Regola n.9: un regalo è sempre un ricatto


Ero ancora sconvolto. Il bacio mi bruciava sulle labbra e si fondeva ad un misto di rabbia e sbigottimento, mentre tornavo all'interno del palazzo con l'aria di chi si era preso una potente insolazione. Chi aveva bisogno della sua protezione?! Io? Non mi serviva un Alpha arrogante a difendermi: essere un omega significava dover scendere a compromessi, ma accettavo che al mio fianco ci fosse la mia fedele scorta.

Le guance in fiamme e il corpo accaldato, soffocai l'istinto di sventolarmi e al tempo stesso di digrignare i denti, poi mi risistemai la maschera sul viso, obbligandomi a fare finta che non fosse successo nulla.

«Sai che ore sono?!» mi assalì Ymir, spuntando da un angolo della portafinestra, da cui io ero appena entrato, abbandonando la tiepida penombra dei giardini reali. «Stavo per venire a cercarti.» Mi avvisò, con uno sguardo severo, mentre io incassavo la testa fra le spalle, rosso di vergogna sul viso, sperando che le mie imprudenze non fossero evidenti dal mio sguardo ambrato.

«Hai ragione, scusa...» mormorai, appiattendomi i ricciolini sulla testa per assicurarmi che non avessero gelsomini impigliati e non fossero troppo incasinati dopo che il misterioso criminale aveva fatto scorrere le sue dita proprio lì, nel mezzo delle ciocche, poi sulla nuca, sulla guancia, sulla spalla, sulla schiena, sul mio fianco...

«Per gli spiriti, Taye!» esclamò di nuovo la mia guarda del corpo, arricciando il naso e deglutendo. «Controllati per favore.» Battei le palpebre confuso. «I tuoi feromoni.» Spalancai le labbra, imbarazzato a morte: non mi ero accorto che li stessi involontariamente emanando, non ero neanche in calore!

«S-scusa, non so che cosa mi sia preso!» balbettai, contenendo immediatamente il mio odore ricolmo di desiderio, cosa che fece distendere la fronte corrugata di Ymir, che tornò ad un'espressione vagamente spazientita, ma normale. 

«E' evidente che sei turbato da tutta questa storia.» sospirò alla fine, alzando gli occhi al cielo. Poteva permettersi di fare certe considerazioni solo perché il corridoio era vuoto. Per quello che ne sapeva la corte di Samarcanda, dovevo essere felicissimo dell'arrivo dei miei pretendenti, nonostante qualcuno avesse attentato alla mia vita non troppo tempo prima. «Ma prima mettiamo fine a questa serata e meglio è.»

Annuii e, senza dire un'altra parola, la seguii nella sala da ballo tappezzata di mosaici turchesi che era stato teatro della mia danza illecita con un uomo mascherato coperto da un mantello di piume nere e avvolto dal mistero. Stringendo i pugni, mi rimproverai mentalmente: non dovevo pensare più a lui. Avevo già abbastanza problemi così: se non scoprivo e sconfiggevo velocemente chi mi aveva preso di mira non sarei riuscito a scongiurare il matrimonio con uno dei sei corteggiatori. Non sarei mai diventato il Re, solo il marito del Re, l'ingravidato dal Re. E questa era l'ipotesi migliore.

Nella peggiore, i miei aggressori vincevano ed io morivo. 

Una sensazione di travolgente paura mi fece tremare le gambe, ma riuscii ugualmente ad entrare con grazia all'interno della stanza. La pista da ballo era stata sgomberata, la lunga tavolata imbandita dove mia madre Dafne parlava col resto degli Okoro era sparecchiata. Tutti i presenti, fra i membri della corte, la famiglia reale, i cittadini illustri e le delegazioni straniere giunte con gli Alpha si erano raccolti al centro della Sala da ballo a formare un semicerchio. Quest'ultimo capeggiato da una fila di troni: le due regine e i sei ospiti d'onore erano seduti, ognuno di loro sembrava troppo grande, o alto, o potente, per essere contenuto da quella sedia. 

Mi si attorcigliò lo stomaco quando più di un centinaio di occhi si posarono su di me, carichi di aspettativa. Fra di essi riconobbi quelli di mia sorella Tahani e del suo odioso fidanzato, che erano venuti disgraziatamente ad unirsi alla festa. Intanto, uno dei ciambellani si separò dalla folla concitata e annunciò quello che stava per succedere con una voce strillata e nasale.  

«Siiiignooore e Siiiiignooori, Sua Altezza Reale Taye Okoro aprirà ora i doni che le Eminenze straniere hanno portato da moooolto lontaaano.» Proprio in quel momento, due servi apparvero dalle porte alle mie spalle trascinando un grosso carrello, il cui cigolio si udì nel silenzio mortale. Poi lo sistemarono sulla pista da ballo vuota, nello spazio fra me e la folla, come due forze opposte separate solo da quei pacchi che venivano scaricati con rapidità sul pavimento di marmo. 

