[ˢᶤᵈᵉ ˢᵗᵒʳʸ] 2. Se sei libero, puoi fare ciò che vuoi
Era la prima volta che la mia pelle emanava un profumo di pulito. Mi ero abituato per così tanto tempo ad indossare sempre i soliti vestiti sporchi, che ormai il lerciume sugli stracci di lino li aveva fatti solidificare, rendendo la stoffa simile al cartoncino.
Adesso che ero lavato, con i capelli soffici fra le orecchie pelose e abiti nuovi di zecca, avevo l'impressione di essere leggero, come sospeso in una bolla di sapone. Non avevo dovuto dare un compenso a nessuno: dei servi erano venuti a lavarmi, dopo avermi chiesto il permesso di toccarmi, e mi avevano fornito i vestiti. Ero stato sospettoso per tutto il tempo, chiedendomi dove fosse la fregatura... Ma i giorni erano passati e nemmeno una persona era venuta a chiedermi un pagamento.
Così era stato per il resto degli schiavi, che adesso venivano chiamati rifugiati. Io ero un rifugiato. Quella nuova nomea mi risultava strana sulla lingua, ma mi ci stavo pian piano abituando, anche se servitori e guardie mi trattavano come una tazza di porcellana sempre sul punto di rompersi. Ero passato da un estremo all'altro, ed era faticoso stare al passo con quanto mi accadeva: mi aspettavo che, prima o poi, qualcuno mi avrebbe colpito, mi avrebbe urlato addosso o rinfacciato tutte le cose che mi stavano regalando.
Ma non succedeva mai.
Tutti i rifugiati erano stati momentaneamente sistemati in un'accampamento fatto di tendoni in mezzo al deserto. Dormivo in una grande tenda piena di lettini, mi veniva dato da mangiare in una mensa allestita in un altro capannone ed eravamo tutti in attesa di... non avevo idea di cosa aspettassimo.
Ma evidentemente oggi l'avrei scoperto. Mi accompagnarono all'esterno e mi invitarono a sedermi su un grande tappeto carico di ornamenti orientali. Era ormai il tramonto e il sole stava sparendo dietro una duna rossastra: file di eleganti lanterne venivano accese da servitori indaffarati, mentre frotte di guardie arrivavano più numerose che mai.
Fra di loro, non smettevo di cercarlo... Jörvar, il mio salvatore.
Avevo continuato a sperare che apparisse nella mia tenda, che si facesse largo fra rifugiati e servitori venendo verso di me... Ma era scomparso, come fanno i bei sogni al mattino, portando con sé l'odore di mentolo e ginepro nero, e il ricordo di mani forti e artigliate che mi stringevano con inaspettata delicatezza.
Avevo scoperto soltanto stamattina, trovando il coraggio di chiedere di lui, che fosse conosciuto come il Lupo Bianco, il figlio di un temibile generale del nord. Era venuto in oriente per faccende diplomatiche e non sarebbe rimasto ancora per molto. Avevo perfino saputo che - incredibile! - le mie speranze non erano mal risposte, perché era passato nei giorni scorsi. O meglio, nelle notti scorse, affacciandosi discretamente all'interno della tenda mentre io dormivo.
La notizia mi aveva dato una scarica di energia irrefrenabile e, davanti a quell'ondata di guardie improvvisa, mi chiesi se non ci fosse anche lui. I rifugiati, seduti su grandi cuscini sopra il tappeto, si guardarono intorno disorientati, chiedendosi che cosa sarebbe accaduto di lì a poco. C'erano alcune facce conosciute fra loro, altri schiavi che avevano passato ciò che avevo passato io, se non peggio, ma non mi azzardavo a rivolgere loro la parola. Un po' mi faceva paura parlare del Formicaio, come si ha paura di parlare dei mostri per non attirare la loro attenzione.
Uno squadrone di soldati con gli stemmi di Samarcanda si aprì a ventaglio e, finalmente, una figura si fece largo, salendo su un palchetto improvvisato davanti al tappeto, sotto gli occhi di tutti i rifugiati, che rimasero senza parole nel guardarlo.
Un Omega.
Un Omega che sfoggiava con regalità una corona di conchiglie e un pancione. Per poco non mi mancò l'aria, nel rendermi conto che ci trovavamo davanti al Sovrano del Regno di Smeraldo, il primo Re Omega di cui si fosse mai sentito parlare.
