Regola n.7: guardali negli occhi
Sapevo che i miei pretendenti si stavano impegnando per limitare i loro feromoni e non farmi sentire soffocato dal loro potere schiacciante, ma ero l'unico Omega in una stanza di soli Alpha, compresa la mia scorta. I brividi mi scorrevano dalla testa ai piedi e ringraziai il cielo che la maschera in medagliette d'oro mi nascondesse il viso dal naso in giù, mostrando di me solo gli occhi ambrati. Grazie ad essa riuscivo a celare abbastanza bene la mia espressione angustiata.
Spostai il peso del corpo adagiandomi meglio sul cuscino, le gambe incrociate, una mano poggiata sul ginocchio e l'altra sull'orlo del tavolo, intorno ad una forchettina di bronzo intarsiato. Sembrava tutto estremamente piccolo in presenza di quegli uomini ingombranti. Nonché belli da togliere il fiato.
Dal modo in cui mi fissavano tutti, sapevo che avrei dovuto dire qualcosa, ma le parole mi si erano bloccate sulla punta della lingua e non ne volevano sapere di venire fuori. Dov'era finita la sicurezza che mi aveva animato fino a poco prima? Era evaporata non appena avevo visto tutti quegli occhi puntarmi come la principale attrazione della serata. Cosa si aspettavano da me?
«Oh perdonatelo. Il ragazzo è così timido e fragile.» esordì la Regina di Samarcanda, rivolgendomi un sorriso perfido mentre sollevava il bicchiere e lo faceva dondolare verso di me in un brindisi, un segnale che avrei capito soltanto io, come a dirmi "l'hai voluto tu". Strinsi i pugni sotto al tavolo e mi schiarii la voce.
«Tutt'altro. Anzi, sono onorato di fare la vostra conoscenza.» replicai in fretta, sollevando il mento, un gesto che fece tintinnare tutte le medagliette della maschera contro le mie guance. Avrei dovuto togliermela quanto prima, sia per mangiare che in segno di rispetto nei confronti degli ospiti che mi incontravano per la prima volta. Solo che non volevo farlo. Mi sentivo protetto, con quella sul viso.
«E anche se ho sentito parlare molto di voi» proseguii, mentendo: avevo evitato nei giorni scorsi di indagare su di loro perché volevo comunicare alle mie madri tutta la mia indignazione. Quanto me ne pentivo, in questo momento! «gradirei che foste voi a scegliere le parole opportune per presentarvi al mio cospetto.»
Il primo che prese la parola fu l'incantevole uomo seduto immediatamente alla mia destra. Elegante e freddo in un impeccabile mantello grigio perla, con la passamaneria di pelliccia bianca, allacciato a spallacci d'argento luccicante e su una tunica aderente color basalto che lasciava immaginare quanto gonfi fossero i suoi muscoli. Setosi capelli biondo platino gli scivolavano sulle spalle e occhi di ghiaccio saettavano su di me.
Era umano al primo sguardo, ma bestiale nei dettagli: nel parlare, le labbra rivelavano canini taglienti e le mani forti erano coronate da artigli neri. Avrei detto che fosse rude e raffinato insieme. Appoggiò il boccale di birra mezzo vuoto sul tavolo e prese la parola: «Jörvar Laufarson. Generale degli eserciti del nord.» secco e conciso. Evidentemente era quel genere di uomo a cui piaceva andare dritto al punto. L'aspetto e la presentazione mi aiutarono a collocarlo nelle informazioni che Ymir mi aveva sbrigativamente fornito prima di arrivare in questa stanza.
Era il Lupo Bianco. Il figlio del Signore della Guerra d'Inverno, colui che aveva combattuto duramente per liberare le sue terre dalle tribù selvagge che tiranneggiavano al Nord. Se Jörvar Laufarson aveva anche solo la metà del valore di suo padre, sarebbe stato senz'altro un'ottima guida per il regno.
«Permettetemi di dirvi che anch'io sono infinitamente onorato di conoscervi, Vostra Altezza.» proseguì l'Alpha accanto al lupo bianco. «Sono Thiago Hernandez-Varela, Duca di Argentinian.» La chioma mogano, mossa in onde sinuose lunghe fino alle orecchie non nascondeva affatto il paio di corna che si arcuavano verso l'alto. Era un tipo davvero raro di mannaro: un toro.
