[ˢᶤᵈᵉ ˢᵗᵒʳʸ] 4. Se mi ami, non ho più paura (fine)


La luce del fuoco faceva scintillare la neve come se fosse fatta di minuscoli cristalli, come se per terra ci fossero tante piccole stelle incastonate fra di loro fino a creare un tappeto bianco e brillante. Come se un pasticcere si fosse divertito a stendere della glassa in mezzo al bosco. 

Non avevo mai visto prima la neve, ma aveva la consistenza morbida della sabbia nel deserto, solo che fra le dita si scioglieva e, se compressa, poteva assumere delle forme solide invece di disintegrarsi e venir spazzata via dal vento. La neve... La adoravo. Sembrava parte di una magia nuova, eccitante e viva, esattamente come l'amore. Mi faceva credere che tutto fosse possibile. 

Perché se la terra scura e gli altissimi alberi della foresta potevano ricoprirsi di bianco, se il calore bollente del Regno di Smeraldo poteva raffreddarsi fino a quel punto, allora anche un Alpha potente come il Lupo Bianco poteva pensare a me. Guardarmi in modo diverso da un semplice schiavo che aveva salvato e che voleva rifarsi una vita a nord. Guardarmi come se  non fossi solo un Omega, un corpo utile per il piacere e la riproduzione.

Non ero più quello che Samarcanda mi imponeva di essere.

E più l'orizzonte si tinteggiava di bianco, più la mia speranza cresceva, accompagnata dalla consapevolezza di non poter subire niente di peggio rispetto a ciò che avevo passato al Formicaio. Non avevo niente da perdere: mi potevo permettere di sognare. I sogni non potevano essere persi o rubati da nessuno.

Mi raggomitolai fra le coperte, vedendo il mio fiato condensarsi in una nuvoletta bianca. Faceva così freddo che perfino il mio respiro assumeva una consistenza! 

Per fortuna, c'era un braciere acceso dentro alla tenda personale di Jörvar, dove mi aveva invitato a dormire. Non per qualche strana ragione: solo perché era la più calda in tutto l'accampamento, e il mio corpo non era abituato ad un clima così rigido. Nonostante il flebile calore che quella fiamma spargeva all'interno, continuavo a tremare forte.

I cunicoli sotterranei di Samarcanda erano afosi come una fucina, umidi, appiccicosi e asfissianti, ogni giorno di ogni anno. Qui, invece, l'aria era secca e il freddo pungente: ogni respiro puntellava i polmoni come una lama smussata. Stranamente, lo trovavo piacevole. Ad ogni fiato mi sentivo ripulito dall'interno, da ogni piccola sporcizia e da ogni granello di sabbia. 

Steso sotto alla coperta, con gli occhi rivolti verso il tetto della tenda, potevo vedere attraverso le stoffe impermeabili lo strato più scuro che creava la neve quando si depositava, pesante. Mi avvolsi meglio fra gli strati di lana, stringendo i denti per non batterli e non fare rumore, nonostante mi muovessi talmente tanto - a causa dei tremori - che il frusciare della stoffa attirava ugualmente l'attenzione.

Una mano calda e grande mi sfiorò la nuca, accarezzandomi in un cenno gentile la chioma mogana. Per poco non sobbalzai saltando fuori dalla sacca a pelo: scattai di lato, voltandomi a guardare. Ovviamente, l'unica persona che poteva averlo fatto era il proprietario della tenda, ma per un attimo avevo spento il cervello.

A volte mi addormentavo in posti casuali del Formicaio, in nicchie nascoste o alcove fra le rocce che credevo sicure, finché qualcuno non mi afferrava, mentre ancora era nel sonno. Ci misi un attimo davvero breve a tranquillizzarmi: era Jörvar, che aveva alzato le mani mostrando i palmi, come a farmi vedere che non aveva nessuna cattiva intenzione, e mi guardava con i suoi chiarissimi occhi di ghiaccio. 

«Non intendevo spaventarti.» esordì, la voce ridotta ad un sussurro bassissimo, mentre il resto delle tende intorno a noi era avvolta in una cappa di sonno. Forse eravamo gli unici svegli. «Ti ho svegliato?»

Scossi la testa, sentendo la mia faccia avvampare. Si era tolto la maggior parte degli indumenti che indossava durante il viaggio e portava sopra i pantaloni una casacca bianca e larga, quasi del tutto slacciata sul petto. Era un po' scompigliato, le gambe parzialmente nascoste da coperte di lana, e nonostante ciò manteneva comunque un'aura regale e austera.

