Regola n.41: perdonami
Come poteva un banchetto reale in onore degli spiriti trasformarsi in un bagno di sangue? Eppure gli ingredienti c'erano tutti.
Cibo pieno di induttori sciolti e mescolati ad arte per mascherarne la presenza. Troppi Alpha in una sola stanza. E un Omega più in calore di quanto non lo fosse mai stato. «SCAPPA!» Aveva gridato Zakhar e l'urlo aveva superato le mie orecchie ovattate e quella sensazione terribile di trovarsi immersi nell'acqua bollente, come un'aragosta che sta cucinando a fuoco alto.
Azzardai a mettere un piede sul pavimento, oltre la sedia, per cercare di alzarmi e allontanarmi da lì, ma avevo le gambe molli. Caddi a terra, steso supino.
Dietro di me, si stava scatenando il caos: qualcuno aveva cercato di saltarmi addosso, qualcun altro stava contrastando gli attacchi, mentre ringhi animaleschi e grida di rabbia si alternavano a versi famelici, bramosi, selvaggi.
Io avevo il fuoco dentro. La pelle formicolava, bruciava, il bassoventre ardeva mentre il sangue pompava violentemente in tutto il corpo. Ansimavo per il bisogno violento di contatto, strusciandomi contro il pavimento in cerca di un sollievo che non sarebbe arrivato.
"Scappa!" mi tornò in mente la voce del Falco, per ricordarmi che dovevo sbrigarmi, anche se non riuscivo a camminare. Procedetti a tentoni, strisciando i gomiti, ma qualcuno mi afferrò per la caviglia e mi tirò indietro. Piantai le unghie nella moquette, in cui rimase appena qualche solco, poi fui girato a pancia in su.
L'Alpha che mi stava addosso era il principe Shun, che adesso aveva le zanne snudate, fra cui strisciava la lingua biforcuta, e uno sguardo di follia dentro all'unico occhio. Oltre la sua schiena, riuscivo a malapena a vedere Zakhar, sporco di sangue, che stava combattendo da solo contro tre Alpha, mentre mia madre e un bel po' di guardie ne tenevano a bada altri ancora.
Artigli, sangue e denti. Era un vortice di violenza inaspettata al cui centro di tutto c'ero io.
Il rumore che fece la mia tunica quando si strappò, mi riportò alla realtà: la stoffa si aprì come burro sotto agli artigli di Shun, mentre la sua lingua serpentina strisciava sulla mia pelle nuda, stuzzicando i capezzoli con le due punte biforcute. Inarcai la schiena, gemendo ed infilando le mani fra i capelli dell'Alpha, tentando senza successo di spingergli via la testa.
Anelavo così disperatamente quel contatto... E altrettanto disperatamente volevo allontanarlo da me.
"Scappa!"
Mossi le gambe, scalciai, ma lui mi tenne ferme le cosce con entrambe le mani. Mi stracciò i pantaloni mentre io mi dibattevo come un'anguilla. Proprio quando alzai il braccio per graffiargli la faccia, un altro Alpha mi bloccò i polsi sul pavimento e si piegò sopra di me.
«No... No... Lascia- ahhh.. temi!» mugolai, mentre il volto del secondo uomo che mi aveva ormai raggiunto si sovrapponeva al mio. Era Rajat, e i suoi occhi da pantera ora scintillavano di giallo in maniera del tutto innaturale, come due fuochi. Mi baciò in maniera brutale ed io sentii le sue zanne lacerarmi. Mi contorsi sotto di lui: viso, braccia, gambe; divincolai ogni parte di me in una tormentata, vana lotta per sfuggire ad entrambi.
Ma troppe mani mi tenevano fermo. Strisciavano, scivolavano sulla pelle esposta, toccando e stringendo. «Aiu... Mphf!» gemetti. E morsi, gridai, cercai di tenere strette le ginocchia.
All'improvviso, un calcio in faccia spedì il principe Rajat lontano da me, a sbattere contro le sedie, atterrando ai piedi del tavolo. La tovaglia era rimasta coinvolta nel combattimento ed era caduta quasi completamente, trascinando con sé piatti di porcellana infranti, centrotavola in fiore e vassoi pieni di leccornie. Petali, frantumi e pezzi di cibo volavano ovunque.
