Prologo
La sala conferenze dell’Accademia era gremita di persone che lo fissavano, tutti gli occhi puntati su di lui. Davide ignorò il peso della folla e delle aspettative e osservò il generale Ferretti che gli tendeva la mano con il solito sorriso affettato. Ferretti sorrideva sempre così, come se si fosse dimenticato il modo di farlo, come se ogni secondo passato con le labbra all’insù fosse uno sforzo che avrebbe preferito evitare.
Davide accettò la sua mano tesa e ricambiò deciso la stretta vigorosa.
«Congratulazioni, cadetto.» La voce impostata dell’uomo venne diffusa dagli altoparlanti disposti lungo la sala. «Da oggi lei non è più una recluta come tante in cerca di gloria, da oggi lei è un agente scelto, un viaggiatore nel tempo. Mi aspetto che faccia buon uso dell’opportunità che l’Accademia le dà, che segua le direttive e che sappia trovare il suo posto tra queste mura. Starà bene con noi.»
«Ne sono certo, signore. So che questo è il mio posto.»
Solo un tiepido applauso d’obbligo accolse quello scambio. La folla, infatti, già dal suo arrivo mormorava scetticismo e disappunto, e Davide soffocò una smorfia nel tentativo di ignorare l’ostilità nell’aria. Tenne gli occhi sul generale, senza voltarsi.
Il comandante Arca porse a Ferretti una tessera di colore argento, che recava una sua foto e dei numeri in rilievo. L’uomo la osservò soddisfatto qualche istante, per poi consegnargliela con quel sorriso finto a macchiargli il volto. «Questa è la sua patente da viaggiatore. È il lasciapassare per gli ambienti dell’Accademia riservati agli addetti ai lavori. Senza questa, non sarà autorizzato a viaggiare. Permetterà al personale dell’Accademia di identificarla se dovesse visitarla in epoche diverse rispetto alla nostra. Le servirà nel caso in cui le accada qualcosa e lei venga costretto a farsi riconoscere. Se la perderà, conterà come infrazione e verrà multato. Sono stato chiaro?»
«Chiaro, signore.» Allungò la mano e afferrò la tessera. Se la infilò nella tasca della sua divisa da cerimonia: la sentiva bruciare anche attraverso i vestiti.
La sua patente da viaggiatore.
«Infine,» esclamò Ferretti, alzando il tono di voce, «le consegno il suo bracciale di servizio. È quello che le consentirà di effettuare i salti. Ha già memorizzato le coordinate dell’Accademia in ogni tempo e il dna del suo immortale. Per qualsiasi emergenza, in qualunque epoca si troverà, potrà sempre tornare qui o correre da lui per trovare assistenza.»
«La ringrazio, signore» ripeté, mentre il generale gli allacciava il dispositivo al polso. Di colore nero, aveva uno schermo nella parte superiore che in quel momento segnava l’ora al secondo – le 10:27:46 del mattino; la data – il 06 luglio 2325; e il luogo – Napoli.
Davide ne conosceva le funzioni, era stata materia dell’esame finale dell’Accademia. Proprio come sapeva che quella era solo la sua forma più recente: a essere davvero necessario era il minuscolo congegno sferico che conteneva, che di volta in volta avrebbe dovuto inserire in bracciali o orologi adatti all’epoca del salto.
Non appena il superiore lasciò il braccio di Davide, ci fu un nuovo debole applauso.
«Complimenti, cadetto. Benvenuto nella squadra.»
Davide gli offrì un sorriso il più possibile convinto e si voltò verso la platea. Seduti in perfetto ordine sulle sedie allineate per tutta la sala c’erano le altre reclute del suo anno. I suoi compagni di corso, quelli che non ce l’avevano fatta.
Lui era stato l’unico a passare l’esame quell’anno, il primo da tre. Avevano saputo tutti al momento dell’iscrizione che le possibilità effettive di diventare viaggiatori erano piuttosto scarse, eppure i compagni non riuscivano a mascherare l’invidia.