La pelle abbronzata dal sole e gli occhi nocciola completavano l'aspetto piacente di un Alpha che pareva consapevole del proprio fascino. Indossava una camicia di raso borgogna piena di volant e all'occhiello una rosa dello stesso colore, che si tolse per offrirmela in un gesto di esagerata galanteria. In quel frangente, mentre tutti si presentavano, sembrava cercasse di canalizzare l'attenzione su di sé e... Forse era la mossa giusta, dal momento che era una competizione. E io ero il premio. Strizzai le labbra, accettando il dono mentre mormoravo dei ringraziamenti con un filo di voce. «Voi, ovviamente, potete semplicemente chiamarmi Thiago. Vi trovo incantevole.» E mi fece l'occhiolino, cosa che mi fece arrossire.
«Posssso sssperare che il Duca non abbia catturato tutta la vossstra attenzione, Altezza?» esclamò il terzo della fila, proprio al fianco di mia madre. L'Alpha aveva la pelle così candida che creava un netto contrasto col nero profondo dell'occhio a mandorla - uno solo, perché l'altro era coperto da una benda - e dei capelli lunghissimi, legati in una coda bassa al lato della nuca. Indossava uno yukata rosso, nero e bianco, pieno di decori raffiguranti flora e fauna: un capo elaboratissimo che teneva un po' aperto sul petto villoso. «Sssono il principe di Kamakura, Ssshun Masssasshige.»
Quando mi sorrise, la lunga lingua biforcuta saettò fra i denti rapida come una frusta. Era quello il motivo per cui parlava sibilando: la cosa lo rendeva inquietante, strano ed attraente insieme. Era il secondo principe d'oriente e un serpente marino, aspetto che rendeva la nostra natura mannara particolarmente affine.
Poi arrivò il turno dell'Alpha seduto alla sinistra di mia madre: avevo avuto l'impressione che fino ad ora non avessero fatto altro che parlottare a vicenda a bassa voce, il che era incredibile, visto che la Regina di Samarcanda era arcigna con la maggior parte della corte. Con quell'uomo addirittura pareva sorridere. Sconvolgente e sospetto. «Io sono Akia Niaré, capo delle tribù del Niger.» Per tutti gli spiriti animali. La mascella aveva ceduto e, forse, ero rimasto a bocca aperta.
Era lui l'uomo che Tusajigwe aveva scelto come mio sposo, ancora prima di indire questa gara fra pretendenti, e che io avevo insistito per non sposare. Evidentemente il suo prediletto. Era ovvio scendere a tali conclusioni, visto che anche mia madre era originaria della tribù del Niger. Avrei detto perfino che si assomigliassero, vedendoli vicini: entrambi con la pelle scura come il cioccolato fondente, entrambi alti e ben piazzati, muscolosi, abbigliati con gioielli fatti di perle di legno e zanne di bestie selvagge. Akia Niaré sembrava avesse il petto scolpito nell'ardesia, punteggiato da pittura tribale bianca che andava anche sulle guance.
«Vostra madre mi ha raccontato cose splendide di voi.» mi rivolse un sorriso bianchissimo, prima di indirizzarsi con una manata rapida la chioma di dreadlocks all'indietro sul collo. Quelli erano decorati con piume e perle colorate, che tintinnarono al gesto. «E spero di restituire il favore raccontarvi cose splendide di lei.» continuò, con uno sguardo d'intesa verso la Regina. Immaginai si riferisse al periodo in cui era lei a gestire la tribù da cui entrambi provenivano: all'epoca l'Alpha doveva essere un bambino. Mia madre non aveva mai raccontato quella parte della sua vita, perciò la prospettiva che me ne parlasse quell'uomo mi incuriosiva e indispettiva insieme.
«Avremo tanto tempo a disposizione per parlare...» risposi, fingendo malamente di essere entusiasta all'idea di passare interi pomeriggi a parlare della giovinezza della mia mamma Alpha. Conclusa la conversazione, fu il turno degli ultimi due pretendenti rimasti: stupefatto, mi resi conto solo allora che uno di loro era affiancato da un paio di ancelle nascoste da veli colorati semitrasparenti che le coprivano il capo fino alle ginocchia, liberando giusto le braccia affinché potessero tamponare le labbra del bel nobile ogni volta che beveva o mangiava. Tanto silenziosamente che non avevo notato la loro presenza.
