Capitolo 2

Pare che Yehoudith dipinga, ma come faccia Roswin Krämer a sapere delle sue doti artistiche resta ancora un mistero; a questo punto il lettore si dirà "C'è qualcosa che non quadra", o "Cosa mi sono perso?", ma a me piace mantenere una certa suspense. Ricordate la questione del Narratore? Ebbene, io sono quello che può tagliare la scena e tornare indietro di qualche giorno. Perciò, indovinate cosa faremo adesso.

Con la bellezza di meno quindici gradi, il sole che filtra in una coltre grigiastra di novembre, Roswin sistema la cintola attorno al capotto e saluta Clementine, la bellezza dal boccolo cotonato, sulla soglia della porta di casa. Un bacio a fior di labbra, il naso che carezza la pelle lattea del viso, addirittura il suono docile di un sorriso che si ritira nella spalla nuda e, infreddolito, cerca riparo al di sotto della vestaglia. Sta morendo di freddo, Clementine, come tutte le dannate mattine; eppure sa che a Roswin piace ricevere l'ultimo saluto neanche dovesse andare in guerra. Già, lui è un'SS, un maggiore delle SS, ma non si occupa che di gestione interna a Berlino: censura, arte, o giù di lì; qualcosa per la quale Himmler va molto fiero, ma che, di certo, non gli fa rischiare la vita nottetempo.

Dunque, dicevo: mattina, meno quindici gradi, un saluto a Clementine, infine la porta chiusa alle spalle. Roswin si dirige svelto verso l'auto, mette in moto e poi, spedito, raggiunge il comando centrale. È qui che, dopo i saluti di rito, ha già la gola secca. Pensa di aver bevuto poco caffè, ma non è questo il punto. Appena vede Holdeger Weber gli viene un dubbio: ho riempito il buco nel muro? Perché sì, Holdeger Weber se ne è uscito con l'infelice frase "Krämer, lei ha una collezione bellissima, ma temo che debba fare qualcosa per questo grosso buco nel muro"; parole che lo hanno toccato nel profondo e che ancora gli rimbombano in testa. Chi è Holdeger Weber? Il colonnello del suo stesso dipartimento, se ve lo state chiedendo; e, se non ve lo state chiedendo, pazienza: è importante che lo sappiate prima che inizi a parlare.

«Hail Hitler». Troppo tardi, forse.

Roswin va per secondo: «Hail Hitler, Standartenführer», e non è cosa buona, perché Holdeger è un superiore.

Sospira, crede di avere davanti un caso disperato e batte le palpebre come ali di colibrì. "Svegliatemi da questo incubo", pare dire. Solleva le sopracciglia folte, se ne esce con: «Ha risolto quel problema?».

«Lo sto risolvendo».

«Sarebbe un peccato che la parete restasse così com'è».

«Non ne dubito».

«Glielo dico con il cuore, da amico, come un fratello: ha un gusto impeccabile Krämer, non lasci che quel buco rimanga lì fino alla prossima cena, o farà una pessima figura con i colleghi»: è una sviolinata che a Roswin non piace, perché Holdeger pare troppo interessato a fargli fare bella impressione su tutto l'Ufficio Centrale; eppure potrebbe iniziarla anche lui, la collezione, no?, così si dice.

Annuisce, mastica un amaro: «Certo, colonnello», e non ha neanche il tempo di organizzare le idee, che Holdeger si volta nella stanza.

A mento e tono alto, fa: «Siamo invitati da Krämer, per questo fine settimana». Decide per lui e dà per scontato che non si vedrà dire di no; oh, e come potrebbe succedere una cosa del genere a chi è così alto in grado?

