Capitolo 3
Volenti o nolenti, lo spettacolo deve continuare; e non c'è bisogno di tornare indietro. Ormai è mattina a Berlino: la temperatura esterna si è fatta più mite, con il sorgere del sole, e Yehoudith, infagottata sotto una coperta marrone, si carezza la nuca a un passo dal cavalletto. I capelli, radici tronche, le fuggono via dalle dita non appena prova ad arricciarseli. Ha il naso arrossato, gli occhi gonfi, ma sa che neppure la lontananza da casa le dà il diritto di fare ciò che vuole; e come potrebbe, se ad averla trascinata fuori di lì è stato proprio Roswin Krämer, un nazista? Palmi sul legno, cera lucida contro la pelle e sole negli occhi, che scivola tra le grate due pollici sì e uno no, quando fa pressione e solleva il busto. C'è ancora del sonno nella sua disillusione. La lana le cade dalle spalle e si aggomitola attorno alla vita: una salsiccia. Gomiti a terra, Yehoudith solleva il mento e osserva il vetro pulito, aperto a quarantacinque gradi, che la divide dall'esterno della villa.
Potrebbe urlare, vi direte, o chiedere aiuto, cercare uno sguardo complice nel primo passante in strada; ebbene, se così fosse non conoscete a dovere il 1942! Iniziamo con "l'erba del vicino è sempre più verde" e concludiamo con "chi si fa i fatti suoi campa cent'anni": due detti importantissimi da tenere a mente, per orientarsi nell'anno. Cosa fondamentale, poi, è non ficcare il naso negli affari dei pezzi grossi; e Roswin, come abbiamo visto e rivisto, è un maggiore delle SS. Ecco perché, anche se c'è un tale sulla strada, che fiancheggia le siepi a testa alta, Yehoudith non si azzarda a richiamarne l'attenzione dalla soffitta. L'ipotesi migliore è vederlo andare via, la peggiore, invece, quella di ritrovarselo all'ingresso della villa, per avvisare Roswin della cattiva condotta della sua ospite.
Dunque prende una boccata di coraggio e si leva in piedi, calpesta la coperta come foglie secche sulla strada di casa. Gli occhi che fanno avanti indietro per la stanza ora illuminata a giorno. Si sofferma su un oggetto, poi su un altro: i pennelli, i colori e ancora i blocchi di carta pregiata, il cavalletto, la tela intonsa e il carboncino. Non può fare a meno di pensare al rosso; poi lo vede: è come una macchia. Cola piano, goccia, si punta in terra. E se ne aggiunge altro; lì, sempre lì. Sembra acqua capricciosa che scappa dal lavandino. Yehoudith porta una mano al viso, alle labbra e al naso, laddove, con l'indice, si porta via del sangue, poco prima che il rumore della botola la fa sussultare.
Questa si spalanca a pochi metri da lei, con un cigolio sinistro simile al creek di legno e cardini arrugginiti. Infine le scalette tutte unite si calano di botto al piano inferiore, dove cade pure lo sguardo di lei. «Hai dormito bene?»: una domanda retorica, questa, perché a Roswin non interessa davvero la risposta.
Annuisce, non vuole rischiare d'indisporlo. La verità è che ha paura, quando biascica un "sì" a mezza bocca. Chi potrebbe dormire bene in terra, se non un animale? Il fatto è che Yehoudith continua a ripetersi non sono un animale; e io, umile Narratore, non mi sento di contraddirla.
Quand'ecco che le pupille di Roswin si fanno piccole, simili a proiettili. «Che ti è successo al naso?». Infastidito, più che allarmato, abbandona la botola e raggiunge Yehoudith; un paio di falcate, la presa sul polso, occhi senza stelle: soffia vita dalle labbra torte e la sente mugolare appena, con le sopracciglia che si muovono convulse come a chiedere pietà.
A seguire: «Mi lasci, per favore», e ancora, «è solo sangue, maggiore Krämer».
«Non mi sembra di averti dato il permesso di sanguinare»: una frase così sciocca e al limite del possibile, che Yehoudith può solo sollevare le palpebre nel consequenziale "giusto", prima che Roswin concluda con un: «Dunque?», portandola a dire "mi dispiace".
Poi li vede: sono i suoi capelli intrecciati, trattenuti da un nastro di raso bianco in quella che pare la forma di una corda a più riprese; una pettinatura diversa da quella che Roswin ha improvvisato la notte scorsa, di certo più elaborata. Pizzica le narici, s'impone di non sanguinare, come ha detto lui, e sente il sapore del ferro in gola. Quasi soffoca, ma butta giù e ingoia, con la lingua che sa di aspro e le ricorda una sponda del letto. «Perché me li ha portati?», chiede.
«Mi sembrava di avertelo già detto», sbuffa, «sono parte del dipinto».
Lei ritorna con la mente a qualche ora fa e capisce di non esserselo sognata. Emette un piccolo oh, con le labbra schiuse come una bimba piccola, infine lo sente ridacchiare; colpa dell'espressione che ha fatto, ebbene sì, ma non lo sa e non se ne accorge nemmeno: pensa che ho fatto adesso? mentre batte le palpebre.
