Regola n.21: riconosci il bluff
Il Falco era esattamente come l'alcol: ti dava alla testa e ti spingeva a fare cose stupide di cui ti saresti pentito. Qualcosa da assumere a piccoli sorsi per non infiammarti del tutto lo stomaco, oppure da bere in un sol colpo per non sentire il fuoco lambirti la lingua. Non volevo essere colto impreparato anche questa volta, perciò mi avvicinai a lui con cautela, accomodandomi sulla sedia di fronte alla sua rigido come se mi sedessi sulle spine.
Doveva aver preso qualche inibitore, perché il suo odore tipicamente Alpha era celato dietro al suo buon profumo di tabacco da narghilè, sandalo e fiori essiccati. I corti capelli corvini erano stati impomatati in una piega elegante che rispettava l'etichetta di tutti i dealer del Casinò Amaryllis, ma la divisa doveva averla rubata da qualcuno, perché sembrava gli stesse un po' piccola sulle spalle larghe.
Perfino per il suo sguardo bicolore aveva preso delle precauzioni, nascondendolo dietro lentine nere, benché un'iride sembrasse di un nero leggermente più chiaro, non potendo nascondere del tutto la differenza che slegava occhio sinistro da quello destro. I lineamenti avvenenti restavano però gli stessi, compresa quella cicatrice sul sopracciglio e il sorriso di chi ne sapeva una più del diavolo.
«Cosa accidenti ci fai qui?!» sibilai, sporgendomi leggermente dal suo lato del tavolo con i pugni stretti, pur cercando di non dare troppo nell'occhio. Presentarsi lì, in una sala tappezzata di buttafuori e guardie reali, riempita di Alpha... Doveva avere una gran bella faccia tosta. Del resto, era riuscito ad infiltrarsi anche in un ballo ufficiale a palazzo.
«Ma come? Non è evidente?» Mescolò il mazzo di carte con una tale rapidità che immaginai a cosa fosse dovuta la sua fama da ladro: aveva certe mani leste! «Lavoro come croupier per far divertire i clienti di questo Casinò.» rispose, con un tono pacato, mentre la furbizia gli faceva scintillare gli occhi come due saette.
«Sì certo, e lavori anche come venditore di gioielli al mercato, scommetto.» sbuffai, ironico e sospettoso. «Basta scherzare. Che cosa hai intenzione di combinare, stavolta?»
Sospirò, con un tono di dispiacere così affettato che mi fece venire i nervi. «Questa tua insinuazione mi riempie di tristezza... Che brutta idea che devi esserti fatto di me!» Sentii la sua gamba sfiorare la mia sotto al tavolo e, non senza un brivido, tirai indietro i piedi. «Come se andassi sempre in giro a tramare qualcosa.» Stirò le labbra in un sorriso sensuale che mi fece sentire le farfalle nello stomaco. «Che peccato deluderti. Stasera sono qui solo in veste di dealer.»
«Con me non attacca, Falco.» sussurrai, affilando le palpebre. «Non ti perdonerò mai per aver ucciso un membro della famiglia Okoro.»
«Mmmh...» Ci rifletté a fondo, come se non si ricordasse tutta la lunga lista di gente che aveva freddato nel corso degli anni. «Parli del tuo pro-pro-zio, quello che si fingeva un grande credente per molestare i piccoli novizi del tempio del Cervo Grigio?» piegò le labbra in un ghigno cattivo, mentre la mia espressione si riempiva di sgomento. «Oh! Un'altra cosa che non sapevi.» Strinsi le labbra in una linea sottile. «La tua ingenuità mi fa venire voglia di metterti le mani addosso.»
Scattai in piedi, sbattendo i palmi sul tavolo. La colonnina di fiches davanti a lui sussultò e cadde, sparpagliandosi sul panno verde. Gli mostrai i denti, in un sibilo minaccioso. «Vuoi mordermi, squaletto?» Appoggiò il mento ben definito contro la mano, accarezzandosi il labbro inferiore con le dita, in un gesto malizioso. «Credo di essere rimasto affascinato da questo tuo caratterino.»
