Regola n.47: un Omega non ha bisogno delle nozze


La Rivendicazione degli Omega aveva proprio ragione. Per quanto leggessi e rileggessi quel libro, non mi stancavo mai di onorarne la saggezza. Sì, un Omega non aveva bisogno di sposarsi per sopravvivere, autoaffermarsi, essere qualcuno. Un Omega non esisteva in funzione di un marito e di pargoli da mettere al mondo. Nossignore

Ma perché mia sorella non voleva capirlo? E perché, fra tutti gli Alpha del mondo, aveva scelto proprio il peggiore idiota?

Il grande giorno era arrivato ed io non potevo essere più scontento: oggi sarebbe stato celebrato il matrimonio di mia sorella. Mi ero svegliato all'alba e avevo passato la maggior parte del mio tempo ad elaborare strategie per far saltare il matrimonio. Una maledizione dagli spiriti animali. Una contaminazione improvvisa del banchetto. Un'epidemia contagiosissima. Uno stormo di uccelli assassini in giro per la città. 

No, di quelli ne bastava uno solo: il Falco. Zakhar si era mosso ancor prima dell'alba, per andare alla fucina del marito di Ymir, il più abile fabbro di Samarcanda. Di conseguenza, avevamo chiesto aiuto anche a lei per la faccenda del rompicapo di Sir Lorence Williams: segretezza e velocità erano tutto ciò che ci occorreva. Presto avremmo scoperto cosa conteneva la scatola-stella e io fremevo per sapere la verità. 

Successivamente, il mio compagno era tornato in tempo per farsi consegnare da Amnon, l'eccentrico governante, gli abiti ufficiali che avrebbe indossato come mia scorta. Era in completo blu notte, con una giacca a doppiopetto adorna di spille dorate con tutte le forme di riferimento agli spiriti animali. Quel colore gli stava bene, abbinato al luccichio celeste dei suoi occhi - uno dei quali, viola, era sempre nascosto dietro la lentina. 

Anche i suoi capelli erano ingellati, di nero lucido tirato indietro sulla fronte, e sarebbe sembrato anche lui un principe, se non fosse stato un arsenale vivente. La cintura intorno alla sua vita sfoggiava almeno dieci pugnali diversi, coltellini da lancio e due spade, una per fianco. Il livello di sicurezza era altissimo, per l'evento.

Io indossavo pantaloni alla turca di seta e organza cangiante, verde smeraldo con riflessi oro e viola, e un top a fascia che mi scopriva spalle e ventre. Una cintura di filigrana d'oro intrecciata mi circondava la vita e un coprispalla di medagliette dorate mi avvolgeva la schiena. Sandali, bracciali, cavigliere, collane, e una tiara sottile come un fascio intorno alla fronte: tutto sbandierava il mio status sociale di principe ereditario.

E a proposito di vestiti: avevo anche meditato di macchiare di pittura rossa l'abito da sposa di Tahani, ma ne aveva altri due e, anche se avessi rovinato pure quelli, gli stilisti dell'intero paese si sarebbero immolati per dare alla principessa una veste sostitutiva. 

Ormai con le mani legate, ero salito in carrozza senza poter fare niente per fermare il matrimonio. La parata partiva dagli imponenti cancelli del Palazzo d'Estate: file e file di sudditi si accalcavano ai lati delle strade, lanciando riso, cous cous e petali di fiori. Gridavano,  esultavano, salutavano e si commuovevano. Alcuni avevano perfino copie di giornali con la faccia fotografata di Tahani, come se si aspettassero un autografo.

 La mia era la seconda carrozza a partire, esattamente dopo quella delle Regine, ma prima di quella di Tamsin. Tahani sarebbe partita per ultima e per ultima sarebbe arrivata al santuario, come voleva la tradizione. Mi sporsi dal finestrino sventolando la mano con un sorriso affettato di cortesia, mentre le guardie all'esterno mi sorvegliavano e i cittadini chiamavano il mio nome e mi sorridevano. 