«A ogni modo...», Roswin abbandona il feticcio accanto ai pennelli intonsi, «... eccoli qui». «Mi auguro che tu sia pronta».
Pronta per cosa? Non fa che fissare la treccia. Fosse per lei, cercherebbe d'incollarsela, o quantomeno legarla sotto un cappello. Ha le labbra all'ingiù, e poco importa del resto, perlomeno fin quando medio e pollice di un nazista non le schioccano di fronte al naso. Al che sobbalza e il cuore le si ferma per il tempo di due battiti. Salta, forse. Pronta per dipingere la tela rossa, si ricorda e annuisce. «Sono pronta».
Roswin fa mh e, con il piede, punta un secchio; quello che sta sotto al mobile dei colori, a un passo da lui: ci batte contro con la scarpa, fa risuonare la lamiera. «Dopo la mano di rosso, Gitte, tira fuori questo».
«Che sarebbe?», lo incalza curiosa, un sopracciglio grezzo, simile al topazio, sollevato, «Può dirmelo anche subito, no?».
«No, affatto».
«Come mai?».
«Mi piacciono le sorprese».
A me non proprio: una risposta che le muore in gola, che non si azzarda a dare e che, ancora, si tende al di là del ghigno sul suo viso di luna. «D'accordo». Se le piacessero, in fondo, sarebbe contenta anche del nuovo taglio di capelli.
L'odore della vernice fresca, la trementina pungente sul panno grigio e ancora l'olio in bottiglia, nella boccia di vetro, sulle setole di bue; quelle che ha scelto Roswin un paio di giorni prima dell'arrivo, o rapimento, di Yehoudith. È questo che la circonda, ed è sempre questo, per assurdo, che la tranquillizza: un vortice rosso, puntato dietro all'indice destro, che è impronta bassa sulla tela. Una firma, un ricordo, un nome senza lettere, quel polpastrello. Si ritira e pulisce il dito con foga. I tacchi sul legno, la trementina tra le trincee fatte di pelle. Dunque è il turno del secchio. Posa lo straccio su di lui e fa leva con un cacciavite piatto tutto intorno al tappo di lamiera. Poi, quando lo apre, sente la puzza salire in alto: una vampata calda di fronte al camino acceso farebbe meno male. Yehoudith è assalita da un conato, ma subito lo rimanda giù, perché non è certo così viziata come sembra! Oh, non tutte le ragazze ebree fanno le schizzinose, pensa; così come non tutte le ragazze ebree sono cocciute e forti, aggiungo io. E osserva dall'alto questa poltiglia scura, si chiede che diamine è?
Voi volete saperlo, immagino. Bitume. Lo conoscete, o ne avete sentito parlare? Forse sì, forse no, ma di certo lo avete visto, perché è molto usato; e io non sono qui per farvi da professore. Sono o non sono il Narratore migliore del mondo? Dunque, andiamo avanti!
Schifata, Yehoudith storce le labbra e si porta una mano alla bocca. Sopracciglia tese, vermicianti, e naso arricciato. Chiude il tappo alla buona, perché non riesce a pressarlo bene; in nessun modo, neppure con una tallonata. Ah, la grazia di questa ragazza è impareggiabile! Si allontana alla svelta, raggiunge il quadrato ancora aperto e, china come in preghiera, stringe le dita attorno al bordo di legno. «Maggiore Krämer», lo chiama a vocale lunga. Nessuno risponde. Allora ritenta: «Maggiore Krämer», e forse, si dice, posso anche andarmene di qui.
Quand'ecco che, piede messo sul primo scalino, spunta dal basso Clementine, la moglie di Roswin. Sorriso affabile, se ne esce con un: «Buongiorno, Gitte».
Questa si prende un colpo, per poco non sviene e rotola in terra, dove pure se ne sta il cane con il muso all'insù. Quella piccola macchina da guerra!
«Buongiorno, signora», balbetta, perché non se lo ricorda nemmeno, se Roswin l'ha presentata. Ha detto che il cane piace alla moglie, riformula, ma chissà qual è il nome del cane! Al riguardo di Clementine, ormai ci ha rinunciato.
«Si può sapere cosa stavi facendo?».
È inquisitoria. Yehoudith la osserva, la studia: i capelli acconciati in boccoli d'oro, le ciglia ricurve, le spalle tonde, il ventre terrestre; tutto, in lei, suggerisce la profondità di una sfera. E in dolce attesa. Siede sul bordo della scalinata, qui in soffitta, e manda giù un groppo di saliva. Il sorriso forzato sul volto di luna, si stringe nelle spalle. «In bagno», mente, «speravo di poter raggiungere il bagno, signora», perché è certa di scorgere compassione negli occhi bruni di Clementine. Dunque le mostra le mani sporche di trementina. «Ho bisogno di un po' di sapone».
«Strano che mio marito non te l'abbia portato».
«Se lo ha fatto, io non l'ho trovato...».
Neanche il tempo di concludere la frase, che Clementine emette una risatina asciutta. «Dovrebbe essere un mio problema?».
