Regola n.2: tieni la testa alta
«Stupido omega, che ti dice il cervello?!» ringhiò la donna dall'altro lato della stanza, schiantando un pugno contro il suo scrittoio elaborato. Restò un solco profondo nel legno. Soffocando lo spavento, la fissai in tutta la sua stazza, invidiandone il fisico statuario: alta e slanciata, con un filo di muscoli sulle braccia e il cuoio capelluto come sempre tiratissimo in una coda di cavallo. Un giorno o l'altro i capelli le si sarebbero staccati dal cranio. Glielo auguravo pure.
Indossava la solita armatura dorata da amazzone in contrasto con la pelle nera, messa lì più per monito che per reale necessità. Serviva per ricordare il suo rango, il suo potere e il pugno di ferro che avrebbe sfoderato se qualcuno le avesse messo i bastoni fra le ruote.
Tusajigwe Jelani, regina di Samarcanda, Alpha. Mia madre, anche se nessuno della famiglia aveva preso il suo cognome, perché non faceva parte della linea diretta di sangue reale. La stirpe degli Okoro era una sola ed era sempre e solo omega. Era la nostra maledizione: non c'era scelta. E poi, Jelani significava "pieno di forza" e per lei era assolutamente inappropriato dare quel titolo a degli omega, anche se si trattava della sua prole. Tipico di una Alpha.
L'ironia comunque era presente anche nel cognome che portavamo. Okoro voleva dire "figli di un uomo libero", anche se eravamo praticamente schiavi del malato sistema che ci obbligava a sposare qualcuno più forte di noi, qualcuno che avrebbe regnato al nostro posto, mentre a noi restavano i figli e la vita domestica.
L'esempio lampante di questo ordinamento sociale era Dafne Okoro. La principessa ereditaria prima che sposasse Tusajigwe, la donna che mi aveva messo al mondo. Sedeva ad un lato dello scrittoio, a testa bassa, lunghe onde castane incorniciavano il suo volto incantevole, cadendole sulla gonna ampia, candida abbastanza da contrapporsi all'incarnato color caffè. Odiavo vederla dimessa in quel modo. Io avrei tenuto la testa molto, molto alta.
«Non mi è mai stato vietato di uscire dal Palazzo d'Estate.» dissi, asciutto. Mi ero ampiamente ripreso dall'incontro-scontro coi topi mannari e il loro capo Alpha, avvenuto un paio d'ore prima. O quasi. La verità era che, se pensavo al braccio di quello sconosciuto intorno alla mia vita o la sua risata nell'orecchio, tornavo a sentirmi strano. Perciò era meglio accantonare l'accaduto.
«Ma non ti è certo permesso di scorrazzare per le strade dopo la mezzanotte.» ringhiò la regina, col tono che assumeva quando non le piaceva la piega che la discussione stava prendendo.
«Non era ancora mezzanotte e di certo non sarei uscito se voi-!» mi interruppi, quando sentii la mano di Ymir posarsi sulla mia spalla, un gesto delicato, quasi sfuggente, come se non avesse voluto farsi vedere, anche se sentii la morsa delle sue dita tanto forte da farmi male.
Le lanciai uno sguardo di sottecchi, notando nella sua espressione quel tipico "vacci piano" che sfoderava all'occorrenza quando mi mettevo particolarmente nei guai. La mia scorta era una bella donna sulla quarantina, anche se ne dimostrava molto meno, con la faccia piena di lentiggini sulla pelle chiara, un taglio di capelli sbarazzino color cioccolato e un'altezza vertiginosa che sfiorava il metro e novanta.
Mi sentivo un tappo, accanto a lei, ma anche protetto. Era l'Alpha migliore che conoscessi, sposata con un beta, il fabbro più abile della città: lui le regalava sempre armi eccezionali ad ogni suo compleanno. Mi sentivo un po' in colpa ad essere la causa della loro divisione e lontananza, ma Ymir non si era mai lamentata del suo lavoro, che svolgeva da quando gattonavo curiosamente per i corridoi del palazzo.
Stavolta, però, non avrei assecondato il suo avviso. Mi divincolai dalla sua mano, strattonando la spalla e schioccando la lingua contro al palato. «Di certo non sarei uscito dal Palazzo se voi foste scesa a patti con me, Madre. Quello che avete fatto a Taro è imperdonabile!» mi sentii sbraitare, sbattendo una mano sul bracciolo della sedia su cui ero stato fatto accomodare, di fronte allo scrittoio, come un imputato al centro del tribunale.
La corte era tutta lì: mia madre Dafne, le guardie del corpo delle regine e quelle che mi avevano trovato in città, il ciambellano, Ymir ed infine i soldati appostati fuori dalla sala amministrativa, che sentivano tutto quanto. La sovrana di Samarcanda era il giudice.
«Io non lo accetto! Fatelo tornare a casa!» tuonai, scattando in piedi. Era vero, mio fratello Taro era un ragazzo viziato e volubile agli occhi della società, ma solo perché ci si aspettava che un Omega fosse un pudico e sottomesso signorino. Quella non era una buona scusa per firmare un accordo matrimoniale con uno sconosciuto più grande di lui, spedendolo in una sperduta magione nell'entroterra. Era passata una settimana dalla partenza e mi sentivo ancora male per lui: non avevo mai smesso di lottare per la sua causa, anche se invano. Ero suo fratello maggiore, era il mio compito. La cosa però si era spinta un po' troppo oltre e, incapace di contenere la mia furia, sentivo che l'unico modo per non sbottare era allontanarmi dal castello e schiarirmi le idee facendo una nuotata in spiaggia.
