Capitolo 4 - La Nemesi - Parte 2

Lo scienziato rimase a fissare il vuoto davanti a sé ancora per qualche istante prima di riscuotersi. Aveva gestito la crisi nel modo migliore, ma non poteva dire di essere soddisfatto.

No, non lo era affatto! La conversazione con la Dottoressa Grey aveva contribuito a minare il suo equilibrio già precario. Aveva bisogno di assicurarsi che la donna non avrebbe fatto colpi di testa, doveva tenerla sotto controllo e per questo Ian Moore era l'uomo che faceva al caso suo. Digitò l'interno della sua segretaria personale sul pannello del comunicatore.

«Anja, ho bisogno del dottor Moore. Lo cerchi e lo mandi immediatamente nel mio ufficio.»

Dall'altra parte, le sue parole furono accolte da un silenzio alieno.

«Ian Moore, ha capito? Anja?»

Che stava succedendo, la donna non si separava mai dal suo auricolare, nemmeno quando andava in bagno. Era stato chiaro, ogni sua chiamata doveva essere risposta e gestita immediatamente. Doveva dirgliene quattro, chiarire quale era il suo ruolo. Laszlo si incamminò a passo svelto verso l'ingresso e lasciò che i sensori della porta scorrevole rivelassero la sua presenza aprendo gli enormi correnti di acciaio. Gli bastò uno sguardo per accorgersi che la postazione di Anja era vuota. Anche il corridoio era stranamente deserto. A quell'ora tutto il personale medico e di servizio doveva essere nel momento di massima attività.

Dove sono tutti? Non ebbe tempo di pronunciare quelle parole ad alta voce che il suono dell'allarme antincendio squarciò il silenzio. Laszlo si portò le mani alle orecchie, cercando di proteggerle da quel rumore infernale.

«Cosa diavolo sta succedendo?» ringhiò, percorrendo rapidamente il corridoio sul quale si aprivano le porte degli ambulatori, dell'archivio, della radiologia. Decine di porte erano aperte o socchiuse, ma non c'era nessuno all'interno. Gli occupanti del piano dovevano essere stati avvertiti telefonicamente ed invitati ad andarsene e ovviamente nessuno si era sentito in dovere di chiamarlo. Imprecò tra sé continuando la sua marcia silenziosa fino alle scale che gli avrebbero permesso di mettersi in salvo.

Poi pensò ai suoi archivi cartacei.

Doveva tornare indietro.

In quell'istante li vide. Un manipolo di uomini armati, dal volto coperto che venivano a passo spedito nella sua direzione.

«Cazzo!»

Laszlo non aveva mai conosciuto la vera paura ma il gruppo di militari che accelerava verso di lui, per impedirgli la fuga, lo gettò nel panico più completo. Si voltò, consapevole di non avere scampo, era in inferiorità numerica, sotto i fumi dell'alcol e disarmato. Eppure li poteva ancora battere sul tempo.

Prese a correre verso la parte opposta da cui proveniva la minaccia, ma non aveva ancora percorso dieci metri che un altro gruppo di uomini fece la sua apparizione sbarrandogli la strada.

Lo scienziato si bloccò immediatamente dov'era mentre il suo cervello cercava di elaborare una soluzione alternativa. Ma non ne vedeva. Non era uno dei suoi cyborg potenziati, capace di valutare contemporaneamente decine di scenari e di individuare la decisione con più probabilità di successo in una manciata di secondi. Lui era umano.

Quale poteva essere la scappatoia? Chiudersi nelle sue stanze e aspettare i soccorsi? Cercare di arrivare all'ascensore?Scappare sul tetto? Doveva guadagnare tempo, in attesa dei soccorsi.

«Cosa volete da me? gridò», guardando prima a destra e poi a sinistra, nel vano tentativo di tenere a bada i suoi assalitori che ora avanzavano lentamente, con circospezione. Stavano giocando con lui. Non avevano bisogno di affrettarsi, sapevano che non aveva via di scampo.

«Chi diavolo siete?» La sua voce risuonò stridula, infrangendosi contro i muri asettici del corridoio. Non ottenne risposta.

