Pt 6 (Tempesta Onirica)
"Chi sei?"
Nella stanza tutto appariva così scuro, non sapeva nemmeno se fosse o meno una stanza, la piccola creatura. Dal cuore sentiva molte palpitazioni, come se un cavallo stesse correndo a tutta velocità, era come se quel piccolo organo da cui dicevano sgorgassero le emozioni se la stesse facendo sotto. Non lo aveva mai provato. Le mani tremavano e vedevano dei piccoli tubicini verdi che sporgevano, il pallore viveva sul volto. Aveva paura. Sentiva la presenza di un essere, che le accarezzava quei tubicini. Si sentiva meglio, ma non voleva parlare. Nel silenzio si sentiva l'affanno. Era assordante. Quel respiro rimbombava prepotente, forte, rumoroso.
D'un tratto una voce:"Ti aspettavo per abbracciarti".
Sulla sedia emozionata non sapeva cosa dire, cosa cercare e chi volesse trovare. Era partita con mille pensieri e frasi e si era ritrovata lì, sola ad ascoltare suoni che non conosceva, parole estranea, versi lontani.
Dunque disse:"Io non conosco la tua voce".
"Nemmeno io ho mai conosciuto la tua" rispose.
"Ho aspettato tutta la vita questo momento e ora mi viene solo da ridere". Era vero. Ogni giorno sognava ad occhi aperti e si chiedeva se un giorno l'avrebbe riconosciuta anche con i capelli bianchi e le rughe sulla fronte. Aveva un grande impulso di ridere, non riusciva più a trattenersi.
La voce quindi:"Non so cosa significhi vita e non so quale sia stata la tua".
Sulla sedia rispose:"Certo, lo so, mamma. Non pretendo che tu sappia cosa significhi".
Attese un momento e aggiunse:"Ti ho pensata spesso. Eri davvero tu?"
"Sì ero io. O forse no. Ora non ricordo".
"Eri tu quella che mi abbracciava la sera, che carezzava le mie orecchie?"
"No, non ero io".
"Sono pazza allora, mamma?".
"No, tesoro mio. No che non lo sei".
"Ho creduto di essere abbracciata e cullata da un'estranea che chiamavo mamma".
"Tu sei qui, dentro di me. Ciò che vedi è la placenta, ecco perché senti la mia voce in lontananza".
Non aveva risposto. Sapeva d'altronde che non avrebbe mai potuto farlo. Aveva viaggiato senza meta per anni cercando indizi, cercando un punto di arrivo e proprio quando avrebbe potuto toccarlo, respirarlo, accettarlo e interiorizzarlo aveva capito che non poteva esistere. Lo aveva semplicemente avvertito, capito, assimilato.
In quel buio sulla sedia si ricordava di aver avuto sembianze di vecchia, così le sembrava. Per questo non si ricordava di avere delle vene, di provare paura. Ciò che aveva sempre voluto era abbracciare sua madre, colta in modo prematuro come un narciso bellissimo.
"Quando potrò essere la tua bambina fuori da questo abitacolo sicuro?".
"Sempre, amore mio. Ci sono sempre, anche se non mi vedi. E ci riabbracceremo, e sentirò la tua voce in modo chiaro e limpido, e guarderò i tuoi occhi verdi".
Così presto la stanza svanì e l'adolescente tornò con la penna in mano sul quadernino della sua scrivania. Vestita con dei pantaloncini e una maglia ormai vecchia scriveva. Non poteva che nascere un'espressione di soddisfazione sul viso, un accenno di sorriso.
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