«Smettila di prenderti gioco di me. Sono il principe ereditario, non un tuo amichetto di sobborgo.» esclamai, tornando seduto solo perché non volevo attirare l'attenzione delle guardie. «Ho visto cosa hai fatto, ho visto tutto il sangue che sei in grado di spargere. Potrei denunciarti proprio adesso e non avresti vie di scampo.» Affilai lo sguardo ambrato, con durezza. «Dimmi tutto quello che sai.»
La risata sinuosa che sprigionò fece vacillare la mia determinazione. Non sembrava affatto spaventato dalla mia minaccia, come se avesse, anche in quella situazione, sempre un asso nella manica. «E se ci sfidassimo a poker?» Nel suo sguardo baluginò un guizzo pericoloso. «Ma sul piatto non mettiamo il denaro. Nel remoto caso in cui tu dovessi vincere, ti darò tutte le informazioni che cerchi.»
«E se sarai tu a vincere? Nel remoto caso, ovviamente.» emulai le sue parole, pur con prudenza. L'ultima cosa che volevo era farmi fregare.
«Fammici pensare.» Si accarezzò il mento, umettandosi il labbro superiore mentre mi scandagliava in un modo che mi fece ribollire dalla testa ai piedi. «Mi sono già preso il tuo primo bacio. Potrei prendermi anche la tua prima volta.»
Per poco non mi andò di traverso la saliva. «Ma come ti permetti, dannato viscido?!»
«Si chiama gioco d'azzardo per un motivo ben preciso, principe.» continuò, con un tono fin troppo divertito. «O sei tanto spaventato dall'idea di perdere?» Giocherellò con un gettone, facendolo roteare sul panno vederle. «Riflettici, è una proposta assolutamente conveniente. Tutto quello che brami di sapere a portata di mano...»
Era vero. Mi bastava vincere e avrei finalmente risolto tutti i miei problemi: conosciuto il nome di chi attentava alla mia vita, l'avrei riferito alle guardie e dopo averlo incarcerato, non avrei avuto bisogno di nessun marito per proteggermi da un nemico invisibile ed inarrivabile.
«E va bene.» mi lasciai convincere. L'intelligenza non mi mancava e il principe Shun aveva ragione: il gioco era anche una questione di strategia, non solo di fortuna.
«Conosci le regole?» Annuii. «Allora faremo quattro partite. Chi ha più fiches alla fine del gioco vince il premio speciale.» disse, sprimacciando le labbra in un sorriso di compiaciuta perfidia. Cancellargli quell'espressione dalla faccia era un motivo in più per stracciarlo. Poi diede carte, una alla volta, cinque a me e cinque a lui.
Aprì il piatto con un generoso numero di fiches, che rotolarono sul tavolo nello spazio che ci divideva, mentre io davo uno sguardo alle mie carte. Avevo solo una coppia di otto. Alzai lo sguardo su di lui e lo trovai a fissarmi, come se cercasse di leggermi attraverso per capire quale fosse il punto che avevo in mano. Misi le fiches nel piatto al centro.
«Cambio tre carte.» Com'era caratteristico di questo gioco, si potevano cambiare alcune delle cinque carte che avevi in mano con delle altre dal mazzo, ovviamente ignote.
Mi tenni la coppia di otto e ricevetti le nuove carte, mentre anche lui cambiava alcune delle sue. Quando guardai le mie, per poco non sobbalzai. Avevo ricevuto un tris di regine, che si aggiungeva alla coppia di otto. Un full. Un punto così alto che avrei battuto con buone probabilità qualsiasi cosa lui avesse in mano. «Punto dieci.»
Spostai la colonnina di gettoni in avanti, mentre lui ammiccava. «Rilancio a quindici.» Mi corrucciai. Dovetti aggiungere le cinque fiches in più per raggiungere la somma e scoprire quanto avevo in mano.
«Ho un full di regine.» Mostrai, con un sorrisino finalmente soddisfatto. Si scoprì anche lui.
«Io una misera doppia coppia...» rispose, il tono così falsamente affranto che faceva ridere. Le sue carte mostravano due dieci e due assi. «Il piatto è tuo.»
Abbracciai le fiches sul tavolo e le tirai verso di me, all'improvviso di buon umore. Era strano però che avesse rilanciato con un punto così basso. Perché lo aveva fatto? Scrollai le spalle e lasciai che mi consegnasse le carte, per una seconda partita. «Apro di venti.»
