Regola n.28: non guardare
Un grido violento spaccò l'aria, vicino abbastanza da svegliarmi di soprassalto, col cuore che pulsava frenetico contro le costole e il sudore freddo che mi colava sulla pelle. Lenzuola beige mi si incastravano fra le gambe mentre le prime luci dell'alba penetravano dall'ampia finestra della stanza di... Un momento.
Mi guardai intorno, sentendo la testa pesante, come se avessi dormito troppo, oppure troppo poco. Gli eventi della sera precedente mi inabissarono in una scura coltre di umiliazione, tensione, rabbia e paura. Fin dove si sarebbero spinti per uccidermi? E perché farlo, se tutti si aspettavano che, esattamente come i principi ereditari venuti prima di me, mi sistemassi sposando un Alpha, lasciando lui a regnare? Per qualcuno, evidentemente, ero una minaccia.
I miei occhi vagarono all'interno della camera da letto, ripercorrendo mentalmente quello che era successo prima che arrivassi lì. Dopo che ero stato portato in infermeria e le mie ferite medicate, un sacco di gente aveva raggiunto il mio capezzale: Tamsin, Tahani, mia madre Dafne, il ciambellano, Akia e i due principi, Shun e Rajat. C'era stato un intensissimo via vai, finché non era giunta la notizia che la mia scorta si era fatta scappare lo squalo mannaro fuori dalle mura di Samarcanda.
Dopo il modo in cui quel miserabile aveva giocato con la mia vita e mi aveva svergognato davanti a tutta la corte, la notizia era stata un colpo duro da incassare. Avevo cacciato tutti, non avevo voglia di rispondere alle domande dei miei fratelli minori, né alle pressioni del ciambellano mandato dalla regina. Non ero nemmeno nel giusto stato mentale per ringraziare gli Alpha della preoccupazione provata nei miei confronti.
L'unico a cui avevo concesso di restare era Jörvar. Il Lupo Bianco, col suo rigido autocontrollo e il suo polso fermo, esercitava un incredibile potere calmante su di me. Il suo bacio era ancora stampato nella mia testa - e sulle mie labbra - piuttosto indelebilmente. Era stato un gesto di conforto, tutt'altro che lussurioso, ma restava comunque un bacio. Quel genere di bacio che non sapevo bene come razionalizzare, se paragonato a tutto quello che avevo fatto con Zakhar.
Comunque, l'idea di dormire da solo mi spaventava e, l'ultima cosa che volevo, era farlo con le mie madri come un bambino piccolo. Ecco com'ero arrivato lì: nel letto di Jörvar, avvolto fra le coperte che avevano l'odore dei suoi feromoni, qualcosa di simile al mentolo e al ginepro nero. Il generale del nord era rimasto seduto in poltrona, molto vicino a me, a guardarmi passare frequentemente dalla veglia al sonno, quasi sorvegliandomi.
Non si era mai avvicinato al letto, visto che il lato al mio fianco era ancora intatto, anche adesso che mi ero appena svegliato. Intontito da quegli schiamazzi, mi guardai intorno per capire da dove provenissero le urla d'orrore che mi avevano appena svegliato. Urla d'orrore. Il cuore mi si strinse dalla paura, davanti a tantissimi scenari diversi, ma si calmò immediatamente quando notai Jörvar in piedi di fronte alla finestra.
Doveva essere andato a lavarsi in una delle tante sale da bagno del palazzo, perché i capelli biondi, lunghi sino alle spalle, erano ancora umidi e gocciolavano lungo la blusa bianca che tirava sulle spalle larghe. Un refolo di vento caldo penetrò dalla finestra aperta e gli scostò le ciocche color platino dal viso, permettendomi di vedere i suoi occhi di diamante assottigliati. Fissava intensamente l'esterno, lì da dove prevenivano grida femminili.
Scattai giù dalle lenzuola, con le gambe e la gola avvolte dalle fasciature e una tunica di lino a farmi da camicia da notte, avanzando rapidamente verso l'Alpha. «Che sta succedendo?» domandai, teso, allungando il collo oltre la sua schiena per scorgere cosa stesse accadendo fuori, metri più in basso rispetto alla finestra. Il Lupo Bianco si mosse in fretta, ruotando su se stesso e ponendosi fra me e il davanzale per celarmi la scena con le sue spalle.
«E' meglio che lasciate perdere e tornate a dormire.» disse, con voce ferma e dura, puntando gli occhi chiari sul letto. Esaminai i suoi lineamenti affascinanti, la fossetta sul mento, i tratti nordici e taglienti e le sopracciglia inarcate in un'espressione perennemente determinata, forte, decisa. Nonostante tutto, non mi sarei lasciato comandare.