Una stretta al cuore mi attraversò il petto: avrei voluto che mio fratello Taro fosse qui. Non si sarebbe perso l'evento per nulla al mondo... Sospirai e ritornai all'interno della carrozza. Il movimento brusco mi strappò un giramento di testa: per un attimo la mia vista si oscurò e un mancamento improvviso quasi mi fece cadere di faccia in avanti, verso il divanetto di fronte al mio, dove sedeva solo Zakhar.  

Mi prese al volo e mi sistemò sulle sue ginocchia, avvolgendo le braccia intorno alla mia pancia nuda. «Stai bene?» Le sue mani ruvide direttamente sulla sua pelle mi regalarono qualche brivido inaspettato. «So che stai fingendo che sia tutto apposto, ma ricorda che ti tengo sempre d'occhio.»

Deglutii e strinsi i pugni. Non era il momento di lasciarsi andare alle debolezze: va bene, ultimamente avevo vomitato senza ragione, a volte mi mancava l'aria, altre sentivo la terra tremare sotto ai piedi; ma avevamo catturato Lorence, eravamo ad un passo dallo scoprire chi fosse il mio attentatore e il Formicaio presto sarebbe caduto. Era tempo di farsi forza, non di lasciarsi andare. 

Non l'avevo già detto, quando Zakhar mi aveva rapito per la prima volta, tanto tempo prima? Non ero un ragazzo temerario, ma a tirare fuori gli artigli ce la mettevo tutta. 

«Sto benone.» affermai, mentre il Falco tirava le tendine della carrozza, lasciando entrare solo una minuscola penombra. Sfruttando la posizione, adagiò le labbra sul mio collo, poco sopra la nuca, nel punto esatto dove mi avrebbe marchiato se avesse voluto rivendicarmi per sempre come suo. Schiuse la bocca e la lingua stuzzicò la pelle sensibile: la pelle d'oca mi si diffuse su tutto il corpo, mentre i miei capezzoli s'indurivano spingendo contro il tessuto del top.

«Non sei bravo a mentire, principe dei sempliciotti.» sussurrò, succhiando la carne sensibile, mentre io inarcavo la schiena contro al suo petto e le mie ginocchia tremavano. «Dimmi la verità.» Le sue dita si spostarono dalla mia pancia all'orlo dei pantaloni. Ci si infilarono sotto, con tremenda lentezza. Questo era il suo modo di estorcermi la verità? Maledetto. 

«Ho... ho detto... che sto.. che va.. tutto.. bene.» ansimai, sobbalzando quando la sua mano superò gli slip e mi circondò il membro, che si indurì all'istante. Mi sorressi al bordo del finestrino, stringendo fino a farmi sbiancare le nocche. «Aspe...tta.. siamo... la parata.. pubblica..» gemetti, arricciando le dita dei piedi. 

«Allora abbassa la voce.» sussurrò contro il mio orecchio, con un risolino perfido, iniziando a muovere il pugno. «E dimmi la verità.» Con le tendine chiuse, non riuscivo a vedere a che punto della strada fossimo, ma sapevo che mancava ancora un po' per il Tempio del Delfino Dorato. Potevo resistere ancora. 

«Ahhn... mmh-» mugolai, mentre il Falco mi sganciava la cintura e abbassava un po' i pantaloni, per impedirmi di sporcarmi. L'odore dei suoi feromoni mi stordì, mentre si univano ai miei in un intreccio di profumi irresistibile. Temevo che la gente, fuori dalla carrozza, li sentisse: dovevo cercare di resistere e reprimere quanto possibile.

Ma non fu facile, quando il criminale aumentò la velocità e i miei fianchi iniziarono a muoversi da soli, in risposta, seguendo il suo ritmo. E poi, all'improvviso, proprio quando ero ormai vicino al culmine, smise di muovere la mano e strinse la base della mia erezione. Un lamento lungo e sottile gorgogliò nella mia gola. «No-» Se prima volevo che stesse fermo, adesso anelavo quell'ultima carezza.