«Venti?» tentennai. Era davvero una grossa somma per una semplice apertura. Non avevamo nemmeno cambiato ancora le carte! Lanciai uno sguardo al mio mazzetto: in mano avevo solo una misera scala ad incastro. Jack, dieci, otto, sette e asso. C'erano probabilità bassissime di ottenere il nove che mi serviva.
«Sì, venti. C'è qualche problema?» domandò. Tirarsi indietro senza neanche provarci, mentre lui mi sorrideva come un'affascinante iena affamata di sangue, mi sembrava da codardi.
«No. Proprio nessuno.» dissi, stoicamente. Feci scivolare la somma pattuita al centro del tavolo. «Cambio una carta.» Scartai l'asso e pregai che il nove arrivasse al suo posto. Eppure, quando sollevai la carta... Era un re. Soffocai un'imprecazione.
«Allora? Quanto punti?» chiese, continuando a stringere il proprio mazzo con estrema tranquillità.
«Dico chip.» Il che significava che non puntavo niente. Non avevo nulla in mano, ma stentavo a credere che lui assecondasse il mio chip.
«Io punto dieci.» Ticchettò le dita sulle sue carte. «Se vuoi venire a vedere, devi mettere dieci nel piatto.» Ammiccò con le sopracciglia. Col cavolo che avrei sprecato i miei gettoni così.
«E' tua.» bofonchiai. Non mi interessava proprio sapere cosa avesse in mano, tanto non avrei nemmeno potuto batterlo! E poi, ero ancora io ad essere in vantaggio.
«Grazie tante.» tubò, tirando a sé la posta nel piatto. Nella terza partita aveva ancora una volta aperto con una somma esagerata. A quanto pareva, al Falco piaceva giocare forte e non si tirava indietro facilmente. Ma io, anche cambiando le carte, avevo un bel tris di re in mano. Era un punticino niente male.
«Punto quindici.» annunciai.
«Rilancio a trenta.» Mi sorrise, temerario. Battei le palpebre, tentennando. Trenta era semplicemente troppo. Avrebbe rovesciato le sorti della partita, e mancandone soltanto una... Potevo permettermi di pagare tutte quelle fiches? Ma se non l'avessi fatto, il piatto che avevamo accumulato fino ad ora lo avrebbe comunque fatto passare in vantaggio.
Ci riflettei un attimo. Aveva sempre puntato alto, anche nella prima partita, quando non aveva granché in mano. Ciò significava, molto probabilmente, che stava bluffando anche questa volta. Oppure aveva un punto che gli avrebbe regalato vittoria sicura. Per riconoscere il suo bluff dovevo vedergli le carte. Per vederle, però, dovevo pagare quelle maledette trenta fiches.
E se mi fossi sbagliato, se non fosse stato un bluff, avrei perso oltre al piatto anche trenta gettoni. Ottenuti quelli, il suo vantaggio sarebbe stato tanto grosso che nemmeno con l'ultima partita avrei potuto rimettermi in piedi.
«Per gli spiriti...» esalai, seccato dinnanzi a quell'impasse. «Prenditelo pure, quel piatto.» Non potevo rinunciare a trenta fiches a cuor leggero. E così, anche se passò in vantaggio, potevo ancora recuperare con l'ultima partita.
Le carte mi sorrisero, quasi avessero ascoltato le mie preghiere: avevo un poker d'assi in mano. Cercai di non sembrare su di giri.
«Punto venticinque.» sogghignai, facendo strisciare la somma al centro del tavolo. Avevo la vittoria in pugno.
«Solo venticinque? Oh, ma siamo all'ultima partita, principe. Perché non fare le cose in grande?» piegò le labbra in un ghigno malevolo, puntando gli occhi neri dritto dentro ai miei, in uno sguardo colmo di sfida. «Punto tutto quello che ho nel piatto.»
«Sei impazzito?!» sbottai, senza riuscire a frenare quell'esclamazione che lo fece ridere di gusto.
«Sono fatto così. O vinco tutto o è meglio non avere niente.» snocciolò, inclinandosi verso di me, molto vicino, con gli occhi di chi aveva già la vittoria in pugno. «Allora che fai, principe dei sempliciotti? Ti tiri indietro?» continuò a provocarmi.