Il Falco sollevò Shun per il kimono, dalla collottola, come si fa coi gattini, ringhiandogli in faccia: «Taye è mio.» E lo schiantò contro il muro come una bambola di pezza. Mi drizzai a sedere, fissandolo, e Zakhar mi guardò di rimando, restando per un momento paralizzato. Vidi baluginare dentro ai suoi occhi lo stesso disperato, affamato desiderio degli altri. Poi però si azzannò la mano, tanto forte che il sangue gli zampillò lungo il braccio, e con le labbra sporche di rosso mi urlò contro: «Che fai? CORRI!»
A correre invece fu Quinn, che veniva spedito verso di me, dopo aver messo a tappeto una schiera di guardie. Zakhar però si mise in mezzo, bloccando la sua traversata. «Portatelo via! Chiudetelo dove non può essere raggiunto!» gridò ad alcune guardie, che si separarono dalla zuffa per aiutarmi. Mi sollevarono di peso, per le braccia e per le gambe, e mentre fuggivamo all'esterno della splendida stanza variopinta, riuscii a gettare un ultimo sguardo generale.
Tahani e Tamsin, i miei fratelli, si erano nascosti sotto al tavolo insieme a molti altri nobili che non erano riusciti a scappare dal banchetto. La maggior parte si era dileguata, invece. Mia madre, la regina, stava combattendo contro mio zio Dalmar e contro Akia, riuscendo abilmente a fronteggiarli entrambi. Una dozzina di guardie circondavano Lorence, Thiago e Rajat, facendo fatica ad affrontarli. Il mio Falco, invece, combatteva contro il Lupo Bianco e Quinn, mentre Shun era svenuto per la botta contro il muro.
La mia visuale venne interrotta quando svoltammo nel corridoio: dondolavo, appeso per le braccia e le gambe, e gli arti mi facevano un po' male, ma le guardie non si fermarono. Il calore non si stava attenuando, anzi, peggiorava. Quasi non riuscivo a respirare.
Persi i sensi per quelli che mi parvero pochi secondi, ma quando riaprii gli occhi mi resi conto che mi trovavo in un luogo del Palazzo d'Estate dove raramente mettevo piede: erano le prigioni sotterranee. Umide e buie, si sentiva solo lo sgocciolare dell'acqua, perché le celle si trovavano ancor più in basso rispetto alle grotte acquatiche dove rilassavo la pinna.
Mi lasciarono all'interno di una gabbia, steso sul pagliericcio freddo. La chiusero a doppia mandata dall'esterno, ma poi fecero strisciare la chiave attraverso le sbarre, così che potessi aprire io la porta quando tutto sarebbe finito. Poi se ne andarono, lasciandomi solo, probabilmente per stare di guardia all'ingresso delle prigioni.
In quel silenzio, il mio ansimare pesantemente riecheggiava in tutte le pareti. Avevo i vestiti stracciati, indossavo solo brandelli. Le mie cosce erano piene di graffi, le labbra gonfie per i morsi e, come se non bastasse, avevo un'erezione quasi dolorosa. Avrei dato qualsiasi cosa per liberarmi e ritornare nella stanza del banchetto: chiunque mi sarebbe andato bene.
Volevo essere toccato. Volevo essere stretto e posseduto.
No, non mi andava bene chiunque. Volevo il mio compagno. Volevo che il Falco fosse lì con me. Volevo le sue labbra sopra le mie, o su qualsiasi altro punto del mio corpo. Volevo sentirlo spingere dentro di me, con forza, perché non lo dimenticassi: se solo fosse stato in quella cella...
«Zakhar...» ansimai, ad occhi chiusi, immaginando la prima volta che avevamo fatto l'amore, fra i canyon del deserto roccioso e sotto un cielo pieno di stelle. Strinsi nella mano la mia durezza, in cerca di conforto e un sollievo che non sarebbe arrivato. Avevo ormai ampiamente compreso come fosse accoppiarsi con un Alpha e non si poteva tornare indietro: darmi piacere da solo era un palliativo momentaneo ed insoddisfacente, come mangiare senza sale e spezie.
Sospiravo e gemevo, sapendo che laggiù nessuno poteva sentirmi, nemmeno le guardie all'esterno della prigione, separate da me da rampe di scale e metri di roccia. Non sapevo nemmeno quanto tempo fosse passato, finché non sentii un rumore di passi scendere i gradini e raggiungere il tunnel di celle praticamente vuote, a parte la mia. Era una fortuna che le mie madri fossero clementi nel periodo delle feste: non c'era nessuno a sorbirsi il mio calore.