Se eri uno schiavo e vivevi nel Formicaio, restare incinta non poteva che essere la più grande vergogna a te capitata. Le pance si dovevano nascondere, camuffare, se non riuscivi a disfarti del bambino. Nella peggiore delle ipotesi, diventavi inutile, il portatore di un'altra bocca da sfamare, e quindi venivi ammazzato.
Ma il Re... Oh, lui ostentava la sua gravidanza con una tale solennità che sembrava dargli potere. Con la pelle scura, i grandi occhi color ambra chiara e la tunica turchese splendente che indossava era stupendo, ma più di tutto aveva uno sguardo arguto e tutt'altro che sottomesso. O forse era il legame sinergico con l'Alpha - corvino, vestito di pelle nera, con un mezzo sorriso poco rassicurante fra le guance - che stava dietro di lui, nella sua ombra, a dargli forza.
Erano ovviamente compagni ed erano opposti come il sole e la luna, ma perfetti insieme. Stando nel Formicaio, quasi avevo smesso di credere alla favoletta delle anime gemelle, all'antico legame fra un Omega e un Alpha, destinati a stare insieme sin dal loro primo respiro nel mondo. Come potevo crederci?
Il pianeta era un posto gigantesco. Il tuo compagno poteva trovarsi dall'altra parte del mondo. Oppure...
Oppure poteva trovarsi casualmente nel tuo stesso regno, per faccende diplomatiche, perché era il fato ad averlo programmato. Mi chiesi perché stessi di nuovo pensando al Lupo Bianco e il ricordo del suo sguardo color ghiaccio mi attraversò con un fremito.
«Gentili signori e signore» esordì Re Taye Okoro, con una voce dolce come un flauto. Aveva chiamato signori e signore gli schiavi: che cosa stramba! Non sapevo se sentirmi onorato o preso in giro. «vorrei che fosse chiaro a tutti voi che non siete tenuti qui con la forza. Vi abbiamo dato un primo soccorso e offerto un momentaneo riparo dopo l'epurazione del Formicaio, non solo perché sono sicuro che sia nei miei doveri di sovrano aiutare i miei sudditi. La Regina Jelani, venuta prima di me, ha ignorato per troppo tempo i problemi che affliggevano Samarcanda.»
«Con questo non voglio dire che cercherò di sanare i problemi rimasti in sospeso. Ma che lo sto già facendo e nuove riforme sono tutt'ora in atto. D'ora in poi, nel mio regno, sarete al sicuro.» continuò, stringendo un pugno inanellato. «So che molti di voi non prenderanno bene le mie parole, perché si sono sentiti trascurati dai reali per tutti questi anni. Ma io mi impegnerò al massimo perché ognuno possa ricominciare una nuova vita.»
Il suo discorso infervorato e solenne mi fece sentire all'improvviso meno disperso ed insicuro. «Non dico che sarà facile, perché dopo ciò che avete vissuto non lo sarà e forse non dimenticherete nemmeno dopo molto tempo. Ma adesso tutti voi siete persone libere. E finché siete liberi, potete fare tutto ciò che volete, senza che nessuno imponga di nuovo la sua volontà su di voi. Perché non siete semplicemente liberi, siete dei sopravvissuti. Questo vi rende più forte di molti altri.»
Mi venne un groppo in gola, un groppo di pianto inespresso, ma riuscii a soffocarlo prendendo un bel respiro. Nonostante ciò, mi si velò il campo visivo di lacrime. «Sono consapevole che molti di voi siano stati portati con la forza a Smeraldo, perciò organizzerò delle spedizioni per riportare a casa chi lo desiderasse. Ma se c'è qualcuno che vuole dare una seconda possibilità a questo regno, farò in modo di fornirvi un lavoro e una residenza per incominciare.» Socchiuse gli occhi, con pacatezza. «Nessuno deve sentirsi solo, o disperso. Sono qui per voi. Grazie per l'attenzione.»
Il discorso si concluse così, e la scorta del sovrano, una donna altissima con un taglio sbarazzino e una divisa sofisticata, promise di prendere richieste e domande e riportarle al Re. Qualcuno si era messo a piangere, qualcun altro aveva perfino applaudito dopo ciò che aveva detto Taye Okoro. Io ero rimasto fermo come una statua, a domandarmi a chi potessi avvicinarmi per chiedere di Jörvar.
Non avevo nessun piano futuro. Non avevo in mente nessun lavoro che potessi svolgere, perché non mi sentivo bravo in niente. L'idea di vivere da solo, poi, mi faceva sentire ancora più solo di quanto già non fossi. Non c'era niente per me, nel mondo, e se avevo avuto una famiglia o degli affetti, ormai li avevo dimenticati, come loro dovevano aver dimenticato me.