L'ultima cosa che mi aspettavo era di essere rapito.
Ero talmente preso dalla mia sfuriata, che fu scioccante sentire lo schiaffo percuotermi la guancia sinistra, tanto forte da farmi girare la testa di lato. Mia madre aveva aggirato lo scrittoio e mi aveva raggiunto. Di fronte a me, mi fissava con austera e aperta ostilità.
«Non hai abbastanza potere per discutere le mie decisioni. E non lo avrai mai. Ricordati di stare al tuo posto.» sibilò e il silenzio che seguì fu così tangibile da poterlo tagliare col coltello. Sentii i miei occhi riempirsi di lacrime, ma non per quello che mi aveva detto, no. Ci avevo fatto ormai il callo. Era la rabbia, la rabbia cieca e mal trattenuta. Strinsi i pugni fino a sentire male al palmo, distogliendo lo sguardo.
«Per favore, non colpire i nostri figli...» sentii sussurrare. Dafne si era intromessa, posando una mano sul braccio della consorte, ma Tusajigwe fece finta non esistesse, prima di tornarsene al suo posto dietro alla scrivania. Ovviamente, tutte le persone all'interno della stanza finsero di trovare molto interessanti i quadri alle pareti o i tappeti pregiati sul pavimento.
«Ripetici ancora cosa sai delle persone che ti hanno rapito.» riprese la regina, mettendosi a sedere, segno che la sfuriata doveva essere finita, per il momento. Sospirai. Avevo già detto tutto quello che sapevo per molte volte e ad un sacco di gente diversa, senza mai cambiare versione.
«Erano topi mannari. Quattro o cinque, non di più. Erano capitanati da un Alpha, ma non sono riuscito a vederlo in faccia. Non ho visto nessuno di loro, in realtà.» Purtroppo. «Avevano paura del loro capo, ma non si sono fatti molti scrupoli ad ignorare le sue direttive. Infatti, quando lui è arrivato ha ucciso uno dei sottoposti.»
«Quali direttive?» mi interrogò lei, anche se fui sicuro che Ymir le avesse già detto tutto.
«Di non farmi del male.» Mi strinsi nella schiena.
«E te ne hanno fatto? Non sembri ferito.» mi scandagliò attentamente. L'unico segno rimasto era la forma pulsante della sua mano sulla mia guancia, infatti.
«Non in quel senso...» mugugnai. E lei lo sapeva. E voleva proprio sentirmelo dire, dal modo in cui stava sorridendo. Per dimostrarmi che ero un omega e che nessuno avrebbe mai esitato a mettermi le mani addosso, visto che ero nato per quello: procreare. Ero debole, perciò dovevo stare alle sue regole. La detestavo davvero.
Per fortuna, lasciò perdere. «Bene. Se è tutto, siete congedati.» Sbuffò, facendo un cenno liquidatore con la mano. Mi alzai in piedi, all'improvviso terribilmente stanco. Ne erano successe fin troppe. «Ah, Taye!» Mi fermai, voltandomi a guardarla. «Ti è vietato uscire dal palazzo per questa settimana.»
Storsi le labbra in una smorfia, scegliendo per una volta tanto di non dire niente. «Buonanotte, madri.» girai i tacchi ed uscii dalla stanza.
A passo svelto, superai le guardie appostate fuori dalla sala, lasciandomi andare contro la parete appena svoltato l'angolo. Ymir fece lo stesso, accarezzando compulsivamente il pomello della spada. «Ci è andata bene, bambino.»
Sorrisi, esausto. Bambino. Mi dava quell'epiteto anche se avevo superato i ventitré anni. Era diventata una cosa nostra, ormai, perché non sopportavo le formalità da lei.
«Hai ragione.» Scrollai le spalle. La regina Jelani avrebbe potuto scegliere arbitrariamente di farmi sposare un vecchiaccio, o avrebbe potuto licenziare la donna al mio fianco. «Ci è andata bene.» conclusi, riprendendo a camminare, deciso a relegare questa pessima giornata nel dimenticatoio.
Salutai la donna una volta raggiunta la porta della mia stanza, sentendo un po' della tensione allentarsi quando ammirai l'incisione di due ali spalancate vicino al mio nome, scolpite nell'anta di legno. Quando ero molto piccolo non facevo altro che sognarle: grandi ali nere e piumate, intente nell'atto di spiccare il volo. Avevo sviluppato una tale ossessione da pretendere che fossero impresse sull'ingresso delle mie camere.
Col passare del tempo avevo smesso di sognarle, ma ogni volta che osservavo quel simbolo sulla mia porta, stavo all'improvviso meglio. Fu così anche adesso. Perciò, dopo essermi lavato via il sozzume dei topi mannari e della stanza nella botola, potei infilarmi a letto col cuore vagamente più leggero.
Del tutto inconsapevole del fatto che la quiete non sarebbe durata ancora a lungo. Ci è andata bene? Ovviamente ci sbagliavamo.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top