«Allora?» incalzò, appoggiando il mento sulla mia spalla, le labbra piegate in un'espressione scaltra. «Dimmi che ti succede.»

«N-non lo so... E... Zak.. per favore...» Mi agitai fra le sue mani, cercando di finire da solo, ma lui strinse ulteriormente il pugno, un gesto eloquente. «Non sto... bene... credo.. la preoccupazione... lo stress... Vorrei solo che... fosse più facile...» biascicai, col fiatone. 

«Promettimi che ti prenderai cura di te stesso.» disse, allentando la presa e facendo strisciare le dita sulla mia lunghezza indurita in una specie di carezza conciliatoria.

«Pro...prometto.» sospirai e l'Alpha, finalmente, mi diede ciò che volevo. Tornò a muovere la mia virilità con gesti rapidi, giocherellando col lobo del mio orecchio fra i denti, e con un sospiro pieno di soddisfazione raggiunsi l'amplesso dentro la sua mano. Mi accasciai appagato contro il suo petto, riprendendo fiato, e quando la lucidità tornò a rischiararmi la mente, mi voltai per guardarlo male. 

Si stava pulendo il palmo con un fazzoletto di seta, sfoggiando un ghigno soddisfatto. «Dovresti rivestirti. Fra poco arriveremo e tutti gli occhi saranno puntati su di te, finché non spunterà la sposa.»

«Disgraziato.» borbottai, tirandomi su i pantaloni e stringendo la cintura, arrancando poi per rimettermi seduto sul divanetto della carrozza, di fronte a Zakhar. Ora che non ero più seduto sulle sue gambe, notai un principio di rigonfiamento al cavallo dei suoi pantaloni, ma lui scrollò le spalle, per nulla infastidito dalla cosa. "Passerà", dicevano i suoi occhi.

Qualche minuto dopo, la piccola vettura si fermò. Scostai le tendine e vidi, oltre imponenti scalinate punteggiate di candele e fiori, l'opulento ingresso del Tempio del Delfino Dorato. Ai lati del percorso, lì dove i cittadini non potevano più arrivare, c'erano accoliti del santuario, individui incappucciati di mantelli avorio bordati d'oro che suonavano dolci flauti di pan. 

In cima alle scale c'erano le Regine, vestite con abiti in tinta verde, sontuosi e aderenti, decorati da scaglie luccicanti per imitare code di sirene e tritoni. Zakhar scese prima di me dalla carrozza e mi tenne aperta la portiera, allungandomi la mano. La afferrai ed uscii con un goffo saltello. Stavo per cadere di nuovo, ma il mio compagno mi tenne forte per il polso, impedendomi di precipitare di faccia sulle scale di pietra, sotto lo sguardo di centinaia di cittadini e decine di giornalisti.

Dall'alto, sotto alle colonne che circondavano l'ingresso, la Regina Jelani mi rivolse uno sguardo d'avvertimento, che mi suggeriva di ricoprire con onore il ruolo di testimone e principe ereditario. Per il bene di mia sorella, e del regno di Smeraldo. Zakhar allontanò la sua mano dal mio polso, di scatto, ma mi rimase accanto. 

Dopo aver preso un respiro, salii i gradini e mi appropinquai ad entrare. Avvertii chiaramente una differenza dall'esterno all'interno: era più fresco, c'era una soffusa penombra, il suono dei flauti di pan era stato sostituito da quello dell'organo e degli archi, che intonavano soavemente il Canon in D. L'enorme sala era edificata in marmo ambrato e oro massiccio, riempita da mastodontici colonnati fatti di conchiglie e coralli bianchi. 

Nelle nicchie sui muri e i soffitti intarsiati c'erano statue degli idoli, fra delfini e creature acquatiche e ovunque, specialmente fra le panche e le sedute di fronte all'altare, erano state sistemate orchidee cigno e rose screziate di rosa, come avevo dato disposizioni, visto che era il volere di Tahani. Il sentiero lungo la navata era costeggiato da candele e non c'erano tappeti, perché quella lunga porzione di pavimento era di vetro, sotto cui serpeggiava un rigagnolo d'acqua marina, cristallina, percorsa da minuscoli pesciolini.