«Chi..?» una domanda sospirata, angustiata ed eccitata insieme, coprendomi malamente la nudità con lembi di tessuto stracciato, anche se era impossibile negare il mio stato.
«Taye.» mi chiamò, aggrappandosi alle sbarre, il viso premuto contro la grata, la fronte contratta, le guance graffiate, il petto morso e schizzato di sangue, la divisa nera stropicciata e scomposta, i capelli corvini scarmigliati. E un'espressione disperata sulla sua faccia, mentre le zanne fuoriuscivano dalle labbra socchiuse. «Taye, ti prego.»
«Zakhar!» esclamai, in un singulto agitato, strisciando col bacino più vicino a lui. Poi ricordai la nostra conversazione al ballo, la sera precedente, e mi bloccai. Strinsi le labbra. Non c'era niente - niente - che desiderassi più di lui in quel preciso momento. Lo desideravo, bramavo, pretendevo. Ma lui aveva detto che fossi come tutti gli altri... Incapace di dire di no. Un Omega qualsiasi, che proprio adesso si piegava davanti al calore per farsi scopare da un Alpha.
E io non volevo che pensasse questo di me. «... Vattene.» Perché altrimenti, non sarei riuscito a trattenermi in nessun modo possibile e lo avrei supplicato di farmi suo. Di marchiarmi.
Strinse forte i pugni intorno alle sbarre, fino a farsi sbiancare le nocche. «Taye, aprimi.» Strinse i denti: sembrava che fosse sul punto di piegare il ferro ed entrare attraverso alle grate.
«Va' via!»
Un lungo momento di silenzio pervase l'aria che ci separava. Pensavo che, a quel punto, mi lasciasse perdere, nonostante l'attrazione di un Omega in calore fosse troppo forte. Invece, prese un profondo respiro e sussurrò: «Perdonami.» Aveva la voce gutturale, graffiante, per via della lussuria che ci portava entrambi quasi ad impazzire. «Perdonami. Non avrei dovuto dire quelle cose. Se tu fossi un Omega come gli altri, avresti sposato uno di quegli Alpha e ora staresti già aspettando un figlio.»
Il Falco che chiedeva scusa? Il Falco che apriva il suo cuore in quel modo? Forse era una tattica per fregarmi e farmi aprire la gabbia. Eppure, non ne ero del tutto sicuro. «E se l'ho detto era perché... Ero geloso.» ammise, con un'aria rabbiosa, come un predatore ferito che si lecca la ferita ma non smette certo di andare a caccia per questo.
Ero geloso. Ebbi un tuffo al cuore. Sulle ginocchia, avanzai fino a raggiungere la porta della cella e mi ci aggrappai. Lui si inginocchiò per arrivare alla mia altezza e strinse le mani sopra alle mie, intorno alle sbarre. «P-perché?»
«Perché mi interessi più di quanto ad un suddito dovrebbe interessare il suo futuro re. Perché mi piaci troppo, principe dei sempliciotti.» disse, premendo il viso alla grata, ormai così vicino al mio che le nostre labbra potevano quasi toccarsi. Perché mi piaci troppo. Avevo il viso in fiamme e non era per il calore.
«Tu... avevi ragione. Ho sbagliato anche io. Mi.. mi sento così stupido.» ammisi, spingendo le guance contro le sbarre, al punto che le nostre bocche si sfioravano. «Non dovevo ricambiare le loro attenzioni... Perché quello che voglio sei tu.» Non importa quanto sia sbagliato.
Il Falco sorrise. Dopo, afferrò la chiave fra le mie mani, spalancò la porta della prigione e mi prese in braccio. Allo stesso modo, io gli saltai addosso, attorcigliando le cosce intorno al suo bacino e le braccia intorno al suo collo. Mi tenne sollevato con una mano, mentre usava l'altra per sbottonarsi velocemente i pantaloni. Le nostre bocche si erano già trovate - in automatico, come se non aspettassimo altro - e dopo aver inalato i suoi feromoni divini, adesso potevo assaggiarli direttamente dalle sue labbra, e dalla lingua che giocava con la mia.
Ero abbastanza sicuro che Zakhar avesse trovato un modo per disfarsi delle guardie all'entrata della prigione, giustificando la sua presenza nei sotterranei perché era la mia scorta. In ogni caso, non m'importava. Avrei pensato dopo agli altri Alpha, al responsabile che aveva drogato il mio cibo e al banchetto mandato a monte. L'unica persona di cui m'importava era fra le mie braccia.