Se non che, precisiamo, a rosicchiare nell'orecchio di Roswin, fino a scavargli un solco nel cervello, è il tarlo di non poter riempire il maledetto buco in così poco tempo; quant'è: tre, quattro giorni? Ricevere i colleghi è facile, c'è la servitù, e non deve nemmeno pensare a cosa mettere sotto i denti, perché a quello bada Clementine, con le sue voglie da donna incinta; ma tre, quattro giorni? È pallido, più pallido del solito, tant'è che, per un attimo, l'Ufficio Centrale si chiede se ci arriverà tutto intero al fine settimana. Eppure non fa più freddo del solito e "I miei piedi sono sopravvissuti ai geloni, quand'ero piccolo": non aveva forse detto così quel bellimbusto del maggiore? Ma sì, comunque, ci arriverà tutto intero e con entrambi i piedi attaccati alle caviglie, aggiungo io! Eccolo che sta lì e solleva gli angoli delle labbra, mentre forza un sorriso quasi si fosse seduto sul cavallo, emorroidi di fuori; niente di che: un vero esempio riportato sul manifesto della Razza.

E ci rimane tutto il giorno, naso negl'incartamenti e indice teso sulle liste, fin quando non si convince che gli ortodossi del quartiere dei granai siano abbastanza ricchi, per essere importunati; ammesso e non concesso che ne sia rimasto qualcuno, in quella marmaglia di giudei, perché sì, ormai ci abita la qualunque lì. Merito o colpa delle SS, del Reich? A Roswin non importa; anzi, non passa neanche per l'anticamera del cervello. Sa che è una sistemazione provvisoria e Berlino è sul punto di diventare una stella nascente. Che diavolo, non scherziamo, lo è già! Basta girarsi a destra e a sinistra per vedere lunghe bandiere rosse con la svastica al centro città; quale altra capitale europea tratterebbe così bene i monumenti?

Dunque, arrivato a sera non ci pensa neppure un secondo: saluto di rito e direzione quartiere dei granai. Il freddo gli penetra nelle ossa, appanna il parabrezza della Berlina. Ogni respiro che si lascia scivolare è una macchia bianca, un balzo di ruote a centimetri da terra. Finestrini aperti e sigaretta in bocca, Roswin sputa fumo e fa il drago a denti stretti, perché non li vuole sentir battere come quella volta che, a cinque anni, è caduto nel Breg. Gela sotto i guanti in pelle, con il naso rosso e le labbra secche, mentre punta la strada illuminata dai fari, che tiene bassi per non prendere nemmeno una buca. Poi frena e si ferma dai cancelli di legno, sbuffa una boccata più acida e, con la coda dell'occhio, guarda il tale in divisa semplice. Braccio fuori dal finestrino, dice: «Hail Hitler», e solleva il mento nel profilo della luce.

Questo, sconosciuto ai più, arriccia le labbra e si tira in piedi, come quello accanto a lui, che sta a pochi metri su un'altra sedia. Salutano come si deve, perché è scortese non farlo, poi il primo se ne esce con un: «Chi è lei, mi scusi?», non appena nota bene il cappotto di Roswin; domanda legittima, che da Narratore ritengo anche abbastanza scomoda, perché capitano sempre quei soldatini semplici che se ne stanno lì a fare scemo più scemo prima di farsi ammazzare, no? Bene: si da il caso che non siano questi due, ma che comunque non servano a niente.

«Maggiore Krämer». Poche parole e documenti alla mano, fa cadere la cenere in terra, scende dalla Berlina e tira una nuova boccata di fumo. «Cerco qualcosa di bello per la galleria di Linz»: ecco la grossa bugia.

«Non so cosa potrebbe trovare qui».

La risatina del tale lo punge all'altezza dello stomaco. «Qualcosa troverò», e storce la bocca in una smorfia, trattiene la voglia di prenderlo a pugni, perché spaccarsi le nocche senza motivo è sopravvalutato.

Il secondo calcia un sasso, zittisce il collega sguaiato .«Magari il maggiore si fa fare un falso dalla ragazzina». Pigro come non mai, torna a sedere.

«Quale ragazzina?». Ancora il fumo, la cenere che brilla nella notte in una cometa rossa, infine il mozzicone in terra: lo sguardo di Roswin si accende come quello di un rapace in picchiata mentre sente parlare di Yehoudith; e il tale, l'ultimo, fa spallucce prima di emettere un mugolio.

«C'è un'ebrea che va in giro, con blocco e carboncino, qui...»

Giusto, potrebbe prelevarla stanotte stessa; ma perché rovinarsi il rientro a casa, tra urla e schiamazzi, per fidarsi di un signor Nessuno? Non ho prova di queste capacità, motivo per il quale: «Fatele fare un vostro ritratto; di tutti e due, beninteso. Io tornerò domani a ritirarlo», e fine della conversazione. Roswin sale di nuovo sulla Berlina.