No, non c'è compassione nei suoi occhi: solo tanta noia; e io, il Narratore, lo confermo. Inutile stare lì a battere le palpebre perplessa, Yehoudith, suvvia! «Immagino di no».
«Immagini bene», e perché restare, quando può andarsene, con un uff annoiato?
In serata, dopo aver mangiato solo aria, acqua e polvere, Yehoudith sente l'eco della voce di Roswin che, dal piano di sotto, risale fin su in soffitta.
«Come sarebbe a dire che non le hai portato il pranzo?», inizia, quasi ridacchia: sono solo chiacchiere gioviali con sua moglie; ecco perché questa arriccia le labbra e sbuffa come una teiera bollente.
«Cielo, non pensavo che dovessimo anche sfamarla».
«Se non la sfamiamo, chi pensi lavorerà per me?».
«David», decisa, «o non lo vuoi più?», ora dubbiosa, «Perché spendiamo soldi per far mangiare lui, allora?», e piuttosto irritata.
Non c'è bisogno di spiegarglielo, pensa Roswin, in fondo lui è il capo anche a casa, è quello che porta i pantaloni, per Diana! e non deve dare spiegazioni. La raggiunge alle spalle, in corridoio, e sorridente l'abbraccia, perché è questo il suo modo di rabbonirla: dolcezza, parole soffuse nell'orecchio e promesse, che manterrà con un a collana d'oro o un paio d'orecchini di perle. Dunque le bacia il collo, ode il piagnisteo lontano di suo figlio piccolo, Hubert, che in salone si litiga il trenino di legno con Willard, il maggiore, e ignora tutto. «Quando riempirà il buco e non servirà più a nulla, smetteremo di sfamare anche lei».
Clementine storce la bocca in una smorfia, non è molto convinta: conosce suo marito e il modo in cui s'incapriccia dell'arte; lo diceva anche di David, eppure sta ancora qui, nel sottoscala, a fare Dio solo sa cosa! «Va bene». Lo dice solo perché non ha voglia di litigare e perché, invero, «... ho voglia di Stollen».
«Ma non è Natale».
«Lo so», le si allarga un sorriso sornione sul viso: sa che Roswin metterà la cuoca sotto torchio, «ma donna Ottavia ha partorito un mese fa; e le carissime mogli degli amici tuoi, passerotto, dicono che abbia tirato fuori un mostro con il viso di due colori diversi, che poi suo marito Holdeger Weber ha tolto di torno con una rivoltella, per non vederselo strappato via un anno dopo o qualcosa del genere».
«Non ne sapevo niente», batte le palpebre, «non sapevo neppure che sua moglie fosse in dolce attesa».
«Questa cosa è imbarazzante...», mpf, e trattiene una risata, «... è un tuo collega».
«Non parliamo di certe cose», incrocia le braccia risentito, perché lui è un uomo e come tale non mi dedico alle chiacchiere. Ma a chi vogliamo darla a bere? Perfino Hermann Göring se ne va in giro come un pavone dalla coda spiegata! Sopracciglia tese, inizia: «È il futuro della Germania, l'arte, la pulizia...», e si ferma.
«Non ho intenzione di partorire un mostro con la voglia di Stollen sulla faccia».
«Certo, certo», taglia corto, «avviso Melitta».
Clementine annuisce, di nuovo sorridente, e osserva Roswin che si allontana a grosse falcate lungo il corridoio. Poi, schiarita la voce, la solleva in un forte: «Bambini!», e allunga la "i" per qualche secondo di troppo, spaventando perfino Oreste, che sobbalza e so nasconde dietro il tavolino basso del salone.
Willard abbandona la presa sul trenino di legno, Hubert cade in terra e sbatte il sedere sul tappeto. È così che riprende il pianto, questa volta, però, davvero accorato, mentre Clementine, esasperata, si passa una mano sulla fronte e chiama anche lui, quello che nel frattempo è tenuto lì come la balia di turno: David.
Questo si presenta al piano signorile saettando su per le scale in pieno allarme, fin poi a chiudersi la porta alle spalle. Tutto trafelato, gli occhi grandi, scuri, che si guardano a destra e sinistra; e i riccioli scomposti, che gli ricadono sul viso e sulla fronte: entrambi simili a tizzoni in fiamme, radici della Foresta Nera, piccole porzioni d'una favola vecchia. Naso dritto, ora appena allargato per lo sforzo, e labbra rosee, come le guance, appena umide nella loro pienezza. Fronte corrugata, pensieri d'un topo in cantina, ma pelle chiara. E chissà perché è una balia, chissà perché è qui, chissà come si chiama davvero questo David cesellato nella carne e nelle ossa.
Io, essendo il Narratore, lo so già; ma non voglio vantarmi troppo, perché le cose potrebbero sfuggirmi dalle dita.
Ebbene, ragazzi, il capitolo è giunto al termine anche questa volta. Ci ho messo un po' ad aggiornare, mea culpa. Fosse per me starei sempre a scrivere, ma è difficile trovare la concentrazione, quando ti ronzano attorno come mosche. Cosa ne pensate delle novità?
Lasciate un commento e supportatemi con una stellina. Bless U ⭐️
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top