Agata, la sua compagna di banco alle lezioni di storia medievale, era l’unica che gli rivolgeva un accenno di sorriso. Avevano avuto un breve flirt quell’anno, flirt che si era risolto in un nulla di fatto, ma Davide pensò che l’avrebbe ricordata con affetto. Lei, invece, a breve si sarebbe scordata di lui.
Davide salutò Ferretti e scese dal palco. Nessuno si sporse per fargli le congratulazioni, nessuno gli strinse la mano. Li capiva, al loro posto nemmeno lui avrebbe avuto voglia di festeggiare.
Loro stavano realizzando proprio in quella sala, in quel momento, di aver sprecato gli ultimi cinque anni della loro vita. A breve l’Accademia avrebbe azzerato loro la memoria dell’addestramento e li avrebbe portati nelle loro nuove vite, piene di ricordi lacunosi che avrebbero nascosto tutto quello che avevano vissuto insieme sino a quel momento. Davide sapeva che avrebbe rivisto alcuni di loro, di tanto in tanto: una volta inseriti nel sistema, l’Accademia permetteva di uscire dai suoi ranghi solo dopo un intervento di cancellazione e modifica della memoria totale, talmente radicale e invasivo che nessuno sceglieva quella opzione. Tutti loro, dopo l’estrazione obbligatoria dei ricordi più sensibili e riservati dell’addestramento avrebbero riempito le fila degli uffici; i più meritevoli si sarebbero guadagnati nel tempo un posto da assistente di qualche insegnante, quelli meno sarebbero rimasti tra le cucine e i turni di pulizie. Nessun talento andava sprecato, nessuno usciva dai ranghi.
Si allontanò dalla sala e lasciò i suoi ex-compagni a parlare del loro futuro: avevano il diritto di tenere quel momento solo per loro, senza la sua figura ormai estranea.
La statua di Antonio Marchesi, l’inventore del viaggio nel tempo e fondatore dell’Accademia, sembrava squadrarlo con cipiglio severo. Davide ne resse lo sguardo, osservando a sua volta quel blocco di marmo dalla forma d’uomo, le sopracciglia pronunciate, gli occhi fissi, la barbetta sotto al mento e la divisa ufficiale che, in vita sua, Marchesi non aveva mai indossato.
La superò, dirigendosi a passo spedito verso la sua nuova stanza, ma una voce lo fermò.
«Davide! Complimenti! Almeno tu…»
Il ragazzo si voltò e vide Enrico, il sarto del reparto Mediterraneo greco-romano e paleocristiano, che gli rivolgeva il primo vero sorriso di tutta la giornata.
«Ehi» rispose, rallentando il passo sino a fermarsi in mezzo al corridoio. «Grazie, davvero.»
«Figurati! Meriti tutti i complimenti di questo mondo. Dopo anni che non riusciva a diplomarsi nessuno… ma io l’ho detto subito, appena ti ho visto: “questo ha stoffa” ho pensato, chiedilo pure a chi vuoi!»
Enrico era giovane, sulla trentina, con i capelli che iniziavano a perdere terreno sulla fronte e lo sguardo gentile. Davide aveva sempre sospettato che l’avesse preso in simpatia, anche se faticava a capire perché.
«Scommetto che lo dici a tutti quelli che si diplomano…»
«Oh, è vero! Ma solo perché ho un ottimo sesto senso. Indovino sempre chi lo farà.»
Per la prima volta Davide rimase folgorato da un dubbio: anche Enrico aveva tentato l’esame e non ce l’aveva fatta? Era uno di quelli dalla memoria sforacchiata che aveva trovato una nuova occupazione nell’Accademia?
«Perché sei qui? Hai qualcosa per me?» Il disagio della premiazione e della sua intuizione fastidiosa iniziava a evaporare, per lasciare spazio alle prime ribollenti tracce di euforia e di speranza. Non tutti i sarti dell’Accademia erano gentili come Enrico, e lavorare con qualcosa di suo per il primo salto gli avrebbe fatto piacere. In più, si era sempre trovato a suo agio durante le simulazioni in epoca romana.
