Regola n.20: punta in alto


Se c'era una cosa che le mie madri erano brave a fare, era superare le crisi famigliari aumentando massicciamente l'intrattenimento. All'improvviso mi ero ritrovato con un'immensa marea di eventi pubblici alla quale presenziare, tipo insulse festicciole di beneficenza piene di aristocratici riguardo argomenti del tutto opinabili. Ero stufo di cose come "Salviamo la giornata del cappello" e "Reintegriamo la coltivazione delle fragole bianche".

Per non parlare delle interviste. Ogni giorno pretendevano che incontrassi un giornalista diverso per rispondere alle loro indiscrete domande. Mi chiedevano che cosa ne pensavo del matrimonio di Tahani e il suo futuro promesso, quell'imbecille di Quinn. Mi domandavano se fossi felice che la condotta libertina di mio fratello Taro si fosse finalmente placata grazie ad un matrimonio con chissà-chi dell'entroterra. E soprattutto mi chiedevano le prime impressioni sui sei Alpha che alloggiavano nel palazzo nella speranza di diventare presto Re.

Erano affamati di pettegolezzi: volevano sapere chi fosse il mio preferito così da pronosticare chi sarebbe diventato il sovrano del regno di Smeraldo. Erano tutte domande scomode, a cui avevo cercato di dare le mie risposte - a parte sull'ultimo argomento, tacendo del tutto - ma ero stato censurato. Nessuno voleva sentir dire dal principe ereditario che il matrimonio di sua sorella era un'idiozia, visto che quelle nozze erano così amate ed idealizzate dal popolo.

Dopo la conversazione avuta con mia madre, stavo iniziando a vedere la vera faccia di Samarcanda: non amavano i principi come pensavo facessero. No, eravamo come dei pupazzi, dei giocattoli con cui giocare, di cui sapere ogni cosa, passo dopo passo. Non importava che fossimo degli esseri umani, per loro. In fondo, eravamo degli Omega.

Avrei preferito non notare affatto questa nuova realtà... Ma una parte di me iniziava già ad accettarla.

Mentre l'ultima settimana passava, avevo iniziato a prendere regolarmente gli inibitori, in vista del calore che sarebbe presto arrivato. Mi sentivo sempre più fiacco, il che peggiorava i miei tentativi di inseguire i due gemellini Omega per scoprire qualcosa sul loro conto: a malapena giocavano, anche se la balia cercava di ravvivarli con così tanti giocattoli che qualsiasi bambino avrebbe dato di matto. Non ero nemmeno riuscito a scoprire i loro nomi.

Ma il peggio era che Ymir se n'era andata. Non avevo avuto il tempo di dirle addio, aveva semplicemente lasciato il palazzo, come fanno le ombre quando il buio cala e diventa tutto tenebra. Non mi ero reso nemmeno conto di quanto fossi solo e perso, senza di lei.

Sapevo di avere un umore nero, quando solcai l'ingresso del Casinò Amaryllis e la luce delle candele dai lampadari a bracci di cristallo mi sfavillarono sui gioielli. Amnon mi aveva tenuto occupato tutto il giorno per vestirmi e abbigliarmi al meglio: l'ennesima festicciola organizzata per tenermi occupato si era trasformata in un ritrovo fra la crème della corte di Samarcanda. Dato che i miei corteggiatori non potevano mancare all'appello, era nei compiti del mio governante farmi apparire al meglio.

Indossavo un caftano lungo e smanicato di raso cangiante, bianco ma con bagliori traslucidi oro e smeraldo. Aderente e col colletto alto e rigido, mi percorreva il petto con tutta una serie di bottoncini di madreperla che si fermavano all'ombelico, offrendo una scollatura a V che mostrava una generosa porzione di pelle scura. Gli spacchi laterali della veste lasciavano intravedere pantaloni alla zuava e sandali alti tutti intrecciati fino al polpaccio.

Le braccia esposte sfoggiavano bracciali luccicanti intorno ai bicipiti sottili e ai polsi, che con tante catenelle si legavano agli anelli che portavo su ogni falange. Per fortuna non indossavo nessuna corona vistosa, solo una fascetta dorata intorno alla fronte, che spuntava dall'ammasso di ricciolini scuri, parzialmente domati.

Tamsin, mio fratello minore, era entrato con me e il numero esagerato di guardie che mi tallonava, ma si era prontamente mescolato fra la folla in un turbinio di treccine colorate. Iniziai a scivolare anche io all'interno della lussuosa sala, i passi attutiti dalla moquette rossa, le orecchie riempite dal tintinnio di bicchieri, dal fruscio delle fiches e dal ritmico dondolio della roulette che girava e girava mentre la pallina rimbalzava impazzita fra le caselle numerate.