Il carrello venne trascinato via e restai solo - a parte Ymir un passo indietro rispetto a me - insieme a sei regali deliziosamente incartati, le scatole preziose di grandezze differenti, alcune giganti e altre minuscole, che aspettavano di essere aperte. Ricordai una delle regole chiave del mio libro preferito, la Rivendicazione degli Omega. Diceva che "un regalo è sempre un ricatto": un Alpha ti dona qualcosa ed è convinto che sia il lasciapassare per assalirti quando meglio crede. Non mi sarei lasciato abbindolare, proprio per niente. 

Lanciai un'occhiata a mia madre, la Regina regnante, che mi indirizzò un eloquente cenno del capo, come ad invitarmi a darmi una mossa. Poi feci scorrere le iridi ambrate sul mucchio di doni, scegliendo per primo un pacco cilindrico di media dimensione, incartato con della seta color vinaccia e chiuso in cima da un fiocco di raso vermiglio e ramoscelli di pungitopo. 

«Il dono è stato geeentilmente offerto dal Duca Hernandez-Varela.» spiegò a gran voce il ciambellano, un annuncio che mi spinse ad osservare colui che era stato chiamato in causa. Mi rivolse un sorriso smagliante e un movimento ammiccante di sopracciglia. Mi addentai l'interno della guancia, distogliendo le pupille col rossore che mi pungeva le guance. Poi sciolsi il fiocco e rivelai il contenuto del regalo. Si trattava di una campana di lucido vetro soffiato, impreziosito da opachi decori sul bordo. Al suo interno, una luminescente rosa rosso sangue fluttuava emanando un delicato bagliore magico. 

Sospiri di meraviglia s'innalzarono dalla folla, accompagnati da scroscianti applausi. «Una rosa di sangue, che si può cogliere solo in un giardino maledetto durante una notte di luna rossa. Non sfiorirà mai, a meno che non stia per verificarsi una terribile disgrazia a chi la possiede.» disse il duca, ravvivandosi i riccioli mogano all'indietro, mentre tutti lo osservavano pendendo dalle sue labbra. «E ora è vostra.» Avrei mentito dicendo che non fosse spettacolare. Soffocai la tentazione di poggiare le dita sulla campana che racchiudeva la rosa per sentire se il suo bagliore lasciasse caldo il vetro, evitando di lasciarci sopra ditate. Piuttosto, gli rivolsi un cenno di gratitudine e passai al regalo seguente, mentre un servo si occupava di quello già aperto.

Concentrai la mia attenzione su un pacco quadrato alto quasi quanto me, bucherellato, che continuava a muoversi e sussultare. Avevo capito già che ci doveva essere qualcosa di vivo, all'interno, ma non immaginavo cosa potesse essere. Il ciambellano annunciò che si trattava del dono del principe Narayan, che non aggiunse altro, se non uno sbuffo annoiato. Dovetti sollevare il coperchio della scatola azzurra mettendomi in punta di piedi. Una volta tolto quello, le quattro pareti del quadrato si aprirono contemporaneamente, cadendo a terra, per rivelare al suo centro un grasso cigno dalle piume d'argento.

Per un attimo se ne rimase acquattato su se stesso, come se osservato dai tanti occhi della folla silenziosa lo avesse fatto sentire in soggezione. Poi però, quando mi vide, si alzò sulle zampe, drizzò il collo e starnazzò un orribile «QUA QUA!». Tremò dalla testa ai piedi e con un plop improvviso defecò uno splendido uovo fabergé, un capolavoro color zaffiro incastonato di diamanti, perle e tutta una serie di stucchi dorati, che rotolò verso di me. 

Battei le palpebre, soffocando con difficoltà la voglia di scoppiare a ridere, mentre invece l'intera corte si lanciava in esclamazioni stupite e ammirate. Ero certo che ognuno di loro avrebbe spasimato per un pennuto capace di deporre lussuosissime uova. Io invece lottavo per non sghignazzare. Il povero animale riprese a starnazzare e venne velocemente portato via, forse in un lago fra i tanti del giardino reale, forse in un cenote, forse in una delle vasche interne al Palazzo. Mi sarei assicurato che la creatura avesse un luogo di riposo dignitoso, l'indomani, visto che a quanto pare mi apparteneva. 

Ora però dovevo continuare con quella ridicola tradizione: finire di scartare i regali, simbolo del prestigio dei miei pretendenti, o solo un vezzo per sancire l'inizio del corteggiamento vero e proprio. La terza scatola, quadrata ma di modeste dimensioni, era splendida anche solo dall'esterno: foderata in stoffa di broccato turchese, era intessuta con tritoni, sirene e creature marine. Sollevai il coperchio e aggrottai la fronte. Dall'interno mi guardava una strana stella di legno, tridimensionale, con almeno una sessantina di rombi che ne costituivano la punta. Sembrava una pigna. Non capivo sinceramente cosa fosse.

«E' un regalo per stuzzicare il vostro intelletto, Altezza. Proviene da alcune regioni inesplorate nell'est del Thai.» spiegò Ser Lorence, colui che me l'aveva regalato, sistemandosi meglio il monocolo dorato davanti all'occhio. «Si tratta di un rompicapo. I rombi di legno possono essere spostati o spinti verso l'interno. Lo scopo è aprire la stella e scoprire cosa si cela al suo interno.» Intrecciò le mani e vi posò sopra il mento, i gomiti posati sui braccioli della seduta, un luccichio scaltro negli occhi color smeraldo. «Un giorno forse saprete quale vero regalo si cela in quel rompicapo.»