Non avevo niente, se non la bruciante curiosità e l'inquieto interesse per il figlio di un generale che presto sarebbe tornato a casa. Timidamente, mi alzai dal tappeto e mi diressi verso la scorta del Re, Ymir pareva di chiamasse. Non ebbi neppure il tempo di parlarle, che lei alzò le sopracciglia e si illuminò, vedendomi.
«Tu devi essere la piccola lince! Il sovrano vuole parlare con te.» esclamò ed io, troppo sorpreso per rispondere, mi limitai ad indicarmi come uno sciocco. «Sì, sì, con te. Seguimi.» Come imbambolato, la seguii fino alla modesta tenda privata dove alloggiava il Re. Lo trovai steso su un divanetto basso, a tamponarsi la fronte e a sventolarsi, mentre sorseggiava qualcosa di ghiacciato e poi si accarezzava il pancione, evidentemente provato.
L'Alpha vestito di nero, di una bellezza spinosa e pericolosa, gli stava vicino e gli accarezzava le spalle, sussurrandogli qualcosa all'orecchio. Mi sentii subito di troppo, ma Ymir non si fece tanti problemi a presentarmi all'attenzione di entrambi.
«Ah, la lince!» esclamò il sovrano, cercando di mettersi in piedi, ma il suo compagno lo trattenne e gli lanciò uno sguardo ammonitore. Taye Okoro sospirò dolce e arrendevole, tornando poi a guardarmi. «Ci tenevo a parlarti. Un amico mi ha chiesto di avere un occhio di riguardo per te. Voleva sapere come stessi e desiderava che ti portassi i suoi saluti.»
«Un amico?» ansimai, all'improvviso in apnea. Non gli dissi come stavo, mi interessava troppo sapere chi fosse lui. «Jörvar?»
Il Re annuì. «Avrebbe voluto salutarti lui stesso, ma purtroppo non ha avuto il tempo con l'organizzazione della sua partenza.»
«Quindi... non lo rivedrò?» sussurrai, con la voce sottile, la gola chiusa, le orecchie basse. Non avevo il diritto di lamentarmene, comunque: mi aveva semplicemente tratto in salvo, come doveva aver fatto con molti altri schiavi. Non aveva nessun obbligo nei miei fronti. Non rappresentavo niente per lui. Non sapeva nemmeno il mio nome, perché io non gliel'avevo detto.
Taye lanciò uno sguardo al suo compagno, aggrottando la fronte. «Io... non credo. Partiranno a momenti.»
Il cuore mi sprofondò sotto i piedi. Senza alcuna dignità davanti al mio sovrano, all'Alpha che lo affiancava e alla scorta, caddi sulle ginocchia e restai in quella posizione genuflessa, implorante. «Vi prego, portatemi in città. Portatemi da lui.» dissi, in tono disperato. Non sapevo nemmeno io perché mi sentissi così, come se fossi sul punto di perdere qualcosa di importante... Qualcosa che io non avevo affatto.
Ma all'improvviso sentivo panico e urgenza, e il bisogno intensissimo di mettermi a correre, anche se non sarebbe servito. «Vi imploro, vorrei solo che qualcuno mi accompagnasse almeno fino alle mura di Samarcanda!» alzai la voce, con i lucciconi agli occhi e le mani giunte. Nemmeno sapevo come fosse la città, ma speravo almeno di incontrare il convoglio in partenza lungo la strada.
Gli occhi d'ambra di Taye Okoro in qualche modo si accesero di comprensione. Come se avesse capito qualcosa che a me non era chiaro. Si raddrizzò un poco sul divanetto. «Dubito che faresti in tempo, siamo molto a sud. Il deserto è grande e difficile da percorrere.» Poi si girò a guardare il corvino al suo fianco. «A meno che...»
«... Non ci stai pensando sul serio.» rispose lui, con un sorriso sardonico e un po' incredulo.
Ma il Re diceva sul serio eccome.
⚜⚜⚜
Jörvar Laufarson si voltò a guardare il Palazzo D'Estate. La granitica durezza nella sua espressione e il gelo nei suoi occhi chiarissimi avrebbe potuto convincere anche il più dolce sognatore, fra quegli orientali, del fatto che non ci fosse proprio niente che lo turbava.
Sicuro di sé, potente e freddo come un soldato sempre pronto alla battaglia, anche davanti al grande fallimento che era Samarcanda. Era arrivato con l'idea di conquistare il principe Taye, sposarlo e salire al potere, invece le cose non erano andate affatto secondo i piani.
