Regola n.3: muoviti con prudenza
Esistevano molti motivi per cui il Palazzo d'Estate aveva accumulato fama nel tempo. La ragione più evidente era dovuta alle meravigliose cupole e agli impressionanti mosaici che rivestivano le facciate del castello, su tutte le sfumature del verde e del turchese. Era un patrimonio artistico impressionante, numerosi stranieri raggiungevano Samarcanda solo per poterlo vedere. C'erano anche i lussureggianti giardini pensili e quelli botanici, che vantavano specie che non esistevano da nessun'altra parte del mondo.
E poi il cenote. Una grotta carsica collassata in se stessa, che ospitava un immenso lago il cui fondale era ricoperto di autentici smeraldi, perciò l'acqua cristallina vantava del loro bagliore, aumentato dai raggi solari che penetravano dal soffitto ad anello, a cielo aperto. Si trovava nei cortili del palazzo ed era accessibile anche attraverso i sotterranei: da secoli la famiglia reale la utilizzava per assecondare la propria natura.
Così facevo anche io, spesso all'alba, quando il sole era ancora una screziatura rosa fra le nuvole. Lasciai che la mia pinna disegnasse cerchi nell'acqua, confondendosi col suo colore, le scaglie celesti che sfavillavano in minuscole iridescenze arcobaleno ogni volta che raggi di luce mi baciavano la coda e la pelle scura. Mi immersi nel fondale, respirando attraverso le branchie nascoste dietro alle orecchie, il lago che mi filtrava attraverso i riccioli corvini e mi accarezzava le guance. Rilassato, in pace col mio elemento, riemersi per appoggiare le braccia alla riva ruvida.
Con la testa reclinata all'indietro, ammirai gli alberi affacciarsi dal tetto roccioso del cenote, poi abbassai le iridi. Il mio riflesso mi scrutava: occhi d'ambra dorata ricambiavano lo sguardo, mentre le labbra carnose se ne stavano corrucciate in una smorfia. Non c'era nient'altro da fare che leggere libri o restare lì a sguazzare.
Affinare le mie doti diplomatiche ascoltando i cittadini era davvero importante, per me, ecco perché ritenevo il divieto di uscire dal Palazzo di Smeraldo una punizione davvero ingiusta. Avevo tentato di sgusciare fuori di nascosto innumerevoli volte, ma le guardie mi stavano col fiato sul collo: evidentemente Tusajigwe sapeva che avrei cercato di eludere il suo ordine in ogni modo possibile. E ancora non mi ero arreso del tutto, sebbene mancassero pochi giorni alla fine della mia segregazione.
Sbuffando, feci forza sulle braccia e con un movimento del bacino mi tirai a sedere sulla riva, sbattendo la pinna per uscire dal lago, finché le scaglie non mi rientrarono sotto pelle e la mia coda non scomparve per lasciarmi le gambe nude e il pube scoperto. Ymir, l'unica guardia a restare lì in un momento tanto intimo - non esisteva alcuna traccia di pudore, fra noi - allungò un asciugamano ed io lo allacciai intorno al bacino.
«Ehi, bambino.» Mi rifilò un colpetto con due dita contro la spalla. «Non fare quella faccia. Presto le cose torneranno normali.» mi disse, cercando di essere rassicurante. Tirai le labbra in un flebile sorriso, scrollando le spalle. Normali, torneranno normali. Avrei voluto incidere quelle parole da qualche parte per ricordarmele.
⚜⚜⚜
Invece i guai se ne stavano acquattati dietro l'angolo come avvoltoi, in attesa di assalirmi. Ancora non sapevo che cosa sarebbe capitato, mentre sedevo intorno al grazioso tavolino di legno bianco, nella camera da letto - tutta sui toni dell'arancio e dell'oro - di Tamsin, mio fratello, ancora più piccolo di Taro: aveva diciassette anni, giovane abbastanza per stare lontano dai piani matrimoniali di nostra madre ancora per una decina di mesi.
