rosso e urlante.
Quella visione l'aveva spaventato così tanto che era fuggito.
Non era stato istruito, non prima dei suoi 10 anni, ma già da piccolino sapeva molte cose.
Forse era stato il suo sapere a salvargli la vita, la sua scaltrezza.
L'odore della terra gli ricordava la madre, ormai parte del suolo. Il suo corpo non era stato bruciato, né cremato. L'avevano semplicemente sotterrata, come una pianta e lasciata lì senza ripensamenti.
Improvvisamente incapace di sopportare il dolore, Angelos si alzò dalla sedia.
Si avvicinò agile al balcone e guardò il panorama: una città misera e calda. Era meglio casa sua, più fresca, accogliente, piena di vita e con un gran mercato di pesce.
Dopo i 10 anni, durante l'inverno,  camminava sempre furtivo per le vie della sua città, con un mantello sulla testa, nascosto, per osservare la gente nelle proprie case.
Sembrerebbe alquanto strano, ma gli pareva che quelli che osservava dalle finestre, avessero qualcosa di importante, qualcosa che lui non aveva mai avuto.
Aveva avuto una madre. Poi in un secondo momento suo padre. Ma la consapevolezza di essere un figlio nato da una concubina, aveva reso il suo modo di credere ad una famiglia del tutto diverso a quello dei suoi coetanei.
Se non fosse stato in quella scuola, avrebbe continuato a vagare in tutte le città del mondo, correndo tutti i rischi ed i pericoli necessari.
Un ricordo sepolto da anni, riaffiorò nella sua mente. Il volto di un uomo. Un uomo qualunque molto affabile e bello, che l'aveva avvicinato quando era bambino. Si trovavano poco lontano dal villaggio, il vento tirava da nord freddo. Angelos non aveva fatto che due passi prima di rannicchiarsi gelato sul suolo, poi ricordava che il vento era calato abbastanza da permettergli di alzare il viso e allora aveva visto quell'uomo, lo straniero, che lo osservava curioso.
Aveva fatto passare il suo dito ossuto sulla sua cicatrice sulla mano e aveva subito sorriso riconoscendola.
Non ricordava il viso dell'uomo, ma era quasi sicuro che aveva gli occhi rossi. Occhi non comuni.
Da allora si erano sempre visti, per un mese intero, il mese prima del decesso della sua povera madre.
Chissà, se il padre non l'avesse preso con sé, sarebbe scappato con quell'uomo, che gli regalava grandi sorrisi e gli insegnava della vita.
Non sapeva il suo nome. "Peccato" pensò.
Senza accorgersene si toccò la sua cicatrice sulla mano: un'ala stilizzata. La sua condanna e la sua salvezza, questa era la sua cicatrice, la prova della sua diversità.
Decise di andare in giardino. Uscì verso le scale e incontrò Dennis, che tornava su correndo.
Quando i due incontrarono gli occhi, il ragazzo si fermò sulle scale, incerto.
Dall'incidente di 5 giorni prima Denis non aveva più parlato con Angelos, né d'altra parte con Nicolas.
Come sempre Angelos gli sorrise, un sorriso il suo che non raggiungeva gli occhi.
-Ciao Denny. Il suo tono era sicuro e placido.
-Angelos.
Rimasero così a guardarsi. Allora Angelos decise di incalzare.
-Dove corri?
Il ragazzo si appoggiò alla balaustra. Angelos si deliziò nel vedere il suo atteggiamento intimidito.
-Affari.
Il sopracciglio gli schizzò fin ai capelli.
-Affari? Tu? E di che genere? Non era certo un argomento da fare su una rampa di scale, quello, e Angelos lo sapeva benissimo.
-Devo andare. Si limitò a dire il ragazzo.
Fece due passi prima di essere fermato di nuovo dal compagno.
-Sai non mi hai mai ringraziato.
Denis si fermò, come se fosse andato a sbattere contro un muro, si girò appena e lo squadrò.
Ogni suo muscolo si bloccò, gli occhi mandarono scintille. Furtivamente controllò che non ci fossero altre persone vicino, poi si precipitò verso Angelos e lo prese per il bavero.
Nonostante il ragazzo era rimasto un secondo spaventato dalla velocità del compagno, Angelos si mise a ridere.
-Non lo sai? Anche i muri hanno le orecchie.
Denis alzò un dito e lo puntò minacciosamente contro Angelos. Le guance erano tirate, i denti digrignati come un leone e le narici dilatate.
-Non è successo niente. La paura lo spaventava a morte. Voleva chiarire la situazione.
-Non c'è di che. Disse Angelos ancora trattenuto con arroganza.