Non che importasse. Non ce l'aveva con il Falco: anche se non era stato un partecipante ufficiale alla gara di corteggiamento, con tutto quello che il criminale aveva fatto per arginare gli attentatori di Taye, si era guadagnato il suo posto al fianco del principe molto più di quanto avrebbe potuto fare lo stesso Jörvar. Era giusto così. Il Lupo Bianco se ne andava a testa alta, accettando la sconfitta con onore.
Allora perché, guardando il Palazzo, osservando la città e il convoglio di carovane di fronte a lui, Jörvar sentì di star dimenticando qualcosa di importante?
Con quella domanda in mente, lo raggiunse subito l'immagine di un paio di grandi occhi neri con i lucciconi, graziosi, che sembravano appartenere ad un merlo, ad un uccellino spaurito. E poi a morbide orecchie triangolari, feline, scosse in piccoli movimenti nervosi e spasmi leggeri.
Quella lince... Quello schiavo... I suoi ormoni Omega avevano l'odore del burro, della cannella, dei dolci ai pinoli che si facevano da queste parti. Serrò la mascella, soffocando l'impeto focoso della rabbia, nel ricordare in che stato Jörvar lo aveva trovato. Ma la rabbia fu una sensazione rapida, passeggera, che subito venne sostituita da un'emozione ben più forte e pericolosa.
Il rimorso.
Perché lasci qui qualcosa che ti appartiene? Era la sua parte animale che lo chiedeva, che lo rimproverava, lo redarguiva. Il Lupo Bianco socchiuse gli occhi, scacciando quell'idea. L'ultima cosa di cui aveva bisogno uno schiavo appena liberato era di qualcuno che pretendesse di legarlo a sé. No, il nordico non ne aveva alcun diritto e stava facendo bene ad andarsene senza nemmeno rivederlo. Chissà cosa avrebbe fatto, altrimenti.
«Sir?» un servo della sua delegazione lo richiamò all'attenzione. Aveva appena finito di sellargli il cavallo. «E' tutto pronto.» Jörvar annuì.
«Allora andiamo.» Mise lo stivale nello sperone, si diede lo slancio e salì in groppa al suo stallone. Poi si accorse della figura nera che volteggiava sopra il cortile del Palazzo. Il Falco iniziò a planare verso il basso, scendendo verso il Lupo Bianco. Quest'ultimo affilò lo sguardo, mise a fuoco il corpicino sottile che l'Alpha stringeva fra le braccia e sgranò gli occhi.
Poi raggiunsero entrambi terra e la lince si sganciò dalle braccia di Zakhar per correre verso di lui. Jörvar smontò, ma rimase fermo a stritolare le briglie del cavallo dentro al pugno, forse perché turbato all'idea che il Falco avesse stretto fra le braccia il suo Omega per tutta la durata del volo. Suo? Ma da dove veniva quell'idea?
Proprio quando la lince lo raggiunse, iniziò ad incespicare sui suoi passi e a mostrare tutta la sua timidezza. «Io... Io..» Non si ricordava perché fosse lì?
«Perché sei venuto? Non ti trovi forse bene nell'accampamento?» incalzò il Lupo Bianco, facendo un passo avanti, con i denti digrignati. «Qualcuno ti ha trattato male? Ti ha mancato di rispetto?» Sarebbe stato pronto a sbranare il colpevole.
La lince scosse forte la testa e poi drizzò le orecchie. «Volevo... volevo solo salutarti!» disse, tutto d'un fiato. «E ringraziarti ancora...»
Il ghiaccio che Jörvar aveva nel cuore minacciò di sciogliersi. «Non devi. Ho fatto solo il mio lavoro.» Non era sua competenza ciò che aveva fatto al Formicaio, stava solo facendo un favore a Taye, ma non lo specificò.
«E... E adesso.. torni a casa?» mormorò la lince, fissando con ansia evidente il convoglio. Chissà che espressione avrebbe fatto, se gli avesse sfiorato il viso e stretto una guancia, che sembrava così morbida, finta, come se appartenesse ad una bambola di pezza. Ma Jörvar non lo fece. Si limitò ad annuire, senza parlare, fin troppo di poche parole. La cosa non fece scoraggiare l'Omega, che si aggrappò al farsetto blu che l'altro indossava. «Ti prego... portami con te!»
Il Lupo Bianco sgranò gli occhi. Be', quello era del tutto inaspettato.
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