Regola n.16: impara il senso del sacrificio
Una parte di me sperava davvero di non farcela, invece ero riuscito con successo nella prima parte del piano: ingannare Ymir. Non era una rarità che volessi fare un bagno di sera, sgranchire le pinne dopo una giornata faticosa aiutava a rilassarmi. Così avevo detto. Era stato un po' strano che mi portassi dietro tutti quegli asciugamani, ma mi ero giustificato dicendo che avevo freddo. A parte alzare un sopracciglio e controllarmi la fronte per assicurarsi che non avessi la febbre, la mia scorta non sospettò nulla.
Nascosti fra gli asciugamani appallottolati c'erano una mantella impermeabile, un ricambio di vestiti e l'unica arma su cui ero riuscito a mettere mani: un tagliacarte d'argento. Sembrava una spedizione destinata a fallire e in cuor mio mi auguravo che non stessi prendendo la decisione sbagliata. Sembrava che la mia vita si fosse divisa in due sentieri diversi: il primo, fare le cose secondo le regole di mia madre. Il secondo, fare le cose secondo il sentiero di quel criminale.
L'unico percorso che mi consentiva di avere ciò che desideravo era proprio quello irto di pericoli. Ma non potevo tirarmi indietro. Non se significava che il criminale - il Falco, o chiunque diamine egli fosse - avrebbe scelto di uccidermi, piuttosto che aiutarmi.
Con l'impermeabile stretto al petto e usato per proteggere gli altri vestiti dall'acqua, sbattei la coda a tutta velocità, infiltrandomi nello stretto cunicolo subacqueo nella speranza di non rimanere incastrato come un pesce in un tubo di scarico. Sarebbe stato un brutto modo di morire. Per fortuna, arrivai dall'altra parte senza intoppi.
Emersi dal letto del fiume, guardandomi intorno prima di uscire del tutto allo scoperto: la riva era deserta, punteggiata da qualche sparuto albero. Da lontano si intravedevano le luci della città. Ci misi qualche minuto buono per tramutare la mia coda in un paio di gambe, poi srotolai l'impermeabile ed incontrai il primo intoppo della serata: avrei definito i miei abiti, se non zuppi, decisamente bagnati. Emisi un verso spazientito. Andarmene in giro nudo era fuori discussione, perciò strizzai i pantaloni a sbuffo di lino beige e indossai almeno quelli.
Erano rigidi, un po' pesanti contro alla pelle e mi si appiccicavano addosso. Pazienza: a Samarcanda faceva sempre caldo, si sarebbero asciugate. Mi infilai un paio di pantofole di stoffa umida ed infine mi calai sulle spalle la mantella impermeabile blu notte, tirando il cappuccio sopra il viso. Davo un po' nell'occhio, ma almeno non per le ragioni sbagliate: nessuno doveva sapere che il principe era uscito dal palazzo per andare ad incontrare un criminale.
Mi ero accertato di controllare le cartine della città per imparare la strada, confrontando il punto del fiume da cui sospettavo sarei uscito con l'indirizzo scritto sul misterioso bigliettino. I calcoli tornavano. Con il tagliacarte infilato nell'orlo dei pantaloni e una mano a tenermi basso il cappuccio sul viso, mi affrettai per gli isolati che mancavano. La delinquenza era ai minimi storici a Samarcanda da quando mia madre aveva preso il comando, ma nelle zone di periferia non mancavano i brutti ceffi.
«Ehiii tu! Dai, fammi vedere chi c'è sotto il mantello... Così ci divertiamo...» Mi sentii i loro occhi calare pesantemente addosso dagli angoli delle strade, perciò incassai la testa fra le spalle e tirai dritto, affrettando rapidamente il passo, col cuore che prendeva a martellare furioso contro alle costole. Percepii i passi echeggiare alle mie spalle e non osai voltarmi indietro: mancava poco. Ancora una strada. Lo scalpiccio si fece più vicino.