Dopo anni ed anni di golosità sfrenata, nell'ultimo periodo evitava qualsiasi sgarro alla dieta rigida che si era fatto stilare dai cuochi di corte. Nonostante avessi chiesto il perché di tale scelta alimentare, lui non aveva mai voluto rispondermi. Perciò la sua magra colazione consisteva in una tazza di tisana al finocchio e una ciotola di carote, che sgranocchiava rumorosamente con una certa enfasi, facendo arruffare le piume del suo parrocchetto verde pisello, seduto sulla sua spalla.
Lunghissime treccine - gli arrivavano fino a metà schiena - dipinte di vari colori grazie ad erbe tintorie spiccavano contro alla pelle nera, incorniciandogli adorabilmente il volto paffuto. Lo trovavo il più grazioso, nonché il più vivace fra noi, ma aveva la costante insicurezza riguardo la propria forma fisica, specialmente per via del grande successo che nostra sorella suscitava nel regno.
La popolare Tahani, l'omega angelica che ogni uomo o donna a Samarcanda avrebbe desiderato. Perfino le nostre madri la osannavano: era perfetta sotto ogni punto di vista, secondo loro. Il fatto che si fosse fidanzata con uno degli uomini più potenti del regno e che il matrimonio si sarebbe celebrato a breve, era una delle ragioni per cui Tusajigwe la apprezzava. Non sapevo quante volte l'avevo sentita brontolare: "Ma perché non potete essere come vostra sorella?!"
Io alzavo gli occhi al cielo e lasciavo che la cosa mi scivolasse addosso, pur sapendo che mia madre avrebbe voluto fosse lei, la principessa ereditaria. Ovviamente non poteva essendo la seconda figlia. A me non importava, ma sapevo che Tamsin si sentiva inferiore. Taro generalmente se ne infischiava, vivendo nella sua vita mondana tutto lusso e storielle da una notte. Chissà che cosa ne pensava del matrimonio imminente di Tahani, ora che era stato costretto anche lui a sposarsi, per di più lontano da casa.
«Vediamo un po'... Leggiamo il tuo oroscopo, fratellone.» sogghignò Tam, arrotolando il quotidiano che stringeva in una mano alla pagina interessata, nascondendo la copertina dove troneggiava il bel faccino di nostra sorella, affiancato dai grandi titoli che dichiaravano le sue nozze al paese. «Ecco qui, il segno dell'abete!»
«Ma come fai a credere a certe sciocchezze?» ridacchiai, spiluccando un biscotto secco, ignorando la tazza fumante di latte e caffè che un servo mi aveva messo davanti qualche minuto prima.
«Sssh, zitto e ascolta. Hai quattro stelline!» strillò, con il pappagallino che si mise a fargli il verso "quattro stelline! Quattro stelline! ". Alzai le mani in segno di resa, scuotendo la testa esasperato, mentre lui abbassava la tazza di tisana e si schiariva la voce. «L'inizio del mese non è dei migliori per voi abeti, la natura vi è avversa. Uuuhh-» cacciò un urletto falsamente dispiaciuto e proseguì. «Qualcuno vi darà contro, avversità oscure gravano nel vostro orizzonte, ma il nodo si scioglierà quando lo spirito del Pavone entrerà nel vostro segno.»
«Ptfff..» Sghignazzai a bocca chiusa, masticando, mentre Tamsin metteva su un'espressione maliziosa e compiaciuta, ammiccando con le sopracciglia.
«L'amore è il vostro rimedio e il vostro segreto. La seduzione gioca col vostro cuore e la libido col vostro corpo. Se sarete perseveranti, otterrete soddisfazioni che mai prima d'ora avete avuto dal destino!» concluse, battendo le mani. «Voglio proprio vedere se il cuore di ghiaccio del mio fratellone sarà in grado di sciogliersi grazie a questo Signor Destino.» esclamò, ricominciando a rosicchiare carote. "Signor Destino, Signor Destino!" ripeté il parrocchetto, mentre io rimanevo a bocca aperta, pur con un principio di sorriso sulla faccia.