«Tremavi molto forte. Prendi le mie coperte.» Fece per porgermele, ma io sgranai gli occhi e rifiutai scuotendo nuovamente il capo. «Io sono abituato a questo clima e mi sono già riposato abbastanza.»

Inasprii la mia espressione. Voleva strafare? Sapevo di essere più debole di lui e di tutti gli altri nella spedizione, ma non significava che gli avrei permesso di non prendersi cura di sé. «No! Va bene così! Tu dovresti continuare a dormire, invece! Non volevo svegliarti...» risposi, abbassando le orecchie pelose, dispiaciuto. Batté le palpebre, osservandomi senza dire una parola sotto alla luce fioca del braciere. 

Mi chiesi cosa stesse notando in particolare. Se le mie gote arrossate dal freddo, le mie orecchie basse o il collo sottile che sporgeva da una ruvida sciarpa di lana. Deglutii e il suono si sparse in tutta la tenda, facendomi arrossire. C'era questa specie di tensione che ci avvolgeva, come un incantesimo che attendeva di essere lanciato... Non mi ero nemmeno reso conto che stavo trasudando i miei feromoni, così forte che forse qualcuno, nelle tende là fuori, si sarebbe svegliato per colpa mia.

All'improvviso, mi afferrò per il polso e mi attirò vicino a sé, sopra la sua branda, le gambe intrecciate alle sue e i piedi incastrati nelle coperte pesanti. Ne afferrò i lembi e ce le tirò addosso, per coprirci entrambi, non sapevo se per ripararmi dal freddo o se per isolare il mio odore. Con un braccio mi avviluppò la vita e il mio corpo venne attraversato da un brivido d'emozione.

«Hai paura?» soffiò, fraintendendo quel brivido. Scossi forte la testa e, a quel punto, mi premette tutto il corpo contro di lui, cosa che mi fece rendere conto quanto fossi minuto in confronto a lui. Intrecciò meglio le gambe alle mie e mi avvolse completamente fra le sue braccia, posando una mano artigliata sulla zona bassa della schiena, lì dove l'orlo della mia casacca si sollevava, sopra il bordo dei pantaloni. In effetti, avevo freddo in quel punto. 

«Appoggia il viso contro il mio petto. Sono caldo. Non avrai più freddo così.»  mi esortò, posando la mano sul mio capo, le dita ad accarezzarmi le orecchie. Ero tutto un fremito, mentre adagiavo la guancia contro la sua pelle, attraverso la fenditura slacciata della sua casacca. Il suo petto era duro e muscoloso, ma trasmetteva un tepore perfetto e... Mi sorpresi di sentire la velocità a cui andava il suo cuore.

Come se avessi scoperto un segreto magico, cercai di alzare gli occhi per guardare la sua espressione, ma eravamo troppo vicini e troppo incastrati perché ci riuscissi. Così, a mia volta, spinsi un braccio intorno alla sua schiena, premendo il mio petto contro il suo torace, e socchiusi gli occhi. 

Ero convinto che non mi sarei mai addormentato così, troppo emozionato e in fibrillazione per farlo. Invece mi ci vollero solo dieci minuti per cadere addormentato. 




Giorni dopo, eravamo finalmente nella capitale del Regno del Nord. Fra alte montagne innevate e palazzi dall'aspetto solido di pietra grigia, avevo l'impressione di aver raggiunto una specie di civiltà fortificata. Era un bel posto: pieno di sempreverdi spolverati di bianco, con i tetti dalle tegole colorate e grandi stendardi appesi alle finestre. 

All'arrivo, accolsero il Lupo Bianco con grandi feste e onoreficenze. Appresi che non era semplicemente il figlio di un generale: era il figlio del Signore della Guerra, un uomo illustre che aveva salvato il Regno del Nord diversi anni prima da pericolose tribù nemiche. E, adesso, Jörvar stesso era diventato il generale degli eserciti. Il suo ruolo di spicco gli aveva fatto guadagnare talmente tanto prestigio che aveva un titolo nobiliare e una posizione importante nel palazzo reale. 

Il castello era un sontuoso complesso di torri merlate pieno di stendardi e di cortigiani avvolti nelle pellicce. La sera del nostro arrivo, la delegazione si sparse per le alee del palazzo portando doni e merci ai vari componenti della casata reale, e poi ci fu un enorme banchetto, con grandi arrosti e così tanta birra che ci si poteva nuotare. 