Avevo la bocca aperta. Quell'Alpha credeva nell'intelligenza di un Omega? Era una specie di evento. Le persone intorno a noi, guardando quella complicata struttura di rombi di legno incasellati a formare una stella, sembravano particolarmente delusi. Io, invece, ero piacevolmente stupito. 

«Un giorno che arriverà prima di quanto crediate.» risposi, con un sorriso vispo nascosto dal velo di medagliette dorate, ma che al mercante non sfuggì. Poi passai al regalo successivo. La scatola rettangolare, ampia all'incirca quanto un libro, nera e con disegni di dragoni serpenteschi fatti d'oro, non poteva che appartenere al principe Masashige. 

All'interno c'era una pergamena antica, arrotolata su due perni d'oro massiccio, i manici a forma di serpenti che afferrai per aprirla lanciando l'altro capo del rotolo sul pavimento, così da svelare metri e metri di carta di canapa, punteggiata da vivaci disegni. Si muovevano, mostrando uno scenario dopo l'altro. «Quella pergamena racconta una ssstoria. Quando avrete concluso di vederla fino alla fine, potrete passsssare all'episssodio sssuccesssivo ssscuotendo i manici e dicendo "avanti".» spiegò il principe, facendo saettare la lingua biforcuta fra le labbra. L'intera corte stava allungando il collo per vedere la pergamena. «Nel mio regno ssssi chiama ssstreaming.»

Accarezzai la carta un'ultima volta, sentendo le immagini dipinte prendere vita sotto alle mie dita, prima che richiudessi la pergamena, impressionato da quella magia come lo era il resto della corte. Ringraziai e passai avanti. Una busta di iuta che ricordava tanto un sacco di grano, ma decorata da perle colorate e zanne d'avorio, conteneva il dono di Akia Niaré, il beniamino di mia madre. Affondandoci dentro le mani, sentii qualcosa di morbido. Liberai, sollevandola dal suo involucro, una sorta di giacca di pelliccia. Aveva il colore della busta di iuta in cui era contenuta, eppure, quando la separai del tutto dalla sacca, sorreggendola fra le mani, la pelliccia cambiò, assumendo il mio tono di pelle.  Per poco non la lasciai cadere a terra dalla sorpresa.

«Pelliccia di mammut camaleontico, l'ho cacciato io stesso per voi.» Un servitore infilò un rubino nella tasca della giacca, secondo istruzioni dell'Alpha, e la pelliccia divenne dello stesso rosso intenso e scintillante. Mio cugino era verde d'invidia, ma io contenevo a fatica una smorfia. L'idea che fosse stato ucciso un animale per quell'indumento, apposta per me poi, mi faceva arrabbiare. Che cosa diamine me ne facevo poi di una pelliccia?! 

Borbottai uno stentato ringraziamento, che mi valse un'occhiataccia dalla regina, e finalmente arrivai all'ultimo regalo. Andando ad esclusione, si trattava del dono di Jörvar Laufarson, come mi confermò infatti il ciambellano. La scatola, un lungo rettangolo piatto, era l'unica tutt'altro che sfarzosa. Di semplicissimo cuoio marrone, non aveva proprio niente di speciale dall'esterno, nessun decoro, nessun suggerimento. Non sapevo cosa aspettarmi e capii che non l'avrei mai previsto, quando scoperchiai. 

La ressa di spettatori si lasciò andare a mormorii sconvolti. «Si farà male da solo!» dicevano alcuni. «Quello non è un regalo!» o ancora «Che sciocchezza fuorviante!» Entrambe le regine si mossero irrequiete sulle loro sfarzose poltrone. Ymir alle mie spalle sospirò. Perfino il resto degli Alpha si voltò a guardare il Lupo Bianco come se avesse commesso un qualche tipo di crimine. L'uomo, a guardarlo il classico prototipo del principe - benché non lo fosse, a differenza di alcuni dei miei pretendenti - coi capelli biondi intorno al viso e gli occhi di un chiarissimo azzurro, si limitò ad osservare solo me. Con uno sguardo fisso e penetrante. 

Gli sorrisi. Perché dentro alla scatola c'era qualcosa che nessuno avrebbe mai regalato ad un Omega. Un'arma. Una splendida spada con il fodero e l'elsa doro, decorata con perle e dettagli a forma di conchiglie, in onore alla mia natura. La lama affilatissima era, a sua volta, screziata da ornamenti che andavano fino alla punta. Era un vero gioiello. Ed era pericoloso, specialmente per ciò che rappresentava: una specie di sfida al ruolo che mi imponeva la società di Samarcanda. Educato, gentile e dimesso come mia madre Dafne.

Quell'uomo si guadagnò improvvisamente la mia stima e, mentre i servi sgomberavano la pista da ballo dai regali e dai troni, facendo riprendere regolamente la festa, io mi congedai ripromettendomi di parlare quanto prima con quell'Alpha. 


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