Era un luogo splendido dove sposarsi, se solo il matrimonio fosse stata la felice unione di due anime affini. Ma non lo era. Percorsi velocemente la navata con una smorfia, raggiungendo l'altare rialzato di pietra, dove si trovava già Quinn. I capelli biondi ingellati all'indietro e il completo grigio perla sapientemente abbinato al colore dei suoi occhi, non era meno sfarzoso del tempio stesso, visti tutti i ricami d'oro e le perle intessute. 

Tradizione voleva che il testimone fosse accanto allo sposo, perciò presi posto a malincuore, mentre Zakhar si fermava dietro di noi, abbastanza vicino da sentire tutto quello che ci dicevamo. Quinn mi rivolse un sorriso di perverso trionfo, diceva "ho vinto, non hai fermato niente, non hai salvato tua sorella" senza aver bisogno di parlare. Digrignai i denti.

«A quest'ora avresti potuto esserci tu... Ma Tahani è stata più sveglia di te.» mi sussurrò, pimpante, mentre il Tempio e le panche iniziavano a riempirsi di invitati: prima i parenti, poi i miei cinque corteggiatori con le delegazioni dei loro regni, infine il resto della corte di Samarcanda, fra nobili d'alto rango e cittadini illustri. Vidi in prima fila le regine, poi Tamsin, accanto lo zio Dalmar, nelle vicinanze il cugino Inoko con suo marito e tanti altri della famiglia Okoro.

«Te ne pentirai.» sibilai, stringendo i pugni e trattenendo a stento un'ondata di rabbia. 

«Non essere geloso. Vivremo sotto lo stesso tetto e potrò venire a farti visita di notte quando vorrai.» sussurrò, con un'espressione languida e viscida. «A meno che tu non riesca a fermare queste nozze. Ma, be'» lanciò un'occhiata alla sala intorno a noi. «ti ci vorrebbe proprio un miracolo. O chissà...» Continuò a sorridere, come se fosse divertito da qualche personale pensiero che non condivise.

«Ti renderò la vita un inferno.» gli promisi. Poi, tutti si alzarono in piedi e la musica si fece più forte. In fondo alla navata, fra le colonne dell'ingresso, era appena comparsa la sposa. Tahani era stupenda, ma su questo non ci sarebbe stato alcun dubbio: truccata alla perfezione, con i capelli ricci raccolti e riempiti da orchidee cigno, che sfoggiavano sulla cima una tiara dorata. 

Il suo abito da sposa aveva sottili maniche di pizzo, un corsetto che le strizzava il vitino di vespa mettendo in mostra l'abbondante scollatura e una gonna a palloncino semplicemente gigantesca. Ricopriva tutto l'ingresso e lo strascico cadeva sulle scalinate, sorretto dai gemellini Omega che facevano i paggetti. Il velo era altrettanto gigantesco, riempito di minuscoli diamanti e petali di fiore. Tutti trattennero il fiato, alcuni batterono le mani, e poi la principessa iniziò la sua camminata lungo la navata.

Quasi commovente. Peccato che fosse tremendamente sbagliato. Osservai impotente mia sorella che si avvicinava all'altare, mentre intrecciavo le mani in preghiera, sperando che gli spiriti animali facessero capitare qualcosa. Qualsiasi cosa: una calamità, una magia. 

E qualcosa, effettivamente, accadde.     

Gli accoliti incappucciati che ci circondavano estrassero dei coltelli e si lanciarono su di me, mentre altri accoliti si affacciavano dalle balconate nei pressi dell'organo, armati di balestre ed arco. Ben presto compresi che quelli non fossero affatto seguaci del culto del Delfino Dorato. Le frecce piovvero sulla sala.

Si scatenò il caos. 