Non avevo mai visto così tanto cibo in vita mia. La gente rideva, gli uomini con ampie barbe e le donne con lunghe trecce, e nonostante vivessero in un posto così freddo, sembravano tutti pieni di calore. Io, però, mi sentivo comunque una specie di estraneo: senza Jörvar avevo l'impressione di non c'entrare nulla lì, e lui era andato a parlare col padre, il temibile Signore della Guerra, non concedendosi nemmeno la festa di bentornato.

Spiluccai una zuppa di patate bollite ed evitai imbarazzato che mi offrissero della birra - a cui sapevo che il mio corpo non avrebbe reagito bene - poi fuggii come un ladro dalla sala banchetti, sperando di sapermi orientare fra quei lunghi corridoi di pietra, con arazzi ricamati e fiaccole spente, alla ricerca dell'Alpha che mi aveva stretto ogni notte, da quel giorno nella sua tenda. 

Mi aveva promesso che sarebbe arrivato a fine festa, ma io non riuscivo ad aspettare, col cuore che mi martellava il petto per il timore che non sarebbe tornato, che forse qualche altro membro della corte avrebbe monopolizzato le sue attenzioni per il resto della notte.

Non mi ero nemmeno domandato se il Lupo Bianco avesse qualcuno ad aspettarlo, qui a casa sua. Il comportamento dei membri della spedizione non lo faceva pensare, ma se Jörvar avesse tenuto privati i suoi legami e le sue relazioni? 

Le mie angosciose riflessioni si zittirono quando un fascio di luce penetrò nel corridoio. Il timbro di voce, forte ed impetuoso, dell'Alpha dai capelli color platino, era inconfondibile.  

«E chi avrebbe pensato a proteggere i sudditi, allora?!» esclamò, mentre io mi avvicinavo alla porta, sbirciando da dietro allo stipite come uno spione. Una zaffata di feromoni Alpha - fortissimi, da far girare la testa - quasi mi piegò sulle ginocchia. Jörvar non era l'unico lì dentro, ovviamente. 

Il Signore della Guerra sedeva su una grande poltrona di fronte al camino, i lunghi capelli biondi chiusi in un ciuffo alto e le guance punteggiate da una corta barba chiara. Gli occhi azzurri sembravano rossi per via delle fiamme che ci si immergevano dentro, ed era quasi completamente la fotocopia del figlio, se non fosse stato per le rughe agli angoli degli occhi, nella piega delle labbra e a rigargli appena la fronte. 

Difficile dire che età avesse, gli avrei dato poco più di quarant'anni, cosa che però giudicavo improbabile viste le sue imprese e l'età di Jörvar. Tutto merito della sua natura Alpha: loro invecchiavano molto più lentamente.

Comunque, quell'aroma forte e deciso, virile, era un misto degli ormoni di entrambi, che emanavano per rabbia, ferocia, determinazione, come due lupi che si ringhiavano contro per la contesa di un territorio. Mi appiattii dietro la porta, temendo di finire sbranato in quel confronto.

«Quello sarebbe stato il mio compito, appena avresti preso possesso del trono di Samarcanda! Avevi solo un compito da portare a termine! Che cosa ci sarà mai di difficile nel far innamorare un Omega?!» sibilò il padre, alzandosi dalla poltrona per l'intensità di quanto detto. 

«Come voi avete fatto con la Regina del nord?» L'Alpha di cui mi ero innamorato fece un passo avanti: aveva le zanne snudate e uno sguardo di sfida molto pericoloso. Con me era regale, aveva una postura severa, la durezza di un diamante grezzo, ma un atteggiamento gentile. Ma adesso sembrava il pericoloso generale di cui si sentiva tanto parlare. «Taye- ... Il principe ereditario del Regno di Smeraldo aveva già un compagno e, in verità, non mi pento di come sono andate le cose.» 

Suo padre emise un ringhio, ma Jörvar continuò a parlare. «Non m'interessa governare come il Re di Samarcanda, o pretendere di essere trattato qui come un principe, pur essendo un illegittimo.» Era il figlio illegittimo della Regina del nord?! Questa era una sorpresa. «Sono un condottiero. Ho un esercito che risponde a me, e me soltanto, non allungherete i vostri artigli su di esso, padre. E ho ottenuto un'alleanza con l'oriente, una cosa che i Sovrani del nostro regno apprezzeranno più della vostra sete di potere.»     

