Regola n.22: resisti al calore


Quello che era successo al Casinò Amaryllis aveva lasciato stupefatti molti e le testate giornalistiche non avevano fatto altro che parlarne. Io, tutto al contrario, stavo cercando di fare finta che non fosse successo niente, mentre ingollavo sempre più inibitori, con la speranza di tenere a freno il calore imminente.

Le mie madri però erano infuriate. Il Falco, non si sapeva come, l'aveva fatta sotto al naso di tutti. Buttafuori, guardie, reali e Alpha, che si supponeva dovessero proteggermi e stare attenti a ogni cosa che mi ruotava attorno. Non che mi fosse successo niente, per quanto ne sapevano loro. Ero solo caduto in un tranello da sciocchi e ora ne andava di mezzo la sicurezza della mia virtù. Forse ero davvero il principe dei sempliciotti, come mi riteneva quel criminale.

Eppure, era passato qualche giorno e il Falco non era venuto a reclamare la sua vittoria. 

Inutile dire che fossi estremamente sollevato dalla cosa. Per la precisione, una parte di me era sollevata. L'altra si sentiva irrequieta, piena di un senso d'urgenza inspiegabile, come se si aspettasse qualcosa da un momento all'altro. Quella parte quasi ci sperava. Poi tornavo in me e mi rendevo conto, lucidamente, che dovevo fare quanto in mio potere per tenere lontano quel farabutto. 

Era stato un pensiero forse futile, ma avevo chiamato un artigiano. Avevo dovuto soffocare ogni reticenza per convincermi a cancellare l'intaglio dettagliato a forma d'ali sulla porta della mia stanza, trasformandolo in un'imponente coda di tritone. Le piume erano state cambiate in scaglie e il disegno d'ali si poteva notare sotto al nuovo solo se ci si prestava particolare attenzione, sapendo che cosa cercare. 

Ancora non capivo come fosse possibile quella coincidenza: perché da piccolo avevo fatto intagliare quelle ali, così simili alla firma del Falco? Forse le avevo viste su un giornale che parlava delle sue malefatte e avevo preso spunto? No, non era possibile. All'epoca avevo pochissimi anni e il Falco non doveva nemmeno esistere, sarebbe stato troppo piccolo per andare in giro a spaventare Samarcanda.

Ma allora, come?

Mi ci arrovellai su per i pochi giorni che mi restavano a palazzo. Poi, arrivò il momento di allontanarmi. Mia madre, alla luce di ciò che era successo, non sembrava molto convinta all'idea di farmi scarrozzare in una delle tante residenze vacanziere di famiglia. Tuttavia, gli Alpha stavano iniziando a diventare piuttosto irrequieti: per quanti inibitori prendessi, loro sentivano comunque che i miei feromoni aumentavano. Sentivano che li chiamavano. 

Prima d'ora, il mio calore non era mai stato così intenso. Invece, questo mese non si era ancora scatenato del tutto, nonostante ciò non riuscivo a controllarlo nemmeno coi medicinali. Era come se il mio corpo si fosse risvegliato da un torpore durato anni e ora facesse tutto ciò che gli pareva. 

Perciò, mia madre non aveva altra scelta che mandarmi lontano dal palazzo, prima che i miei pretendenti mi saltassero addosso causando irreparabili danni diplomatici. Un futuro Re che stuprava l'attuale principe ereditario? Era la fine dei piani della Regina. 

Ecco perché mi trovavo in viaggio verso la Residenza Pavone, ad un giorno di distanza da Samarcanda, in un punto a nord fra i deserti rocciosi e cristalline oasi punteggiate di verde. La meta era la città di Bukhara, dove molti nobili avevano la loro villa sfarzosa in cui trascorrere le vacanze. Nella dimora reale la servitù era unicamente beta e c'erano camere allestite appositamente per permettermi di superare il calore attraverso l'uso di... Be', oggetti particolari.

Non che ne avessi mai avuto bisogno. Era una questione di principio: potevo tenere a bada da solo i miei impulsi più bassi. Non mi servivano attrezzi di alcun tipo per riuscirci. Bastavano le medicine e la giusta dose di tenacia.