Trovavo assolutamente terrificante che un uomo si facesse servire e riverire così, esibendo quell'espressione di pigra arroganza. Lui comunque era tutt'altro che terrificante. Aveva la pelle del colore della curcuma avvolta in elaborati tatuaggi fatti con l'hennè rosso e la chioma riccia seminascosta dal turbante aveva il colore dei lapislazzuli. Un blu scuro irrorato di nero, in assoluto contrasto col giallo accecante dei suoi occhi e con la piccola ninfea cremisi tatuata al centro della fronte.
Intercettò il mio sguardo e me ne restituì uno accigliato e superbo, che mi portò a sbatacchiare le palpebre, confuso. Non si presentò neanche. Ci pensarono le sue due ancelle, mentre lui sbocconcellava un baklava pieno di miele e noci con aria profondamente annoiata. «Ecco a voi il principe di Hyderabad...» presentò una fanciulla velata, lasciando all'altra il compito di concludere «...Rajat Narayan.»
Ricollocai anche lui nelle informazioni ricevute da Ymir: era il celebre principe delle Indie, una pantera mannara, ed era famoso anche per avere un'indole capricciosa ed intrattabile. Ero stupito anche solo dal fatto che avesse accettato di gareggiare fra pretendenti per ottenere la mia mano. Non sembrava affatto il tipo disposto ad accollarsi lo sforzo di corteggiarmi e conquistarmi. Ci fu un breve silenzio, in cui tutti si aspettavano che il diretto interessato dicesse qualcosa, invece si limitò a porgere la guancia alla serva più vicina, facendosi pulire un lembo di labbra dai rimasugli di miele rimasti.
Fu l'ultimo Alpha, seduto alla mia sinistra e di fronte al Lupo Bianco, a rompere l'imbarazzo e la perplessità generale presentandosi: «Sono Sir Lorence Williams.» Si appoggiò una mano sul petto, sfiorando il fazzoletto di seta bianca che gli si infilava dentro al panciotto ricamato verde foresta. «Mi diletto nel mercanteggiare ogni tipo di merce esotica nel vostro paese ed in quelli circostanti.» Visto che eravamo vicini, colse l'occasione per prendermi le dita e farmi il baciamano, accarezzandomi le nocche con le labbra. Arrossii. «Spero di aprire una breccia nel vostro cuore, Altezza.» mormorò, tornando al suo posto.
In questo caso non c'era bisogno che Ymir dicesse nulla: il mercante era famosissimo anche a Samarcanda come uno degli uomini d'affari più ricchi nel suo campo lavorativo. Veniva dall'England e aveva introdotto numerose novità nel regno di Smeraldo: la macchina fotografica a soffietto, per esempio, ma anche miscele di tè pregiato o armi innovative. Non aveva sangue nobile, ma immaginai che mia madre lo avesse selezionato per il suo prestigio.
Ovviamente, non mancava di fascino. A differenza degli altri non aveva caratteristiche animali che risaltavano all'occhio, ma quella mancanza gli donava un'elegante sobrietà e una raffinatezza sottile. I capelli castani, lisci, erano domati da una piega ingellata, mentre il bel viso sbarbato era impreziosito da un monocolo dorato davanti ad un occhio. Lo sguardo verde smeraldo trasudava astuzia, evidentemente essenziale per i suoi affari, e gli abiti d'alta sartoria comunicavano attenzione nei dettagli.
«Adesso che le presentazioni sono state ultimate, propongo un brindisi per sancire l'inizio di questa entusiasmante competizione.» intervenne la regina, fin troppo di buon umore, sollevando il calice che venne prontamente riempito da un servo. Ben presto tutti i bicchieri furono pieni e sollevati verso l'alto, compreso il mio, che non avevo affatto un'aria felice. «E che vinca il migliore!»
Perché non ero felice? Semplice. Nessuno di loro aveva l'aria di essere uno stupido.
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