Dopo l'aggressività tagliente di quel discorso, la situazione sembrava sul punto di precipitare. Ed io ero talmente stupito che mi ero aggrappato alla maniglia della porta, senza accorgermene. Il peso del mio corpo la spinse verso il basso, facendo cigolare rumorosamente i cardini. 

Le loro facce si rivolsero verso di me all'unisono.

Come la lince spaventata che ero, saltai indietro e corsi via nel corridoio buio, col cuore che mi batteva forte nelle orecchie. Uno scalpiccio di passi mi inseguì rapidamente, cosa che mi fece spaventare ancora di più, finché non mi raggiunsero alle spalle. Qualcuno mi afferrò per il polso e mi fece ruotare sul posto, spingendomi contro il muro.

«Non volevo origliare, mi dispiace, mi dispiace!» ansimai, con gli occhi stretti in attesa di un ceffone. Invece, ricevetti una delicata carezza sulle orecchie. 

«Non è successo niente di grave...» disse la voce calma e fredda del Lupo Bianco, che mi spinse a riaprire gli occhi. «Non preoccuparti.» Poi iniziò a trascinarmi con sé verso un'altra ala del castello, ben illuminata da fiaccole incastonate a parete. Ci infilammo frettolosamente in una stanza e l'Alpha si chiuse la porta alle spalle. 

Era una camera da letto bellissima, di pietra con un gran camino, un ampio arazzo con un lupo grigio che ululava alla luna, e poi scudi e spade di varie fogge appese al muro. Una cassettiera di legno intarsiato e un letto a baldacchino con pesanti tende di broccato blu notte. Non commentai la bellezza di quella stanza solo perché ero ansioso. «Scusa, so che ho ascoltato qualcosa che non dovevo...»

Mi rivolse la schiena mentre accendeva il camino, motivo per cui non riuscivo a vedere la sua espressione. «E quindi... quindi... dovevi sposare l'attuale Re di Samarcanda...» mormorai, cercando di non assumere un tono triste o ferito. Mi sentivo male per quanto scioccamente avessi puntato in alto.

L'Alpha non era a Samarcanda per semplici faccende diplomatiche. Era lì perché doveva sposare il principe ereditario! E io, uno schiavo del Formicaio, pensavo di poter... Non riuscivo nemmeno a formulare quel pensiero nella testa per quanto fosse ridicolo. Jörvar era il generale del nord, era un principe illegittimo. Era un Alpha potente, mentre io ero l'ultima ruota del carro perfino in un posto sporco come il Formicaio. Non ero nessuno.  

Come potevo anche solo credere che lui provasse qualcosa per me?

Quando si voltò, dopo aver attizzato il fuoco, non ebbi il tempo di guardarlo in faccia che mi abbracciò. «Non volevo che lo sapessi.» sussurrò, contro il mio orecchio peloso. «Che ero in una gara per conquistare il principe di Samarcanda e il suo trono. Per me gli Omega non sono degli oggetti per cui rivaleggiare, te lo assicuro.» 

Rimasi a bocca aperta. «Non... non era quello a cui stavo pensando...» ammisi, con la voce tremante. «E'... è solo che... mi rendo conto che ti ho- vi ho messo in una situazione sconveniente... Le persone.. si fanno un'idea sbagliata di noi... Voi potete aspirare a principi e a chiunque altro... Mentre io mi sono attaccato a voi solo perché avete avuto pietà di me e siete stato gentile.» Non era così, in fondo? «Non mi aspetto niente, davvero, non mi dovete nulla... Lasciatemi andare...» sospirai, sentendo i miei occhi riempirsi di lacrime.

Ma lui non mi lasciò andare. Mi trattenne il viso fra le guance. «Sono convinto che il mio arrivo a Samarcanda sia stato tutto un progetto del destino per farmi finire nel Formicaio. Per farmi arrivare a te. Io ti ho sentito da prima di trovarti.» Sentii la pressione delle sue dita callose sulla pelle, sul viso, sul mento. «Com'è normale che sia. I compagni si trovano sempre.»

Venni attraversato da un fulmine di consapevolezza, quando i nostri occhi - neri e di ghiaccio - si incontrarono. «Compagni..?» Quella parola imprevedibile era tornata nella mia testa.