Poi finalmente iniziai a vedere il luccichio colorato delle lanternine in lontananza. L'inizio della via della seta! Ero salvo. L'indirizzo al quale dovevo arrivare era lì e mi chiesi se la mia "prova di coraggio" non fosse proprio superare parte di quelle zone periferiche. Mi infilai fra colonne di lampade sfavillanti in vetro soffiato, le uniche illuminazioni nel buio, in grado di rischiarare gli indirizzi scolpiti nella pietra. Il suono di passi cessò, mentre io mi addentravo lungo la via.
Il cuore fece una capriola quando i miei occhi lessero il numero e il nome dello stabile che cercavo. Si trattava dell'ennesimo locale che vendeva lanterne. Ciondolavano basse da catenine dorate, emettendo cristallini tintinnii di vetro quando si sfioravano l'un l'altra. Proseguii all'interno, guardandomi intorno con circospezione: oltre il buio e le luci colorate che mi danzavano sulla faccia, non c'era anima viva.
Mentre mi domandavo se Ymir avesse già scoperto che ero sparito, con la coda dell'occhio captai un movimento: proveniva dal fondo del locale. Guizzai da quella parte e oltre una tenda di velluto viola scoprii una stanzetta. Al suo interno solo una porticina bassa e un immenso omaccione a braccia conserte a fare la guardia. Sobbalzai indietreggiando, ma lui mi aveva già notato. Incombette verso di me, mentre io cercavo di appiattirmi contro il muro come una semplice ombra di passaggio.
«Non è il posto giusto in cui perdersi. Vattene!» ringhiò, afferrandomi rudemente per un braccio, con l'intenzione di spintonarmi fuori dal locale.
«U-un attimo!» Mi divincolai, aggrappandomi alla mano che mi stava strattonando. «Qui mi ci hanno invitato!»
Si fermò di botto. Posò gli occhi su di me e istintivamente riparai il viso sotto al cappuccio. La presa sul mio braccio si allentò e prima che potessi ponderare l'idea di scattare di corsa verso la porta, disse: «Password.»
Sbattei velocemente le palpebre. «Come?»
«Password.» ripeté, meccanicamente, lanciando uno sguardo truce verso la porta. Serviva una parola in codice per passare, quindi. Qualcosa che io non avevo: immaginai fosse impossibile che il criminale non ci avesse pensato. Perciò, doveva averlo fatto di proposito.
«Io...» Squittii un verso spazientito. «Mi ha invitato il Falco!» sbottai alla fine, indignato. Per fortuna avevo lo sguardo fisso sull'uomo, altrimenti mi sarei perso quel lampo di improvvisa paura e comprensione che gli aveva attraversato la faccia in pochi secondi, prima che tornasse granitico. Bingo. Non disse una parola, si limitò a stringere nuovamente la presa sul mio braccio - su cui sarebbe rimasto un bel livido - prima di strattonarmi verso la misteriosa porta.
Non seppi dire esattamente cosa aspettarmi. Una stanza delle torture? Magari un covo di strana gente con hobby bizzarri? Certo non mi aspettavo che, dietro alla porta, ci fosse una galleria buia che scendeva verso il basso, come verso il fondo di una caverna. «Ehi! Aspettate! Dove mi state portando! Un attimo!» Lottai mentre mi trascinava verso il tunnel e poi si chiudeva la porta alle spalle. Avevo un brutto presentimento.
«Lasciatemi! Lasciatemi, per gli spiriti!» lamentai, ma l'omaccione mi spinse con sé oltre i gradini di pietra, avvolti dal buio. Non sapevo quali fossero le sue intenzioni con me, ma capii che dovevo risolvere la cosa prima che fosse troppo tardi: sganciai il tagliacarte dall'orlo dei pantaloni e gli tagliai il braccio. Solo un taglio superficiale, poco più di un graffio, ma bastò per sorprenderlo. Mi mollò il braccio ed io mi misi a correre verso il fondo del tunnel: tuttavia, avevo ancora le ciabatte imbevute d'acqua.
La mia proverbiale goffaggine fece il resto. Un piede scivolò e slittai verso il basso, sedere sui gradini, facendo il resto della strada scalino per scalino con le chiappe e a tutta velocità. Cercai di artigliare le pareti intorno a me per fermarmi, ma non c'era verso. Ad un certo punto, quando pensai di aver raggiunto un punto così profondo di Samarcanda da poter incontrare forse magma, forse una qualche forma di vita dimenticata, il tunnel si fermò. Il mio didietro tutto indolenzito atterrò in una gigantesca caverna.