Ero già abbastanza lubrificato perché potesse entrare dentro di me senza fatica, si limitò a divaricarmi meglio le cosce, spingendo. Schiena contro il muro umido, senza smettere di baciarci, penetrò completamente, fino a raggiungere quel senso di completezza, di perfetta comunione di corpi, sensi e feromoni. Il mio odore si mescolò al suo e le mie dita alle ciocche dei suoi capelli, che strinsi in due pugni, mentre prendeva a martellare ritmicamente.
Ogni colpo di fianchi era un gemito soffocato che riverberava nella gola di entrambi, ogni colpo erano lacrime di piacere che mi scendevano sulle guance. Avevamo questo modo di fare l'amore che ci contraddistingueva dalla normalità: lo facevamo sempre con fretta e disperazione, con desiderio animalesco, come avendo paura di venir separati, o di perdere quell'attimo.
Anche se, poi, finivamo sempre per farlo molte volte nelle ore successive. Come accadde anche stavolta. Ad un certo punto mi ritrovai a terra, a cavalcioni sopra di lui, che era seduto contro la parete e mi guardava con un sorriso di piacere e malizia, a godersi il momento, con le mani strette sulle mie natiche rotonde. Mi lasciava fare, mentre io ero l'unico a muoversi, in equilibrio sulle punte dei piedi, i talloni alzati e le dita sulle sue spalle muscolose.
Sembrava che il mondo si fosse fermato e non esistesse altro cosmo oltre quello contenuto in quella piccola cella. Avevamo raggiunto l'amplesso molte volte, e lui era venuto dentro di me e anche fuori. Eravamo entrambi troppo distratti l'uno dall'altro per preoccuparcene, ma di nuovo, ci saremmo preoccupati delle conseguenze l'indomani. O l'altro giorno ancora.
Quando finalmente gli appetiti di entrambi vennero completamente saziati, mi ritrovai steso sulla paglia accanto a lui, a riprendere fiato. Stordito, meravigliato e appagato, con la guancia contro il suo petto e una gamba intrecciata alla sua. «Pensavi davvero quello che hai detto?» esordii, un po' timoroso di ricevere risposta.
«Ogni parola.» disse, accarezzando lentamente la mia schiena. «Del resto, ti ho già detto che puoi fidarti di me. A te non mento mai.»
Curvai le labbra in un sorrisino, che si spense quando ricordai cosa volessi chiedergli quella sera, al ballo. «Dove sei stato in questi giorni?»
«Perché, ti sono mancato?» ammiccò, ed io arrossii, prima di lanciargli uno sguardo eloquente. «Avevo delle indagini da fare. Ho dei sospetti. Delle idee. Ma non chiedermi di condividerli ora, perché è troppo presto e, se avessi ragione, potresti tradirti.»
Mi drizzai frettolosamente a sedere. «Mi stai dicendo che sai chi è il colpevole e non vuoi dirmelo?!»
Mi tirò verso il basso, di nuovo steso su di lui. «Calmati. Ti sto dicendo che per ora è solo un'ipotesi... E comunque, se stanno cercando di incastrarmi per via delle piume nella bomba, significa che hanno notato il nostro legame. La nostra recita nel Formicaio è riuscita e ora vogliono farti dubitare di me. In quel modo, secondo loro tu mi avresti allontanato e saresti rimasto senza protezione...»
Ma il colpevole non sapeva quanto io e il Falco fossimo uniti. No, io non dubitavo di lui... Anzi, mi fidavo eccome. Anche se era da pazzi fidarsi del fuorilegge più famoso di Samarcanda. Era troppo tardi per tornare al "siamo nemici".
«L'attacco di oggi non era fatale, ma era sicuramente progettato per metterti nei guai. Umiliarti, o mettere in crisi il progetto di farti sposare uno dei sei Alpha. Chiunque sia il tuo attentatore, non agisce solo per una questione politica... E' personale, Taye.»
«Devo stare attento.» E, in realtà, avevo già in mente un piano per risolvere uno dei miei problemi. Senza saperlo, il mio attentatore mi aveva aiutato. Dopo un lungo momento di silenzio, aggiunsi: «Sai, anche io pensavo ogni parola che ho detto.» Sorrisi. "Quello che voglio sei tu."
Emise una risata bassa, suadente, una delle sue, che sapevano come farmi venire le farfalle nello stomaco. E poi, disse a bassa voce: «Non che avessi qualche dubbio.»
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