Imponenti tavolate, così come piccoli tavolini, erano coperti da panni verdi. Raccolti intorno molti ospiti giocavano a poker, black jack e altri giochi d'azzardo mentre i dealer vestiti con panciotti borgogna e dorati e cravattini di velluto scarlatto servivano le carte vagliando le partite dei clienti col solo scopo di spingerli a giocare ancora più forte. C'era anche una zona bar dove venivano serviti cocktail sofisticati, fra una puntata e l'altra.

Mi sarei volentieri appartato in un angolo a braccia incrociate a dimostrare a tutti che non volevo essere lì, ma la regola del casinò prevedeva a chiunque entrasse di comprarsi una posta di fiches, che volessi giocare o meno. Scambiai quindi una somma moderata di denaro con i dischetti colorati che mi vennero consegnati in un sacchetto di velluto.

«Per favore, lasciatemi un po' di spazio.» dissi, il tono rigido e perentorio verso il drappello di guardie che mi stava col fiato sul collo. Senza Ymir, o meglio senza un Alpha a tenermi d'occhio, il numero di beta impiegato per sorvegliarmi era enormemente maggiore. Mi lanciarono sguardi impassibili. «Siamo in una sala chiusa, già stracolma di buttafuori. Potete sorvegliarmi anche se non mi state così appiccicati.» Schioccai la lingua contro al palato, irritato. Non si mossero.

«Possiamo proteggere il principe anche noi, se posso permettermi.» La voce profonda di Akia si fece largo alle mie spalle e, quando mi voltai a guardarlo, lo trovai attorniato dai membri della sua delegazione, tutti uomini corpulenti dalla pelle scura e i candidi tatuaggi tribali dipinti sul corpo. Guardavano l'Alpha come fosse il loro leader, attratti dal carisma che naturalmente esercitava. Dentro di lui scorreva il sangue di un leone, del re della foresta.

Ne rimasi affascinato, almeno per un momento, quello che servì a non andare in bestia poiché le mie guardie gli avevano subito prestato ascolto e si erano ritratti sul fondo della sala, limitandosi a sorvegliarmi da lontano. Aggrottai la fronte. «Grazie.» bofonchiai. Posso proteggermi da solo, volevo aggiungere... Ma non era vero.

«E' sempre un piacere con voi.» rispose, un sorriso accogliente fra le guance, mentre iniziava a seguirmi.

Camminai fra i tavoli a braccia conserte, il sacchetto di fiches che mi tintinnava in una mano e gli occhi ambrati che scandagliavano la sala alla ricerca degli altri Alpha. Jörvar, in particolar modo: c'era qualcosa nel Lupo Bianco che mi spingeva a fidarmi di lui. Il fatto che credesse che anche un Omega potesse combattere, per esempio. Avevo l'impressione che a lui non importasse di piacere alle mie madri o alla mia corte.

E infatti lo trovai vicino all'ingresso a braccia incrociate, immobile in una posa granitica e militaresca, a guardia della situazione. Non si mescolava ai festeggiamenti e alcuni aristocratici gli lanciavano sguardi a metà fra il torvo, per via del regalo che mi aveva fatto tempo addietro, e il timore referenziale.

Quando mi vide, ricevetti uno sguardo penetrante e un cenno del capo. Chissà se mi avrebbe aiutato a smantellare il Formicaio. Ricambiai il saluto con l'ombra di un sorriso e passai avanti. Notai il principe Rajat e le sue due controfigure, le ancelle velate alle sue spalle, alle prese con un'affollata partita di Black Jack: a giudicare dalla sua espressione non stava vincendo. Arricciai le labbra in una smorfia divertita davanti a quell'espressione burbera e viziata. Per fortuna non mi vide.

Poco più in là, l'elegante mercante Lorence in monocolo e panciotto intesseva i suoi affari con attempati figuri dall'aria facoltosa. Era così concentrato che si vedeva ci mettesse passione nel suo lavoro. Continuai con la panoramica fino a fermarmi sul duca Thiago. La mossa chioma mogano risplendeva almeno come la sua camicia di raso setosissimo. Non era molto furbo a flirtare sotto al naso di quello che avrebbe potuto essere suo marito, ma era proprio ciò che stava facendo: dialogava, lanciava occhiolini e accarezzava le spalle di un gruppo di giovani e fanciulle lì accalcati intorno come fan.