Il caos imperversava. Una ressa selvaggia di mani sollevate verso il cielo ballavano a tempo con un tamburellare frenetico ed infernale. Fiaccole dondolavano a destra e sinistra come pendole, appese alle stalattiti lunghe che scendevano dal soffitto, creando un effetto di luci ad intermittenza che stordiva. «Ma che diavolo...» Non avevo la minima idea del posto in cui ero finito.
Dentro a minuscole alcove la gente fumava narghilè in nuvole di fumo, sniffava da tavolini o s'infilava in vena sostanze luminescenti che brillavano sottopelle. Se non si drogavano, fornicavano in due, tre, quattro... Distolsi lo sguardo, rimettendomi in piedi per camminare frettolosamente fra la calca in cerca di non sapevo nemmeno io cosa. Proseguii fra le gallerie, ognuna che comunicava con qualche grotta.
In una c'era una donna imbavagliata e legata contro la parete, mentre un uomo si divertiva a disegnarle sulla pelle tracciando linee e disegni con la punta di un coltello, che sanguinavano copiosamente mentre quella piangeva. Soffocai un singhiozzo d'orrore puro mentre continuavo a correre attraverso le gallerie, ignorando un'altra caverna in cui c'erano almeno cinque persone appese per i piedi, che magari erano svenute, altrimenti...
Dove diavolo ero finito? Da quanto tempo un posto simile si trovava sotto Samarcanda, indisturbato, all'oscuro della corona?
Ero talmente scioccato che il mio sgomento riusciva a superare perfino il terrore. Nel mio camminare senza meta, ad un certo punto, udii l'echeggiare di parole che mi fecero arrestare all'improvviso. «... del principe Taro Okoro in persona!» Mio fratello minore. Il cuore iniziò a galoppare a tutta forza e, silenzioso sulle mie ciabattine, mi intrufolai nella caverna da cui avevo sentito provenire la voce, dando un'occhiata da sotto al cappuccio della mantella.
Una ventina di individui sedevano su piccole poltrone con posture rigide e formali, tutti mascherati, posizionati di fronte ad un palchetto dove una donna in lingerie succinta stringeva i manici di un carrellino su cui erano posate un paio di mutande in tessuto dorato, ricamate, con le iniziali T. O. che campeggiavano sopra. Un uomo in completo, lì vicino, indicava con un'asta di legno l'indumento.
«Assolutamente certificate, verificate e autentiche.» disse, tamburellando con l'asta le mutande di mio fratello, mentre i presenti emettevano versi di pura delizia. Mio fratello, prima che fosse costretto a sposarsi, era un vero libertino: potevo presumere che fossero sul serio le sue. Mentre le offerte iniziavano a fioccare, capii velocemente cosa si stava svolgendo lì. Un'asta clandestina. Con le mutande di mio fratello.
Sentii lo stomaco annodarsi ed arrotolarsi su se stesso come un calzino. «Aggiudicato!» esclamò il banditore indicando un uomo, e la signorina col carrello chiamò con un ammiccante cenno dell'indice il cliente che aveva vinto la merce tanto litigata, scambiando il denaro con le mutande proprio lì, in un angolo della caverna, sotto gli occhi di tutti.
«Veniamo alla merce migliore della serata!» disse il banditore, il tono esaltato, gli occhi sgranati e spiritati, mentre scendeva le scalette del palco e andava lui stesso a recuperare la merce. «Forza! Muovetevi!» ringhiò, strattonando per le braccia coloro che salirono sull'impalcatura. «Ecco a voi due esemplari gemelli di Omega!»
Oh no.
Erano due bambini. Potevano avere sì e no otto anni. Un bambino e una bambina, con la pelle scura e gli occhi verdi come palme da dattero, vestiti di stracci e con i polsi legati dalle corde. Non esistevano altri omega a Smeraldo a parte i membri della famiglia Okoro, perciò dovevano essere stati portati da un altro regno. Rapiti o resi schiavi prima. Forse venduti dalla famiglia. Mi sentii le gambe tremare e cedetti, cadendo a sedere su una roccia, ma nessuno diede segno di guardarmi.