Ma, da quando eravamo partiti, iniziavo a nutrire forti dubbi in merito. Non mi ero mai sentito così. Come se il mio corpo, ogni minima parte, ogni singola fibra del mio essere, andasse a fuoco. Era quasi doloroso, di un dolore che mi faceva fremere le membra e provare brividi caldi e freddi al tempo stesso. Nella confortevole carrozza rivestita di fresco lino, stavo continuando a sudare copiosamente.

Un convoglio di dodici guardie, tre per ogni lato della vettura, arrestava spesso il cammino per darmi dell'acqua, per farmi prendere una boccata d'aria o per cambiare il ghiaccio nella borsa di stoffa con cui mi stavo tamponando da ore. Rifuggivo i loro sguardi ma, quando commettevo l'errore di ricambiarli, notavo in loro un accenno di imbarazzo e di desiderio mal trattenuto. Anche se erano beta, ai loro occhi dovevo apparire proprio nel peggiore dei modi.

Disperatamente, inevitabilmente eccitato, bramoso di contatto. 

Mi azzannai il labbro inferiore tanto forte da lasciare il segno, accucciandomi in posizione fetale e spingendo la testa fra i cuscini della carrozza. Non pensare. Non desiderare niente. Puoi resistere. Puoi resistere al calore. Le mie frasette motivazionali non funzionavano. Une delle regole fondamentali, secondo la Rivendicazione degli Omega, era proprio quella di resistere al calore. 

"Se ci riesci, poi non hai più bisogno di un Alpha!" diceva una frase emblematica del libro. 

Era tanto facile a dirsi, però la realtà era diversa. Nella mia realtà, non riuscivo neanche a pensare. Continuavo a muovermi come un pesce fuor d'acqua e, in quella spasmodica agitazione, il mio corpo strusciava contro ai sedili della carrozza in cerca di una pace che non sarebbe arrivata tanto presto. Annaspai, sventolandomi con le mani, mentre mi tamponavo la borsa del ghiaccio sulla faccia, sul corpo, perfino fra le gambe.

Soprattutto fra le gambe.

«Nngh...» gemetti, strusciando il cavallo dei pantaloni contro un cuscino. Ma che senso aveva trattenersi? Che senso aveva resistere? Perché mi stavo torturando in quel modo? Mandai al diavolo tutto. Mandai al diavolo il mio buon proposito di frenarmi. Mandai al diavolo quella sofferenza e quel bisogno atroce. Mi addentai il labbro inferiore, trattenendo il respiro, mentre infilavo una mano dentro ai pantaloni e...

E in quell'istante, uno scossone fece fermare la carrozza.

Tornai lucido, battendo con forza le palpebre. Mi affacciai col viso paonazzo fuori dal finestrino, riprendendo fiato. «Che succede? Perché ci siamo-»

«Tornate subito dentro!» esclamò la guardia a cavallo, appostata proprio al mio fianco, con un tono allarmato che mi fece venire la strizza. Ebbi solo il tempo di rendermi conto che il sentiero roccioso davanti a noi, infilato fra due gole strette, era stato sbarrato da tronchi d'albero e massi, prima di ritornare all'interno della vettura. Probabilmente erano detriti venuti giù col vento, non c'era niente di cui preoccuparsi. Avrebbero presto rimosso tutto e il viaggio sarebbe continuato senza intoppi.

Poi però iniziai a sentire il clangore di metallo delle armi. Il fischio delle spade sfoderate, le imprecazioni ringhiate, le grida che riecheggiavano in mezzo all'insenatura in gigantesche eco. Con il cuore in gola, mi affacciai per sbirciare dalle tende di lino cosa stesse succedendo. Mi accorsi velocemente che le guardie si stavano battendo contro uomini con le facce semi-nascoste da bandane. Uno di loro infilzò con un machete lo stomaco della guardia che mi aveva parlato. Liquido denso e rugginoso schizzò sulla tenda, sporcandomi la guancia. 