Fu proprio in quel momento che realizzò che era tutto vero. Quel giorno avrebbe davvero fatto un salto nel tempo.
«Temo di no» si scusò, con una smorfia desolata. «Sono venuto solo a farti le congratulazioni. Credo ti toccherà la Rivoluzione Industriale stavolta, se ho capito bene…»
Accennò una breve smorfia. L’epoca della Rivoluzione Industriale non era un granché, in effetti, e sul periodo precedente all’Anno Mille lui si sentiva più ferrato e a suo agio.
Catapultarsi nel Milleottocento come primo salto era l’ultima cosa che si sarebbe augurato. La sua espressione doveva essere eloquente, perché Enrico trattenne una risata a stento e gli diede una sonora pacca sulla spalla.
«C’è di peggio! Ho sentito di un cadetto che alla prima missione è finito a Chernobyl, l’anno del disastro. Puoi sopravvivere a un giorno nel XIX secolo! Vedrai che te la caverai. E Greta è una collega molto disponibile…»
Davide lottò contro sé stesso per mantenere un’espressione cordiale. La sarta degli abiti ottocenteschi era abbastanza celebre in Accademia per essere scontrosa e non troppo precisa. Lanciò a Enrico un’occhiata scettica, che l’uomo accolse con un sorrisino comprensivo. «Andrai benissimo, in qualunque epoca. Per viaggiare più indietro c’è sempre tempo!»
Il ragazzo trattenne un sospiro e annuì. Stava facendo la figura dell’ingrato, lo sapeva, ma la notizia della Rivoluzione Industriale gli aveva smorzato tutto l’entusiasmo. «Hai ragione. Ho tutto il tempo del mondo. Iniziamo con questa missione, poi si vedrà.»
Enrico gli diede un’altra pacca sulla spalla, più forte della prima. «Così ti voglio! Ora non ti rubo altro tempo, vorrai andare in camera tua a sistemare le ultime cose. In bocca al lupo per il primo salto e ancora congratulazioni.»
«Crepi. E grazie» rispose Davide, salutandolo con un cenno mentre si allontanava.
Sino alla sera prima aveva alloggiato nel dormitorio maschile, in una camerata con altri tre ragazzi. Per lui, che era sempre stato un tipo schivo, era stato difficile abituarsi a condividere gli spazi. Ma non importava più, perché non ne avrebbe più avuto bisogno.
I corridoi dell’Accademia Crono erano bianchi asettici, il pavimento celeste chiaro. Le sue scarpe sfregarono sulla gomma azzurrina con un lieve squittio e il nastro di fredde luci fece scintillare quel candore accecante.
Giunse a un punto della parete dove una targhetta recitava Davide Terenzi. Sarebbe bastato anche solo l’orologio per aprirla ma, come fosse un rituale di passaggio, estrasse la patente dalla tasca e la mostrò al lettore lì accanto. La parete si mosse, aprendo un pannello metallico che rivelò la sua stanza. Solo lui avrebbe avuto l’accesso ai suoi alloggi.
«Però!» fischiò, impressionato, sentendo la porta richiudersi alle sue spalle con un breve fruscio.
La camera era ampia, persino più grande di quella in cui erano stati costretti a dormire in quattro. La finestra dava sullo skyline di Napoli, una delle poche città a non essere stata del tutto trasfigurata dalla tecnologia, e che mostrava un miscuglio caotico di architettura vintage e grattacieli da capogiro che si innalzavano tra palazzi storici.
Tornò a esaminare il suo spazio: a lato della porta era stata piazzata una scrivania, su cui era posato il sottile dispositivo che Davide aveva intravisto solo in mano ai graduati e che era parte della dotazione standard dei viaggiatori. Davanti, una poltroncina a cuscinetti ad aria levitava a qualche centimetro da terra. Al muro erano affisse mensole bianche, ancora vuote, e due porte si aprivano sulla cabina armadio e sul bagno spazioso.
Infine, al centro, rialzato da un piccolo gradino, c’era un futon a due piazze e davanti, sotto la pedana, qualche inserviente aveva sistemato la valigia con i suoi pochi effetti portati dal dormitorio.