Stavano fissando loro. Anzi, li spolpavano con gli occhi. Solo due bambini. «Offro cinquecento!» partirono subito le prime offerte. «Seicento!»
«Settecento per la signora lì sulla destra!» fece il banditore. Mani che si alzavano, movimenti furtivi, scatti delle dita o semplicemente urla feroci. «Siamo a mille! Mille e due!» Sentii la nausea salire, mescolandosi con la rabbia e lo sgomento. «Ah! Cinquemila per il signore in prima fila!» Mi rimisi in piedi, la mantella che si drappeggiò alle mie spalle. «Cinquemila e uno... » Il banditore parve incominciare il conto alla rovescia, in mancanza di altre offerte.
«Settemila!» gridai, dal fondo della grotta. Tutti si girarono a guardarmi ed io abbassai la faccia, ma continuai a tenere il braccio alzato. Sentii la collera sedimentarsi su di me come una patina di sporco: qualcuno non doveva aver approvato la mia entrata in scena. Oh, il famigerato signore in prima fila.
«Diecimila e la chiudiamo qui.» ringhiò, alzando la mano. Che faccia tosta!
«Diecimila e uno!» sbottai, stringendo i pugni, lanciando uno sguardo collerico all'uomo da sotto al cappuccio. Era una questione di principio e mi sarei attaccato fino all'ultimo centesimo.
«Quindicimila.» sibilò, ancora una volta. Non voleva proprio demordere, quel viscido porco. A guardare meglio i lineamenti di quel signore attempato, aveva qualcosa di familiare... Persino la sua voce lo era. Era impossibile che in quel postaccio ci fosse qualcuno che conoscevo.
«Trentamila.» dissi, la voce affilata come una lama. Era un prezzo talmente esorbitante che non avrebbe potuto permetterselo nessun altro.
«E va bene! Tieniteli pure, i tuoi mocciosi Omega!» sbraitò l'uomo, mentre si alzava dalla fila e si allontanava irritato. Sorrisi trionfante, mentre il banditore diceva a gran voce: «Aggiudicato!» Poi mi fece cenno d'avvicinarmi, così da potermi consegnare i poveri bambini che per gli altri erano merce e per me due povere creature nel posto più sbagliato al mondo. Ero confuso e spaventato io, non immaginavo come dovessero sentirsi loro.
Quando però arrivai ai piedi del palco, ricordai che i soldi che avevo promesso li dovevo a loro in quel preciso momento. E io avevo solo uno stupido anello di smeraldi che faceva da surrogato a quello con lo stemma reale, che non valeva nemmeno un terzo di quanto pattuito. «I bambini.» mi imposi, allungando le mani.
«Prima il denaro.» sentenziò il banditore. La gente mi fissava, aspettava, bramava un colpo di scena. Se non potevo permettermeli, se li sarebbero presi loro. Tentennai, paralizzato. Che dovevo fare? Non avevo soldi! «Allora?» incalzò l'uomo.
«I-io...»
«SU, SGANCIA QUEI SOLDI E ANDIAMO AVANTI CON L'ASTA!» urlò qualcuno fra le sedute. Il cuore stava ululando dentro al petto e non riuscivo a regolarizzare il respiro. Sicuramente Ymir doveva aver scoperto tutto. Sarebbe arrivata lì da un momento all'altro. Magari con gli Alpha che mi corteggiavano. Le cose si sarebbero messe a posto. E io non potevo assolutamente accettare che i bambini finissero nelle mani di quella gentaglia.
Perciò, tanto valeva imparare il senso del sacrificio. Per quel che sarebbe durato.
«Non ho soldi.» L'espressione del banditore s'inasprì, furibondo perché avevo fatto perdere tempo a tutti. Era pronto a gridarmi addosso, ma io lo anticipai. «Però sono io stesso un Omega.» Mi abbassai il cappuccio e alzando coraggiosamente il viso, dissi: «Offro me stesso come pagamento.»
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