«Che sta succedendo?» ripetei, calcando sulla frase, mentre l'agitazione mi si attorcigliava dentro come un gomitolo di cobra sibilanti. Cercai di oltrepassarlo, ma il biondo mi sbarrò la strada spostandosi lateralmente. Che diavolo stava cercando di nascondermi?
«No. Non dovete guardare.» esclamò, perentorio, avviluppandomi un polso con la grande mano. Davanti a quell'ordine impartito con urgenza, come se fosse meglio per me prestargli ascolto, mi divincolai alla stretta e lo superai con un movimento rapido che lui mi concesse perché, se avesse voluto realmente trattenermi, ci sarebbe riuscito senza problemi.
Mi posi di fronte alla finestra, potendo scoprire finalmente la colpevole di tanto caos. Era stata una serva: la cesta della biancheria era rovesciata sul prato del giardino e la povera donna era da poco svenuta, benché tempestivamente soccorsa da una manciata di guardie, a cui se ne aggiunsero molte altre, tutte accalcate intorno alla ragione per cui la donna stava urlando.
Sentii la mascella cedere e la bocca spalancarsi, man mano che i miei occhi si spostavano e registravano la scena. Sangue. Oh spiriti, il sangue.
Il prato ne era completamente macchiato e copiosi rivoli rossi rigavano i cancelli che separavano il Palazzo D'Estate dal resto della città. Essi erano alti, fatti di muratura in pietra gialla e porosa e decorati con mosaici turchesi e smeraldini. Per impedire che qualsiasi tipo di nemico li scavalcasse, sulle sommità delle mura erano piantate delle inferriate, picche affilate che scintillavano d'oro.
E proprio lì, dalle inferriate, penzolava lo squalo mannaro che soltanto la sera prima aveva tentato di uccidermi. Se ne stava a bocca esageratamente spalancata, con le due file di denti aguzzi esposte e una picca affilata che sporgeva fra di essi. Aveva la punta del cancello infilzata nella parte molle sotto al mento e gli spuntava dalle labbra.
Era stato impalato al cancello e appeso per la bocca, col resto del corpo a dondolare come un panno steso e messo lì ad asciugare. C'era così tanto sangue che immaginavo fosse morto per dissanguamento, non perché fosse stato infilzato... Doveva essere stata una morte difficile. Di quelle lente e terribili e agonizzanti. Col suo sangue, era stato scritto sulla pietra chiara delle mura, a lettere cubitali:
"LUNGA VITA AL FUTURO RE DI SAMARCANDA, LUNGA VITA A TAYE OKORO"
E lì vicino, dipinte da ditate rosso sangue, c'era un paio d'ali. Le stesse che avevo visto disegnate sul soffitto del Casinò Amaryllis. Le stesse che avevo fatto incidere sulla mia porta, quando ero piccolo. Le ali di un falco. No, le ali del Falco.
Barcollai all'indietro, orripilato e con un conato di vomito che mi saliva dal fondo della gola e restava fortunatamente bloccato nell'esofago. Una mano mi scivolò sul volto e mi coprì gli occhi, schermandomi la vista, bloccata su quel cadavere ammazzato così brutalmente.
«Per questo dicevo di non guardare.» sussurrò Jörvar al mio orecchio, spingendomi via dalla finestra ma contro il suo corpo, la mia schiena incollata al suo petto, mentre il rumore delle tende che venivano tirate mi raggiungeva le orecchie. Le gambe però mi tremavano come gelatina e l'unico motivo per cui ero ancora in piedi, era perché il biondo mi sorreggeva.
Non riuscii a spiccicare parola. Ero solo in grado di pensare: con chi diavolo avevo avuto a che fare fino ad ora? Mi ero lasciato incantare, ammaliare e stordire. Mi ero lasciato ingannare dai suoi mille trucchi e avevo accantonato l'evidenza, ovvero che fosse un criminale assetato di sangue. Pericoloso e senza scrupoli. E tutto per lussuria.
Ma - stupido che non ero altro - avevo dimenticato che Zakhar fosse pur sempre il Falco. Era uno dei peggiori cattivi della storia, uno da tenere il più lontano possibile da me. Per una durata di tempo che andava dal "per sempre" al "per l'eternità". Avrei dovuto ricordarmelo.
⚜⚜⚜
«Il mannaro che vi siete lasciati scappare è stato ucciso davanti alle mura del palazzo, MA DOVE DIAVOLO ERANO LE SENTINELLE? POSSIBILE CHE SIATE TUTTI COSI' INCOMPETENTI?!» La Regina Jelani stava urlando come un'invasata e la sua voce tonante risuonava per tutto il corridoio, mentre venivo scortato fino alla Sala d'Amministrazione da un gruppo di guardie così pesantemente armato da far quasi ridere. Era passata ormai l'ora di pranzo - anche se non ero riuscito a mangiare niente - e adesso veniva il momento peggiore di tutti. Fare i conti con mia madre.