Denis lo lasciò andare. Angelos si passò una mano sul collo, ma non abbassò lo sguardo dai suoi occhi energici. Si guardarono attentamente, cercando di vedersi oltre.
-Cosa vuoi? Gli domandò Denis, quasi spaventato.
Sua madre gli aveva più volte ripetuto che lui aveva un potere sulle persone, da bambino non aveva capito, ma ora la cosa lo incuriosiva.
Aprì le braccia in un segno di fraternità, che però perse il significato principale.
-Sfortunatamente da te nulla.
Che cosa vuoi, gli aveva chiesto, ma non lo sapeva neppure lui.
Denis lo studiò, indeciso, alla fine si allontanò di due passi, indeciso se lasciarlo.
-Da dove venivi? Cambiò discorso ora infastidito.
-Erika. Denis guardò le scale.
-Come sta? La domanda stupì entrambi.
-Bene.- Denis sorrise debolmente- ero andata a vedere come stava, sai tutti siamo spaventati.
-Eri andato a vedere se Xenios era lì. Il sorriso sul viso di Denis morì. Le persone come lui, Angelos le aveva viste e riviste, non persone malvagie, ma che cercavano di ascendere nella piramide sociale, che erano, o si sentivano ( nel caso di Denny entrambi) destinati a grandezze. Non erano poi così diversi. Angelos l'aveva capito subito: Denis seguiva il maestro ovunque, faceva tutto ciò che gli altri si aspettavano e poi aveva sentito le conversazione con il suo amico Nicolas. Non stava spiando, capitava per caso nel corridoio e aveva deciso di non farsi scappare quell'occasione.
-Non essere meschino, non lo farei mai. A dire bugie era molto bravo, oppure era troppo stupido da non capirsi. Angelos non lo conosceva così bene da capirlo.
-E hai visto le cicatrici? Non capiva perché stesse continuamente cercando un dialogo con lui, chiaramente Denis non voleva trovarsi lì, ma era così cortese da non andarsene.
Gli occhi del ragazzo persero un po' di ferocia, guardava lontano. C'era qualcosa nella sua espressione che tradiva troppa preoccupazione a cui Angelos non sapeva dare risposta.
-Bruciata viva. I maestri hanno fatto grandi cose, ma purtroppo lei non riesce a muoversi, è come se immaginasse il dolore e Leandro non vuole forzare il suo cervello. Si riprenderà, non vedi quasi più nulla, una leggera macchia sulla mano è la più vistosa. Beh non ha capelli, ovvio.
Angelos non volle immaginare il corpo martoriato della ragazza precedente alle cure.
-Fortuna che non sono del fuoco. Si limitò a dire il ragazzo. Anche se alla fine del suo potere non era stato capace di fare ancora nulla. Il che lo seccava.
-Beh io devo andare i ragazzi hanno deciso di allenarsi.
La notizia lo colpì come uno schiaffo. Cercò di non farlo notare.
-Fuori orario?
Denis annuì.
-Divertitevi. Si limitò a dire glaciale. Le sue mani gli parvero troppo ferme, così iniziò a stringerle convulsamente.
Denis si morse il labbro inferiore, indeciso.
-Grazie.- Angelos lo guardò confuso- per quello che hai fatto, quel giorno.
Le mani si fermarono. Angelos rimase lì, incapace di capire se la cosa gli interessasse o meno. Scrollò le spalle imbarazzato.
-Ordinaria amministrazione. Adesso era lui in imbarazzo, quello che se ne voleva andare.
-Mi dispiace. Angelos cambiò posizione, spostando il peso sulla gamba destra, non riusciva neanche a guardarlo in volto. Aveva una lunga ruga che gli solcava la fronte.
-Per cosa?
-Beh... Dovette prendere fiato prima di spiegarsi- io non ho avuto problemi. Tu non hai detto nulla.
Angelos rise. Aveva pensato di farlo più volte, ma con quale fine? E poi se avesse parlato, si sarebbe smascherato.
-Beh io devo andare. Non ebbe la capacità di inventarsi nulla al momento, così senza troppi preamboli.
Non sopportava più i muri di quella scuola, dopo 29 giorni voleva già scappare.
E così fece. Ritornò nel suo appartamento, salutò Dore, la sua tartaruga mite, prese uno scialle, cambiò i suoi indumenti in alcuni stracci che aveva sottratto dalla camera degli schiavi ( aveva imparato ogni angolo e corridoio dell'Accademia) ed ero uscito all'aperto da alcune scale secondarie.
L'aria fresca lo rigenerò. Prese una strada, poi un'altra, superò interi vicoli di corsa, finché non vide un viso scuro tra la folla. Si fermò così velocemente da urtate un passante, una vecchia signora grande, che si lamentò con lui. Ma ormai il predatore aveva avvistato la preda.

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