«Ehi! Non ho il cuore di ghiaccio!» lamentai, accigliandomi, anche se con una certa ironia. Davo realmente quest'impressione?
«Mphf, sei così serio!» sospirò, alzando gli occhi al cielo, appoggiando il giornaletto di dubbio gusto sul tavolo.
«Ho solo altre priorità...» mugugnai, non riuscendo a fermare lo svolazzare del pappagallino altrui, che si era separato dalla spalla di mio fratello per appoggiare le zampette all'orlo della mia tazza. «Ehi!! Dannato-» Mossi le mani per scacciarlo, ma il volatile aveva già infilato il becco avido dentro al latte. «Uccellaccio malef..» Le parole mi morirono sulle labbra.
La stanza piombò in un silenzio improvviso, finché mio fratello non si alzò in piedi, tanto velocemente da far cozzare lo schienale della sedia contro al pavimento, mettendosi ad urlare.
«OH CIELO! PER TUTTI GLI SPIRI PROTETTORI!!» gridò, agghiacciato, mentre un manipolo di guardie irrompeva nella camera da letto, attirate dal baccano, Ymir davanti a tutti quanti, con la spada sguainata.
«Che sta succedendo?!» esclamò esaminandoci dalla testa ai piedi, mentre il mio dito tremante indicava il tavolo.
Il parrocchetto era steso di schiena accanto alla mia tazza, stecchito. Dal becco semiaperto colava una piccola pozza di sangue che aveva macchiato le pagine della rivista. Non riuscivo a distogliere lo sguardo dal cadavere rigido dell'uccello, con i brividi che mi correvano dalla testa ai piedi.
«Ha bevuto nella mia tazza...» mormorai, sentendomi per un attimo mancare, tanto che mi girò la testa e dovetti sedermi sul ciglio del letto di Tamsin, per riprendere fiato. Qualcuno mi mise fra le mani un bicchiere d'acqua, che io osservai orripilato.
«È sicuro, ho bevuto prima di te.» avvisò la scorta, seduta al mio fianco, con un braccio intorno alle mie spalle. Non riuscii comunque a bere, nemmeno a calmare i tremori. Che sarebbe successo se avessi bevuto io dalla tazza? Se il pappagallo di Tam non mi avesse salvato la vita... Mi si contrasse lo stomaco. «Hai visto chi ti ha portato la tazza? Tutto viene sempre controllato quando esce dalle cucine. Una cosa del genere non può essere sfuggita.» La donna si massaggiò la radice del naso.
«No... Non ci ho fatto caso...» sospirai, stringendo forte la mano intorno al bicchiere. Parlavo spesso con i servitori, ma se ne aggiungevano sempre di nuovi, per cui era difficile stare al passo con le facce. Alcuni si muovevano tanto discretamente che nemmeno mi rendevo conto dei loro spostamenti. Come questa volta.
Prima il rapimento, poi la tazza di latte avvelenato... «Ymir, se diciamo una cosa del genere a mia madre...» Non volli completare la frase, angosciato. Sarebbe stata una catastrofe. Non mi avrebbe mai più fatto mettere piede fuori dal palazzo. E questa poteva essere l'ipotesi migliore.
«Non possiamo tacere una cosa simile, Taye.» sospirò. «E poi, è un'informazione alla portata di tutti, ormai.» Accennò col mento alla frotta di guardie e servi entrati per via del baccano. Lo sapevamo, le voci a corte correvano velocissime, avrebbero raggiunto presto la città. «Finché non sapremo la volontà della regina Jelani, ti prego di muoverti con prudenza.»
Abbassai la testa, sconfitto. Se qualcuno mi avesse chiesto, a posteriori, da dove cominciava la mia storia, avrei senza dubbio indicato questo momento nel tempo. Perché da qui in poi, molte cose sarebbero cambiate.
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