La maggior parte degli invitati cercò di fiondarsi tutta insieme verso l'uscita, in un oceano umano strillante. Altri ancora si accovacciarono sotto alle panche, gridando, mentre coloro che erano in grado di combattere presero le armi e si unirono alle guardie reali, che cercavano a fatica di farsi strada controcorrente, fra la gente che correva all'uscita, per raggiungere l'altare dove mi trovavo io. Quinn corse verso Tahani e, mentre si metteva a farle scudo sbracciandosi teatralmente, mi parve di vederlo sorridere verso di me. 

Ma era tutto troppo confuso, in quel momento, per esserne sicuri. «Riparati dietro all'altare e non uscire!» gridò il Falco, che adesso stava combattendo contro cinque finti accoliti, da solo. Provai a protestare, ma lui mi spinse frettolosamente con i gomiti, agitando le spade contro i suoi nemici. 

Al riparo, mi affacciai per guardare: Akia e il Lupo Bianco si erano uniti al combattimento per proteggermi, mentre Rajat e Shun stavano lottando al fianco della Regina Jelani contro un'altra ondata di aggressori. Thiago stava fingendo di fare l'eroe, aiutando le donzelle ad uscire dal Tempio senza essere calpestate, come facevano le guardie per il resto degli invitati. Altri soldati ancora stavano cercando di raggiungere le balconate da cui arrivavano le frecce e man mano, falsi accoliti cadevano verso l'alto come birilli, schiantandosi sul pavimento.

Una freccia mi vibrò così vicino alla faccia che mi aprì un taglio sulla guancia, così tornai a nascondermi rapidamente. Però odiavo l'idea di restare lì, accucciato dietro all'altare come un codardo, perciò strisciando sulla pancia e aiutandomi coi gomiti, tentai di uscire senza farmi vedere. La cosa non ebbe i frutti sperati. 

Uno degli attentatori mi vide subito e cercò di colpirmi: rotolai di lato e l'ascia aprì un solco sul pavimento dove mi trovavo prima. Il Falco si accorse di me, ad occhi sgranati, mentre stavo per essere colpito di nuovo. «Torna al riparo, stupido!» ringhiò, correndo verso di me. Parò il colpo d'ascia incrociando le spade ad X ma, distratto, una freccia gli si infilò nella coscia.

«Attento!» gridai, sentendo il gelo nelle ossa mentre vedevo che la sua gamba ferita si piegava al suolo. Infilzò il nemico fra le costole, fino all'elsa, ma un altro dietro Zakhar lo aggredì, infilzandogli un pugnale fra le scapole. «NO!» Veloce, come non lo ero mai stato, mi rimisi in piedi e saltai sull'aggressore, che cadde a terra con un coltello da lancio in mezzo agli occhi. 

Era stato Zakhar, ovviamente. Respirava affannosamente, barcollava e aveva il completo pieno di sangue. «Ti ho detto... di restare... al riparo!» ansimò, a denti stretti. I suoi occhi erano diventati gialli, le dita si erano allungate in artigli da rapace e adesso uccideva direttamente a mani nude. Un'altra freccia lo aveva colpito all'altra gamba, ma questo non lo fermò dal continuare la mattanza.

Non volevo lasciarlo, ma non volevo nemmeno essere un peso o una distrazione. Afferrai un'arma dalle mani di un finto accolito che era rimasto ucciso dallo scontro: non ci pensai due volte, dando un'accettata alla testa di un incappucciato, che rovinò a terra fra i nostri piedi. «Forza!» Akia ora mi aveva preso per le spalle e mi stava spingendo dietro all'altare, mentre il Lupo Bianco si era affiancato al Falco per combattere. Poi anche il Leone tornò nella zuffa.

Restai semi-nascosto a guardare, col cuore in gola. Eppure, mentre gli altri erano occupati, nessuno si accorse di un altro aggressore, che si era accovacciato dietro all'altare e mi aspettava. Mi abbrancò per le gambe e, gridando, caddi al suolo. 

La mia testa colpì duramente terra e persi i sensi.

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