Davide non le diede importanza, perché sul letto, in prepotente contrasto col resto della stanza, c’erano gli abiti che avrebbe dovuto indossare durante il salto. Il completo vittoriano sui toni del grigio, compreso di bastone da passeggio, gli fece un certo effetto e contribuì a rendere tutto più reale.
Osservò i vestiti da vicino, sfiorandoli con le dita. Sembravano di buona fattura, forse Enrico aveva ragione su Greta, dopotutto.
Si sedette sul materasso. Riprese la patente e la studiò con attenzione, cosa che non aveva potuto fare durante la nomina. Prima aveva notato solo la foto e il codice agente, scoprì lo stato – cadetto – e, sul retro, un chip che conteneva le impronte digitali, quella retinica, il gruppo sanguigno e tutto quello che c’era da sapere sulle sue condizioni di salute. C’erano stampati inoltre i pilastri dell’Accademia, come promemoria costante.
Le leggi da conoscere per affrontare i viaggi nel tempo erano innumerevoli e Davide aveva dovuto impararle a memoria. Ce n’erano cinque però di estrema importanza che, se fossero state infrante, avrebbero squarciato il flusso del tempo, distruggendone la continuità e mettendo a rischio il futuro del mondo.
1. I viaggiatori non possono avere contatti personali approfonditi al di fuori dalla loro linea temporale contemporanea.
2. I viaggiatori non possono modificare alcun evento, grande o piccolo, al di fuori dalla missione per cui sono stati inviati.
3. I viaggiatori non possono rivelare eventi futuri rispetto alla linea temporale in cui si trovano.
4. I viaggiatori non possono parlare del programma e delle missioni con nessuno al di fuori del programma stesso.
5. I viaggiatori sono affiancati da un immortale fidato, con cui devono intrattenere un rapporto strettamente professionale.
Davide li rilesse con attenzione, pur conoscendoli a memoria. Erano i più importanti dei suoi obblighi, l’ispirazione secondo cui avrebbe dovuto agire da quel momento in poi. Aveva giurato che non ne avrebbe infranto neanche uno, e intendeva tenere fede a quella promessa.
Ricacciò la patente in tasca e si alzò per attraversare la stanza e ispezionare il dispositivo sulla scrivania. Lo schermo si accese al passaggio del suo dito e si attivò con l’impronta retinica. Molto intuitivo da usare, in breve trovò le informazioni sulla missione, il momento e il luogo in cui avrebbe dovuto saltare e l’identità dell’obiettivo.
Londra, 16 novembre 1875
Robert Dudley Baxter
Nessun accenno al motivo che rendeva necessaria la sua eliminazione. Non che Davide si aspettasse grandi dettagli: gli anni d’addestramento servivano proprio a questo, a insegnare come saltare nel tempo e come abbattere gli individui la cui esistenza avrebbe provocato la fine del mondo come lo conosceva.
L’invenzione del viaggio nel tempo aveva aperto le porte a molte scoperte, ma la più sconvolgente di tutte era una: nell’anno 2500 la specie umana si sarebbe estinta, sparendo dalla faccia della terra. L’Accademia Crono era nata con il preciso obiettivo di evitare la catastrofe.
Ai vertici dell’Accademia storici, fisici e ogni genere di studiosi analizzavano il flusso temporale e individuavano i problemi e gli snodi che avrebbero portato alla cancellazione della specie, e i viaggiatori avevano il compito di eliminare le persone che sarebbero state parte in causa del disastro. Davide non conosceva altri dettagli, forse non li avrebbe mai conosciuti. Era un cadetto: si sarebbe limitato a eseguire gli ordini e avrebbe lasciato la comprensione del grande disegno a chi era più esperto e intelligente di lui.
Sapeva di dover uccidere Robert Dudley Baxter prima che una concatenazione di eventi da lui provocata portasse alla fine del mondo e tanto gli bastava.