«ALZATE LA DANNATA TAGLIA SULLA TESTA DEL FALCO, SE DEVO SPENDERE TUTTO IL DENARO NELLE CASSE DEL REGNO PER CATTURARLO, LO FAREMO!» continuò a gridare, proprio mentre superavo l'ingresso e notavo il modo in cui le vene sul suo collo e sulle sue tempie si erano ingrossate fin quasi a schizzarle fuori dalla pelle. Era furiosa e, in verità, era comprensibile: in breve tempo qualcuno aveva cercato di uccidermi, due volte. I miei attentatori erano scampati, due volte, di nuovo.
E, in qualche modo, spuntava sempre fuori il nome del Falco, che non si capiva bene da che parte fosse, pur riuscendo comunque a mettere in discussione l'autorità della corona, coprendola di ridicolo. In una notte, aveva rintracciato e ammazzato il criminale che la mia scorta si era fatta sfuggire. Come se non bastasse, lasciava messaggi ambigui che sembravano favoreggiare un Omega al potere, atto impossibile ed impensabile per il Regno di Smeraldo.
Gli Omega non stavano al potere. Mai. Non importava il sangue blu degli Okoro.
«Ah, Taye.» sembrò finalmente notarmi, acquietandosi. Per una volta tanto, non ce l'aveva con me. «Siediti.» Accennò con la mano ingioiellata alla poltrona di fronte al suo scrittoio e con cautela mi accomodai.
«Non vi siete resa disponibile quando ho detto al vostro ciambellano della situazione di Taro. Siete a conoscenza del fatto che mio fratello, vostro figlio, sia in grave pericolo?» esclamai, cogliendo la palla al balzo, forse non nel momento migliore... Ma che scelta avevo?
«Dacci un taglio, moccioso. Abbiamo problemi peggiori e tuo fratello sta bene dove sta.» ringhiò, tornando a mostrare evidente collera, stavolta nei miei confronti. Mi zittii. «Preoccupati di te stesso, piuttosto.» Esalò un profondo, grave sospiro. «Non ho tempo per le chiacchiere oggi, perciò andrò dritta al punto.» Mi irrigidii, ignaro di cosa potesse volere da me. «Ti avevo detto che avrei trovato una scorta che fosse degna di questo nome.»
«Sì, certo, ma non mi serve nessuno che non sia Ymir... Sapete anche voi che ha fatto un ottimo lavoro per ventitré anni.» cercai di argomentare le mie ragioni, ma mi lanciò un severo sguardo d'avvertimento, che stava per "non un'altra parola".
«Se tu non fossi così restio a sposarti, forse non avresti nemmeno bisogno di una scorta.» mi ricordò, sprezzante. «Ma visto che hai voluto metterti tu in questa situazione» parlava della scelta consapevole di un marito, uno che fosse forte abbastanza da proteggermi «trovarti una nuova guardia finché non scegli il tuo consorte è inevitabile. Ebbene, visti i recenti sviluppi, ho preso velocemente in esame i candidati e ho fatto una scelta tempestiva, ma che suppongo sia la più giusta.»
Intrecciò le dita ingioiellate sopra la scrivania, lanciando bruschi cenni del mento alle guardie nelle sue vicinanze. «Fatelo entrare.»
Rumore di stivali, fruscii di passi, porte che venivano aperte e poi richiuse. Incrociai le braccia, fissando mia madre e non guardando nella direzione dell'uomo appena entrato, per rendere chiaro il mio disinteresse circa la faccenda. Se la Regina non voleva assumere di nuovo Ymir, non mi sarei impegnato per renderle le cose facili.
Ma poi lo sentii. Quell'odore. I miei occhi si spostarono dalla donna dietro alla scrivania all'uomo che, proprio ora, si era profuso in un esagerato inchino, verso di lei e verso di me. Indossava abiti neri, pantaloni aderenti e una casacca chiusa fino al collo da una fila di cinghie poste al centro del petto. Quando si rialzò, i suoi occhi mi erano incollati addosso.
«Taye, ti presento la tua nuova scorta, Zavlian.» disse mia madre, mentre l'uomo si poneva alle spalle della Alpha e, celato alla sua vista, mi rivolgeva un sorriso diabolico e seducente.
«Sarà un vero onore vegliare su di voi.» esordì il Falco in persona, che era proprio nel cuore del Palazzo, mentre un sacco di guardie, in quello stesso momento, gli davano la caccia.
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