Ma aveva fatto un errore di calcolo. Finalmente avevo capito che, con tutto quel puntare in alto, doveva star bluffando per forza. Puntare tutto alla fine? Sperava che mi arrendessi. Glielo leggevo negli occhi. Sì, stava bluffando: non sarei caduto di nuovo in questo tranello idiota. Anche perché, io avevo un poker d'assi in mano.
L'avevo già battuto, praticamente.
«Perché mai dovrei tirarmi indietro, criminale?» Spinsi la mia intera posta al centro del tavolo, pieno zeppo di tutti i nostri gettoni. Non ci restava niente. Si decideva il tutto per tutto adesso. Sapere che si era fregato da solo mi faceva venire voglia di ridergli in faccia. Non era poi tanto furbo, questo Falco.
«Allora, che cos'hai?» sfiatò, con quel tono malizioso che faceva pensare ad un invito a luci rosse.
Sorrisi, guardandolo dritto negli occhi, perché volevo vedere il mutamento e la sconfitta dentro i suoi. E godermela fino in fondo. «Poker d'assi.» Girai le carte, mostrando le mie carte.
«Che peccato...» sussurrò, inclinando la testa di lato. Iniziai ad allungare le braccia verso la montagna di fiches, con un sorriso così grande da mostrare i denti. «... che non ti basterà a battere questo.» Mi morì il sorriso sulle labbra, mentre girava il suo mazzetto.
«Scala reale.»
No.
Non poteva essere vero. Stava bluffando! Ero sicuro che bluffasse! Notò la mia espressione disorientata e scoppiò in una risata maligna. «Sei proprio un libro aperto. Precipiti banalmente in ogni mio trucco.» Sentii la mascella cedere. «Ma sei carino anche per questo.»
Mi aveva raggirato sin dall'inizio. Voleva che credessi che stesse bluffando per farmi cadere nel suo tranello del "puntare tutto" all'ultima partita. «N-non vale...» balbettai, mentre deglutivo il groppo che mi chiudeva la gola e mi alzavo dalla sedia molto lentamente, come se ponderassi da che direzione scappare.
«E perché? Ho vinto onestamente, dopotutto.» mormorò, la voce che si era abbassata di un'ottava, la mano callosa cosparsa di cicatrici che sfiorava il dorso morbido della mia, prima di salire sul polso, accarezzarmi l'avambraccio e raggiungere la spalla. Quella singola carezza sulla pelle nuda mi riempì di brividi elettrici. Uno schizofrenico desiderio di averlo più vicino e al tempo stesso più lontano mi sovrastò.
Si inclinò sopra di me, sull'orecchio: «Non vedo l'ora di riscattare il mio premio...» Le gambe mi erano diventate talmente molli che sarei caduto sulla sedia dietro di me da un momento all'altro. Dove diamine erano le guardie, quando servivano? «... Ma non oggi.» Si distaccò, accarezzandomi il labbro inferiore con il pollice. «La prossima volta che ci vedremo sarà quella in cui ti avrò.» promise. Poi la sua mano si distaccò dal mio braccio. Indietreggiò di un passo, mi fece l'occhiolino e...
Tutte le luci in sala si spensero.
Qualcuno aveva attivato il sistema di spegnimento delle candele integrato nei lampadari e, in quel momento di buio, i membri della corte si misero a gridare. In un istante qualcuno mi raggiunse: percepii braccia forti intorno a me, l'odore caratteristico di alcuni Alpha.
«Ci sono io.» Era la voce del Lupo Bianco. Intanto, un cerchio di guardie mi attorniò proprio mentre la pittura fosforescente bianca, invisibile con la luce, iniziava a splendere sui soffitti imbrattati.
"ABBASSO LA REGINA"
"QUESTA MONARCHIA E' LA MORTE DI SAMARCANDA"
"AL ROGO IL FORMICAIO"
Erano solo alcune delle frasi sovversive che affastellavano le volte ad arco del Casinò.
Col naso per aria, osservai ancora più sgomento la firma del Falco: un paio d'ali spalancate, che somigliavano in tutto e per tutto a quelle che avevo fatto scolpire, quando ero piccolo, sulla porta di camera mia.
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