Era il suo modo di socializzare, o semplicemente gli piaceva fare il gallo del pollaio? Alzai gli occhi al cielo e, intravedendo fra la folla anche Tahani e Quinn, virai verso la zona opposta della sala. Mi fermai davanti al tavolo meno confusionario che trovai. C'era una partita alla roulette in corso e le loro puntate su certi numeri erano appena iniziate.

«Volete giocare, Taye?» chiese Akia, ancora vicino a me, il tono coinvolgente. Sarebbe stata una buona compagnia per la serata. E un ottimo modo per capire quanto fosse sincero e quanto, invece, un semplice burattino di mia madre.

«Proviamo...» mi avvicinai al tavolo, slegando il laccetto delle fiches dal polso.

«Principe! Che immenso piacere averla qui!» un beta, un vecchio signore della corte, mi rivolse un sorriso adulatore e lascivo a cui io risposi con affettato garbo. «A quale numero puntate? Potrei puntare anche io su quello, godrei della fortuna dei regnanti!» ridacchiò, avvicinandosi a me abbastanza da sentire la sua spalla contro la mia. Cortesemente, ma in modo fermo, Akia pose una mano sul mio fianco e mi allontanò dal vecchio, che fece finta di nulla, totalmente privo di vergogna.

«Penso sul ventuno.» Era il giorno di nascita di Tamsin. «E... Nero.» Non faceva molta differenza, per me, la casella nera o rossa. Posai una piccola manciata di fiches sulla casella contrassegnata dal numero, sul tavolo vicino alla roulette.

«Vi conviene sssmezzare.» sibilò il principe Shun, che aveva raggiunto il mio fianco dalla parte opposta rispetto ad Akia, scalzando del tutto il vecchio appiccicoso. Sentii il suo braccio posarsi esattamente sopra a quello del leone, avvolgendomi la vita dall'altro lato. Mi ritrovai praticamente schiacciato da entrambi i lati dall'intensità di ben due Alpha, che ora si guardavano e si studiavano a vicenda come avversari. «Ssse dividete la posssta ssu due numeri diversssi avete più probabilità di vincere.»

«Ma no, siate fedele al numero che avete scelto. E poi, bisogna puntare in alto per avere la vittoria!» incalzò Akia.

«Sssciocchezze. Il fato è ingannevole, principe.» esclamò l'altro. Feci vagare lo sguardo su entrambi, corrugando la fronte. «Sssempre meglio la sstrategia. Quando sssiete nato?»

«Il trenta aprile.» risposi e, quella, fu la sua definitiva puntata: un po' di fiches sul numero 30 e un po' sul 4, entrambi rossi. Il dealer raccolse le ultime puntate e poi la roulette venne fatta girare: la pallina dondolava sulle caselle e gli occhi di tutti erano fissi su di essa. Per Akia e Shun, quasi ne andasse del loro onore. Con lo stupore di tutti, la pallina si fermò sul 30 rosso.

«Visssto?» L'orientale sorrise, facendo saettare fra i denti la lingua biforcuta.

Mi aspettavo che l'altro se la prendesse, invece disse: «Fortunato!» E gli rifilò un paio di amichevoli pacche sulla schiena. Trattenni un verso esasperato, scocciato di sentirmi come uno spettatore schiacciato fra quei due.

«Vado a prendermi da bere.» annunciai, svincolandomi dalle loro braccia. Prima che potessero venire loro strane idee, mi affrettai ad aggiungere: «Da solo.» Mi accorsi del mio tono brusco e aggiustai il tiro. «Per... ehm... Prendere un po' d'aria, subito dopo. Non vi preoccupate, le mie guardie mi sorvegliano.»

Sciorinati gli ultimi saluti, mi congedai con un leggero cenno del capo e mi recai verso la zona bar. Era posto in un angolo un po' appartato rispetto alla sala, poco frequentato perché tutti preferivano farsi portare da bere ai tavoli da gioco. Nel passaggio, ne urtai uno lì vicino, quasi tirandomi dietro il panno verde che lo copriva.

«Attento.» esordì il dealer alle mie spalle, con voce bassa, una carezza sensuale per i canali uditivi. Stupefatto, girai su me stesso. Dietro al tavolo da gioco, nella divisa da croupier e con un mazzo in mano, il Falco sorrideva tracotante verso di me.

Sventolò le carte, con un'espressione compiaciuta. «Partitina?»

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