«Co-cosa..?» balbettai, pulendomi la pelle con le dita. Quando mi guardai i polpastrelli, li trovai sporchi di sangue. Trasalii.

Immediatamente, mi accucciai in basso, seduto a terra sul fondo della carrozza, con le mani premute contro le labbra e gli occhi sgranati. Dei briganti stavano attaccando la carrozza. Ricordai all'improvviso gli ostacoli ammassati davanti al sentiero: non era un semplice attacco, era un'imboscata. 

Con un'improvvisa e fulminante consapevolezza, capii. Erano venuti per me.

Ansimai, il corpo che era un fascio di nervi, paura ed eccitazione. Ero ancora bollente e bisognoso di attenzioni, la peggior cosa in un momento simile, perché non riuscivo a pensare in maniera razionale, né ad avere totale controllo sul mio fisico. Se avessi avuto bisogno di scappare, di certo non ne sarei stato in grado. Avevo le gambe molli, quasi fossero fatte di burro. A stento riuscivo a respirare correttamente.

Ma le mie erano guardie addestrate, ed erano anche tante: non dovevo preoccuparmi. Presto sarebbe finito tutto. Eppure, in quella spaventosa manciata di minuti che seguirono - così brevi ma così eterni - le grida che sentii non mi fecero intuire chi fosse il vincitore e chi il vinto. Sul pavimento della carrozza, mi attirai le ginocchia al petto, deglutendo il groppo in mezzo alla gola. Faceva così caldo. Si soffocava lì dentro. 

Il portellone si spalancò. «Ah!» Solo un sospiro esalato forte, di sollievo, aspettandomi di incontrare gli occhi delle mie guardie. Una mano mi afferrò per i capelli e con un singolo strattone mi trascinò fuori, buttandomi di schiena contro la ghiaia ruvida. Mugolai di dolore, puntellando il peso del corpo sui gomiti, mentre affrontavo il mio aggressore: un uomo dagli unticci capelli biondi e una bandana sollevata fin sopra il naso. Il tizio col machete sporco di sangue.

Intorno a me, tutta una serie di corpi riversi a terra in pozze di sangue mi fecero venire la nausea: con il calore, gli odori e le sensazioni aumentavano. Riuscivo a sentire l'odore dolciastro e metallico del sangue che mi pungeva il naso mentre la nausea mi assaliva, forte almeno quanto la paura e il bollore nel mio corpo.

Ansimai, chiudendomi a riccio su un fianco. «C-che vo-vo-volete..?» boccheggiai, senza fiato. 

Altri briganti mi accerchiarono, troneggiando sopra di me. «La tua testa, dolcezza.» rispose il biondo, accarezzandomi la faccia col bordo non tagliente della lama. 

Il mio cuore fece una capriola, piombando dalla gola fin sotto alle scarpe, mentre iniziavo a tremare come un pazzo, realizzando che non avevo via d'uscita. Che non c'era nessuno lì, su quel sentiero. Che sarei morto da solo e nessuno lo avrebbe saputo prima di qualche giorno. Il terrore mi fece girare la testa e mi mozzò il fiato. 

Avevo sottovalutato il fatto che qualcuno mi volesse morto. 

Provai ad alzarmi in piedi, cercando di sfruttare l'effetto sorpresa per scattare verso gli alberi e tentare di fuggire. Fu tutto inutile. Le gambe non rispondevano ai comandi: faceva così caldo e le mie membra dolevano. Quel bisogno incontenibile di piacere era come un pugno nello stomaco, in un momento così disperato. 

«Guardalo poverino, è in calore!» sogghignò un altro armato di ascia, inginocchiandosi al mio fianco per guardarmi da vicino. «Non dovremmo alleviare le pene del piccolo omega prima di decapitarlo?» Fece strisciare una mano sui lacci che mi chiudevano i pantaloni. «Aaah, voglio fotterlo così tanto!»