All'improvviso, mi resi conto di essere da sempre stato una torretta sul bordo dell'oceano, che non sapeva quale fosse il suo scopo e, dopo molti anni nell'oscurità, qualcuno era arrivato ad accendere una fiaccola luminosa sulla cima. Una luce che mi rivelava per quello che ero: un faro. Era come un risveglio. Ero incandescente, in grado di emettere luce e calore.

«E io ti voglio, Compagno.» mormorò, prima di coprire la sua bocca con la mia. Gli circondai il collo fra le braccia, mettendomi in punta di piedi per raggiungerlo, mentre la mia coda gli accarezzava una gamba e il mio corpo si scioglieva sotto al suo contatto. Volevo tanto sentire la sua pelle contro la mia, senza niente in mezzo. 

Mi strusciai contro di lui, in cerca di attenzioni. «E' quello che tu vuoi?» sussurrò, accarezzandomi il naso con la punta del suo, le labbra quasi a contatto, mentre con l'artiglio stuzzicava il primo bottone chiuso della mia camicia. 

Certo. Certo che lo volevo. Eppure, poggiai una mano sulla sua, quella con cui mi stava per spogliare. «Mi vuoi solo perché non sai...» bisbigliai, con un groppo in gola. «Non sai che... che non sono puro. Sono sporco.» Strinsi le labbra, cercando di non ricordare tutte le perversioni che i clienti avevano soddisfatto usandomi. Tutto il disgusto che avevo provato e che provavo ancora, da sempre, ogni volta che ricordavo

A volte volevo scorticarmi via la pelle soltanto per cancellare le immagini nella mia testa. Lui non si meritava un compagno così, avvolto dalla lordura, usato come un vecchio vestito sozzo e logoro. «Sì, sono sporco...» Mi morsi l'interno delle guance, cercando di trattenere le lacrime amare. 

Avevo tanto sperato di avere una possibilità con lui, ma non volevo imbrogliarlo: era giusto che sapesse quello per cui ero usato nel Formicaio. «Non fa niente se non mi vuoi...» aggiunsi, con la voce ridotta ad un pigolio quasi inudibile. Lo sentii prendere un profondo respiro, allentando la presa sul mio corpo. 

Ecco. Era finita.

«Se potessi tornare indietro, li farei a pezzi.» ringhiò. «Ma hanno già pagato a caro prezzo il modo in cui hanno trattato il mio compagno. Hai passato troppo tempo laggiù e io non sprecherò più un altro secondo.» E poi mi baciò di nuovo e le sue labbra erano proprio come le ricordavo, calde e un po' dure, e il tocco della lingua morbido, delicato solo per un tempo breve. «Non importa cosa credi che tu sia. Sei mio. Perfetto per me.» disse, la voce roca, le mani sulla camicia.

I bottoni vennero rapidamente aperti, mentre lui si sollevava la casacca sopra la testa, facendosi ricadere i capelli color platino sulle spalle. Poi i pantaloni raggiunsero la montagnola di vestiti sul pavimento e i nostri corpi si spostarono su quel letto a baldacchino morbidissimo. 

Le mani artigliate avevano un tocco rude e bisognoso, bramoso, di chi stava rivendicando qualcosa di importante, di speciale, e nonostante il suo tocco fosse un po' appuntito, riusciva comunque ad essere delicato. Con la bocca mi assaggiava e si spostava sul mio corpo come per assorbire ogni pezzettino: sul collo, sui capezzoli, sulla pancia e poi fra le cosce. La sua lingua lambì il punto più intimo di me stesso ed io affondai le mani fra le coperte.

Venni attraversato da un fremito improvviso, di desiderio... ma anche di timore. Gli occhi di ghiaccio si sollevarono lentamente su di me, mentre mi accarezzava i fianchi con gesti lenti e dolci dei pollici, i movimenti di chi voleva ammansire una bestiola che avrebbe potuto fuggire da un momento all'altro.

«Hai paura?» soffiò, perfino il suo respiro sulla pelle sensibile e umida mi fece contrarre i muscoli. Per la voglia di sentirlo contro di me, o per quella di nascondermi sotto alle coperte. L'attimo di esitazione che lo raggiunse lo fece assottigliare le palpebre. E poi si sollevò in alto, sopra al mio corpo, e con un guizzo improvviso afferrò le lenzuola e ce le tirò fin sopra alla testa, nascondendoci sotto e separandoci dal resto della stanza.