Scaricò le informazioni nel suo bracciale, per non dimenticare nulla durante il salto. Si cambiò in fretta, perché gli avevano comunicato che doveva recarsi nello studio del generale il prima possibile. Con trepidazione sfilò la micro-sfera dal moderno orologio che solo pochi minuti prima Ferretti gli aveva consegnato e la inserì nell’antiquato orologio del tempo. Sospirò e picchiettò l’indice sul vetro: uno schermo olografico si generò dalla cassa metallica. Davide controllò che tutti file fossero visibili e, inquieto, si ripeté che la tecnologia era la stessa di pochi minuti prima, solo vestita in un altro modo. Un altro colpetto sul quadrante e lo schermo olografico si spense.
Era pronto, ma non ebbe né il tempo né il coraggio di guardarsi allo specchio, abbigliato in quel modo improbabile.
Uscì dalla stanza dopo aver ficcato in bocca due caramelle alla liquirizia che non avrebbe potuto portare con sé, e si aggiustò gli scomodi indumenti e la cravatta mentre camminava. Le simulazioni si potevano ripetere, in caso di fallimento, ma quel giorno si sarebbe dovuto impegnare sul serio. Un qualsiasi errore avrebbe potuto avere conseguenze disastrose.
Poi, per la prima volta, pensò al suo immortale.
Davide non ne aveva mai visti, ma quando provava a immaginarli si figurava donne statuarie con la lancia e l’elmo, simili alle raffigurazioni della dea Atena, o uomini anziani con la barba bianca e il cappello a punta.
Quel giorno avrebbe conosciuto il suo primo immortale. Quel giorno avrebbe conosciuto il suo immortale. Partner, compagno, alleato. A pensarci, sembrava impossibile.
Prima ancora che bussasse, la parete dello studio di Ferretti si aprì. Bianco accecante, vetri oscurati, luci riflesse e ingigantite dal candore delle pareti: tutta quella zona dell’Accademia doveva essere così. Il generale non era ancora arrivato, ma su una sedia in pelle nera davanti alla scrivania c’era un ragazzo adolescente. Aveva un aspetto singolare: i capelli color rosa zucchero filato curati e portati all’indietro, una maglia viola un po’ troppo grande con un logo che Davide non aveva mai visto e dei pantaloni blu elettrico. Osservava con interesse l’ologramma di un mappamondo sulla scrivania, e solo quando Davide si schiarì la voce il ragazzo si voltò. Aveva degli occhi scuri intensi, che parvero accendersi d’emozione appena lo inquadrarono. Aveva i lineamenti affilati e la pelle olivastra, le sopracciglia scure e le ciglia lunghe davano profondità al suo sguardo.
Si accorse solo da questo gesto che c’era qualcosa di strano in lui, come quando si guardano due immagini quasi identiche ma, d’istinto, si percepisce che qualche dettaglio le differenzia l’una dall'altra anche senza riuscire a capire perché.
«Scusami, ho un appuntamento» gli disse, perché non aveva nessuna intenzione di aspettare la fine del colloquio di quello strano tipo.
Il ragazzo non diede segno di averlo sentito. «Davide» lo chiamò, quasi senza fiato. «Mi sei mancato così tanto.»
Lui si accigliò, perplesso. Se avesse già incontrato quel singolare ragazzo, di certo se lo sarebbe ricordato. «Ci conosciamo?»
L’altro sorrise a quella domanda, un sorriso che non aveva l’ombra di allegria. «Presumo di no… per te. Siediti, Ferretti sarà qui a momenti e non ho aspettato tutti questi anni per un ci conosciamo?»
«Scusami… mi dispiace, ma devo chiederti la cortesia di passarti avanti. È il mio primo giorno e…»
«Vieni, forza. Siediti, ho detto. Non voglio rubarti il colloquio, stai tranquillo. Quando arriverà, Ferretti conferirà con te. Promesso.»
Davide obbedì e si accomodò nella poltroncina accanto allo sconosciuto. Sentì lo schienale prendere la forma della sua spina dorsale e si rilassò. «È il primo giorno anche per te?»
«Oh, no. Io lavoro per l’Accademia da un sacco di tempo. Sono qui per rivedere un amico.»