«Non... toccarmi.» gemetti, sputandogli dritto in faccia. Meglio morire con dignità che farlo nel peggiore dei modi. Riuscii a vedere la smorfia rabbiosa che gli si disegnò sul volto anche con la bandana a coprirglielo. 

«Stronzetto di merda...» Sollevò l'arma. La lama scintillò sotto al sole pomeridiano: strizzai gli occhi, cercando di non lasciarmi andare ad un grido disperato. Ma non fui io ad urlare. Il depravato si era ritrovato un pugnale in un occhio. Un pugnale che era arrivato dritto dal cielo.

«Cazzo! E' quel bastardo del Falco!» gridò un brigante, mentre l'ombra gigantesca di un paio d'ali ci sovrastò, piombando dall'alto. «Via, VIA!» I criminali cercarono di disperdersi, ma uomini vestiti di pelle nera si riversarono dentro alla gola, spuntando dagli alberi o da entrambe le parti del sentiero. Acciuffarono i banditi in fuga e come una forza schiacciante li spazzarono via. 

Ansimai, prono sulla ghiaia, guardando a pochi metri da me quell'uomo bello come il peccato, armato e con le ali spalancate, che veniva tenuto fermo da tre dei suoi compari, mentre mi fissava. I muscoli gonfi erano talmente tesi che gli si vedeva ogni singola vena in rilievo, mentre digrignava i denti e cercava, esattamente come me, di resistere a quella sensazione. A quel richiamo. 

Il mondo, all'improvviso, era come svanito. I combattimenti che infuriavano. I corpi intorno a noi. Le armi e le voci e il sangue e la porta spalancata della carrozza. Eravamo solo io e lui, mentre tutto il resto era scomparso. Solo io e lui, che ci osservavamo mentre i suoi occhi mi divoravano con una tale voracità da farmi gemere e i miei sembravano implorare, pregare, anche solo per una carezza. 

«Torturateli finché non sapete qualcosa. Non mi interessa se ci vorranno giorni.» ringhiò, con una voce talmente gutturale che sembrava  completamente animale. Poi si liberò con due strattoni violenti e si fiondò su di me: mi afferrò per i fianchi e spiccò il volo.

La potenza di quel gesto mi tolse il fiato. 

Roteammo nel cielo così velocemente che la forza di gravità mi spinse contro di lui, mentre sbatteva le ali e il vento mi scompigliava tutti i capelli. Fu talmente rapido ed irruente che l'atterraggio fu più uno schianto: circondò il mio corpo con i suoi arti piumati per proteggermi e rotolammo sulla sabbia, sul ciglio di un'oasi lussureggiante, con l'acqua che sembrava di cristallo e gli alberi con le chiome verde smeraldo. 

Stesi e con le gambe intrecciate, troneggiò sopra di me, le braccia tese e le mani ferme ai lati del mio viso, a serrarmi i polsi sottili. «C'è una linea molto netta che mi divide da quei balordi.» esalò, con la voce arrochita dalla cupidigia e gli occhi che lampeggiavano di desiderio violento. Mugolai, la pelle scura che avvampava e scottava, le labbra schiuse che boccheggiavano, l'erezione che spingeva dolorosamente nei pantaloni. 

«Io non stupro nessuno.» sentenziò, sempre in un ringhio, che esprimeva tutta la forza con cui si stava trattenendo dal ghermirmi proprio in quel momento. Doveva avere una determinazione folle. «Perciò dimmelo. Dimmi che mi vuoi.» Si sporse su di me, le labbra sul mio collo, sul lobo del mio orecchio. A malapena respiravo. «Dillo.»

No. Resisti. Resisti al calore. Resisti

Ma lui era così vicino. Il suo odore da capogiro. Il suo corpo muscoloso e possente. I suoi occhi perforanti e intensi. La sua voce profonda e le sue mani callose. Non potevo resistere. Anche se sapevo quanto era sbagliato. In quel momento, non m'importava. 

«Sì.» soffiai, inarcando il bacino per strusciarmi disperatamente contro di lui. «Ti voglio.»

E il Falco sorrise.  

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