Con un braccio mi avvolse il corpo nudo, eccitato e tremante, completamente attaccato al suo: potevo sentire la durezza premere contro una mia coscia e il suo respiro caldo contro al collo. «Mi sono innamorato di te. Sei dolce, piccola lince. Sei il mio destino. Non ti farei mai del male.»

Quella confessione mi fece quasi esplodere e sciogliere il cuore insieme. Non ero più cosciente delle reazioni del mio corpo, sentivo solo gioia e calore, e quando i miei occhi si sollevarono, cercando nel buio fra le lenzuola i suoi, provai timidezza, brama e contentezza. Come potevo avere paura, davanti all'onestà di quel primo, imprevedibile amore?

«Non ho più paura...» sussurrai, sentendomi all'improvviso libero dai ricordi del passato, mentre lo abbracciavo e premevo il mio volto contro al suo petto. Gli circondai i fianchi con le gambe e piegai il collo di lato, in un chiaro invito a farmi suo per sempre. 

Capì subito. Non ci fu bisogno di dire altro. 

Posò la sua bocca sul mio collo e morse, e fu un po' doloroso, ma perfetto, perché adesso che ero marchiato avevo la consapevolezza di essere con la persona giusta, nel posto giusto. Dopo facemmo l'amore, senza nessuna fretta, un connubio dolce e intenso di corpi intrecciati, coperte avvinghiate alle caviglie, mani nelle mani e labbra che scorrevano ovunque, senza sosta.

La mia coda sbatteva contro il materasso e la sua bocca mi baciava perfino le orecchie triangolari, celebrando ogni mio centimetro. Mi strinse le cosce fra le mani e si spinse dentro di me finché non raggiungemmo entrambi l'apice di un piacere che, io, era la primissima volta che provavo. Era tutto così diverso e così nuovo, e mi sentivo così grato e completo.

«Voglio sapere il tuo nome. Devi dirmelo.» mi chiese, quando restammo abbracciati sotto alle coperte, con la mia guancia sul suo petto e la sua mano fra le mie ciocche, ormai sazi e felici. Gli puntellai il torace col mento, guardandolo in viso.

«In verità...» arrossii, imbarazzato e un po' mortificato. «Io un nome non ce l'ho.» rivelai. «Forse un tempo lo avevo, ma nel Formicaio nessuno l'ha più usato... Non serviva avere un nome, laggiù.» sussurrai, con un sorriso triste. Gli schiavi non possiedono niente, neanche nomi.

Mi accarezzò dolcemente la punta dell'orecchio, guardandomi dalla sua parte di cuscino. «Io un nome ce l'avrei.»

Mi raddrizzai sul letto, curioso. «Davvero?!» Il Lupo Bianco sorrise e annuì. «E quale?»

«Leinas.» Mi passò una mano sulla guancia e nei suoi occhi brillò una luce felice, con un accenno di stupore, sì, stupito per la fortuna che aveva fatto sì che ci fossimo trovati nelle viscere della terra, in un regno che non era la casa di nessuno dei due. 

Così, gli sorrisi di rimando. «Che vuol dire?»

E, mentre mi stringeva a sé, rispose: «Nel dialetto del nord significa Libertà.»







 F I N E 




*NDA - E abbiamo raggiunto una fine* 

Hola a tutti!
Scu-sa-te, l'aggiornamento è arrivato tardissimo, in questa settimana me ne sono successe veramente di ogni, fra cui un cavolo di problema agli occhi iniziato proprio mercoledì, ma lasciamo perdere xD sono tornata in vita, è questo che conta! Questa ministoria è conclusa e pur nella sua brevità, spero che vi sia piaciuta. Era una parentesi tenerina che chiude completamente "A tale of falcon and merman", ma non temete, Taye e Zakhar torneranno nelle storie degli altri due fratelli! Non vedo l'ora di iniziare la vicenda di Taro, forse sarà il fratello pi
ù spassoso in quanto a personalità! Arriverà o giovedì 13 o giovedì 20, dipende da quanto riesco ad organizzare un po' tutto (infatti punto più sul 20). In ogni caso, inserirò un avviso in questa storia quando pubblicherò il seguito, così non c'è rischio che ve lo perdiate.
Grazie a tutti per aver seguito "A Tale of Falcon and Merman", è stata una bella avventura <3

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