«Da un sacco di tempo?» L’Accademia accettava reclute dai vent’anni compiuti e il suo interlocutore ne dimostrava a malapena diciotto.
«Esatto. Vedi, io…»
«Terenzi!» la voce stentorea di Ferretti li fece sobbalzare entrambi. «Benissimo, sei già qui. Vedo che hai conosciuto Cassio.» L’uomo attraversò la stanza a passi pesanti e si lasciò cadere sulla poltrona oltre la scrivania, esausto. Sorrideva in modo più genuino rispetto a mezz’ora prima, e non sembrava più che odiasse quel che stava facendo. «L’ho fatto chiamare perché potessi avere un’idea del volto che ti aspetterà alla fine del salto.»
Una parte del suo cervello registrò il passaggio dal lei al meno formale tu del suo superiore, ma era concentrato a capire cosa stesse succedendo.
«Andremo in missione insieme?»
Ferretti lo guardò come avesse detto qualcosa di molto bizzarro. «Non te l’ha detto? Cassio è il tuo immortale. Sarà lui ad accompagnarti nella prossima missione e in quelle che seguiranno.»
Davide si voltò a guardarlo con più attenzione. Quel ragazzetto con i capelli rosa non poteva essere il suo immortale. Era impossibile, non lo sembrava affatto, sembrava solo…
Eppure, non sembrava neanche tanto ragazzino. Aveva un’aria grave, malinconica, che gli appesantiva lo sguardo e lo rendeva vecchio come il mondo.
«Piacere di conoscerti… di nuovo» disse l’immortale, tendendogli la mano.
Davide la strinse, titubante, provando a figurarsi lo stesso volto in mille epoche diverse, ma senza riuscirci. «Piacere di conoscerti… per la prima volta, suppongo.»
«Meraviglioso!» esclamò Ferretti, battendo le mani sulla scrivania. «Il suo dna è già nel bracciale. Davide, hai letto tutte le informazioni del caso?»
«Sì, signore. Le ho scaricate nel caso dimenticassi qualcosa.»
«Puoi partire allora, il tuo compagno ti sta aspettando. Ti auguro di avere successo.»
Tutto nel suo corpo si tese, doloroso. «Da qui? Adesso?»
«Certo. Mi auguro che tu sappia come si fa. Hai passato l’esame, dopotutto.»
Davide lo sapeva, doveva solo confermare la data al congegno sferico nell’orologio e quello l’avrebbe fatto saltare nel punto deserto più vicino al dna del suo immortale, ma non l’aveva mai fatto prima. E se avesse sbagliato decade? Se fosse andato in avanti anziché all’indietro? Se non avesse trovato nessuno ad aspettarlo?
Al diavolo quelle ansie inutili! Era stato l’unico a diplomarsi in tre anni, l’unico in cui il generale avesse riposto fiducia. Lui era meglio di così.
«Andrà tutto bene.» La voce di Cassio, morbida ma con una nota amara, lo sorprese. «L’hai già fatto, io ti ho visto farlo un milione di volte.»
«Meglio che ti alzi, o quando arriverai farai un bel capitombolo» suggerì il generale.
Davide obbedì. Si alzò, impostò il traduttore automatico sul display olografico generato dal finto orologio, poi inserì la data. Esitò per un attimo prima di confermare e alzò lo sguardo. Cassio lo stava ancora osservando.
«Cielo» sospirò e mosse il braccio come se volesse toccarlo, per ritirarlo subito dopo. «Spero di averti portato un cambio, quel soprabito è davvero atroce.»
Non ebbe modo di sentire il commento di Ferretti, perché tutto scomparve.
Note autrice
E così Davide si è diplomato ed è ufficialmente un viaggiatore nel tempo.
Come prima missione gli è capitato il 1875, c'è di peggio ma diciamo che c'è anche molto di meglio.
Ha conosciuto Cassio, immortale che, avendo compiuto già diverse missioni con lui nel corso dei secoli, lo conosce già.
Come vi sembrano i nostri protagonisti?
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