Lo scampanellio dell'ascensore che arrivava al piano lo fece sussultare di nuovo. «Aiuto!» provò a gridare, per poi accorgersi che le porte si erano aperte su un altro drappello di mercenari.

Quest'ultimo manipolo era guidato da un uomo, più esile e minuto dei suoi compagni, anche se ne condivideva l'abbigliamento mimetico scuro.

Deve essere il capo, si disse. Uno che si può permettere di essere più debole, perché c'è qualcun altro che si fa ammazzare per lui.

Non si sbagliava. Con un gesto della mano il nuovo arrivato impartì un ordine silenzioso e attese che tutti i suoi uomini si schierassero in una fila ordinata dietro di lui. Immobile, in una postura marziale, i suoi occhi avevano continuato a fissarlo per tutto il tempo come fossero due spilli e lui una farfalla, pronta per essere bloccata contro un panno di velluto rosso.

«E così ci incontriamo, finalmente.» Il suo tono non lasciava trasparire alcun entusiasmo, nonostante l'impresa che aveva appena compiuto: occupare il Darwin e mettere sotto scacco il Ministero della Difesa.

«Questo incontro era scritto nel nostro destino e sarebbe stato impossibile per te sottrarti, Dottor Kyle Laszlo» proseguì, senza smettere di fissarlo.

«Lei conosce già il mio nome, non crede sia arrivato il momento di presentarci?» gli chiese, vomitandogli addosso tutto il suo sarcasmo, cosa di cui si pentì immediatamente. Non poteva vederlo in volto, non aveva alcuna speranza di intuire le sue intenzioni e questo lo metteva in una posizione di netto svantaggio. Almeno fintanto che l'uomo non afferrò il proprio passamontagna sfilandolo e gettandolo a terra.

«Lei è uno scienziato famoso, anche se non ama le luci dei riflettori, Laszlo. Io invece vivo costantemente nell'ombra, nessuno può dire di avermi mai realmente incontrato, ma anche il mio nome non le dovrebbe suonare nuovo ... » fece una pausa ad effetto, come se la tensione a cui lo avevano sottoposto non fosse sufficiente!

«Io sono Cicero» disse infine.

Cicero. Nemesi. Gli anarchici.

Il sapore del fiele riempì la bocca di Laszlo. Era la fine. Quella fine che aveva tanto temuto era arrivata.

Il terrorista fece un passo verso di lui, lasciando che la luce del corridoio illuminasse il suo volto. Voleva essere visto. «Guardami!» lo esortò. Si chiese quale valenza simbolica ci fosse dietro quella richiesta.

Il suo volto sfregiato, privo di ogni grazia, era contratto in una maschera di odio e lo fissava da una distanza troppo corta per i suoi gusti. Laszlo era sempre stato refrattario ad ogni contatto con il prossimo. L'uomo lo afferrò per la nuca e lo tirò ancora più vicino a sé.

«Non mi dire che non mi riconosci» ridacchiò, sorprendendolo, «in fondo sono passati solo dieci anni!»

Kyle cercò di liberarsi da quella morsa e di sfuggire al suo alito. Di cosa diavolo stava parlando quel pazzo? «Ci conosciamo?» chiese, più per dovere che per curiosità.

«Così mi spezzi il cuore!» continuò, prendendosi gioco di lui. Quanto ancora avrebbe proseguito con quella patetica messinscena? Lo scienziato alzò gli occhi al cielo prima di tornare a guardarlo senza nascondere la sua esasperazione.

Solo in quel momento lo vide.

Quello sguardo bruciante, carico di rancore. Lo aveva già visto, in una notte di alcuni anni prima, in un appartamento alla periferia di New York. Lo conosceva.

«Wi ... Wi ... Willie?» balbettò, incredulo. Ed il pronunciare quel nome lo riportò indietro nel tempo, al centro di un vero e proprio incubo.

«Bingo! Sai, dubitavo che ci saresti riuscito!» Cicero lo lasciò andare con una spinta scaraventandolo contro il muro.

«Bene. Adesso che ci siamo presentati, apri il tuo laboratorio e facci entrare» disse, tornando serio.  

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