Possiamo tornare a oggi, dove il signor Nessuno ha già presentato il ritratto al maggiore Krämer e dove, ancora, questo si è fissato di far risolvere a Yehoudith, o Gitte, il problema del buco nel muro. Ricapitolando: ci sono meno trentadue gradi stanotte, una temperatura mai raggiunta in Germania, e Roswin minaccia di deportazione una tanto vecchia quanto facoltosa famiglia ortodossa, pur sapendo che non se ne occuperà in prima persona; ma che importa, dopotutto Avraham Lustiger non può sapere in che reparto lavora! E lui, più preoccupato per se stesso e la sua proprietà, che tenta di non far invadere nemmeno dagli altri ebrei del ghetto, ci radifica dentro. Preferisce regalare una figlia progressista, piuttosto che tentare la sorte.

Da Narratore, nel dubbio, non mi sarei mai fidato. Qui lo dico e qui lo nego: non bisogna mai venire a patti con Roswin Krämer, o potrebbero bussare alla porta; come in questo momento.

La stanza è grande, ben diversa da come se l'è immaginata: pavimento in assi di legno spolverate, soffitto spiovente, perfino una finestra attraverso la quale poter osservare il cielo al mattino e le stelle durante la notte; eppure non può fuggire. Dinanzi al vetro, che si apre per quarantacinque gradi all'infuori, c'è una grata fitta, distante di due pollici vuoti e uno pieno in ferro battuto. Una prigione, in pratica, ma sollevata da terra e fluttuante al terzo piano; uno di quei posti in cui abbiamo sempre accumulato borsoni pieni di vestiti vecchi. Yehoudith spinge le labbra in avanti, poi le tende all'ingiù. Confusa, ode l'abbaiare di Oreste al secondo piano.

Roswin, alle sue spalle, le punta le dita al centro delle scapole e si schiarisce la voce. «Dovrebbe esserci tutto», comincia, «il cavalletto, i colori, i pennelli...», e le ritira, prende ad agitare braccio e mano, indica a destra e sinistra come per presentare gli oggetti, «Mi auguro che tu faccia un buon lavoro».

«Lei sta scherzando, vero?».

«Come?». La freddezza di Yehoudith gela anche lui, che l'afferra per una spalla e se la strattona lontano, a braccio teso, in cerca di uno sguardo complice che non c'è. Solleva le palpebre, pare non capire: pupille strette come piccoli puntini di Seurat. «Su cosa starei scherzando, Gitte?».

«Lei mi ha portato qui per fare arte...», cita.

«Ebbene?».

«... non sa neppure se ne sono in grado», deglutisce un grumo di paura e si sente come sprofondare, perché una risposta sbagliata potrebbe farla finire piedi all'aria.

Ma a Roswin, chissà perché, pare divertire il suo balbettio. «Certo che lo so»; trattiene una risata, la sorprende; o avrei scelto qualcun altro: questo, però, non lo dice.

Yehoudith trema, con le labbra che quasi vengono schiacciate dai denti. «Cos'è che dovrei fare, con esattezza?».

«A questo ci sarei arrivato presto, frettolosa-Gitte».

China il capo e si lascia spintonare indietro. «Va bene».

«Qual è il tuo colore preferito?».

Le sfugge il perché di questa domanda, perciò corruga la fronte e si dice che potrebbe essere ancora più spiacevole indagare; così, sopracciglia grosse e vermicianti, risponde di getto: «Rosso», il primo che le viene in mente.

Roswin aspira a vuoto, divertito, dietro il palmo inguantato; pare quasi schermarsi dal fumo di una sigaretta accesa ed emette un suono simile ad an. Solleva entrambi gli zigomi in un'espressione strana, che sa tanto di "Lo immaginavo, Gitte", poi rotea la testa di profilo. «Chi lo avrebbe mai detto», ironico, scocciato, si lascia andare, «ma fai pure, non ho problemi con i primari». Si muove lento nella soffitta, a passi circolari e mani giunte dietro la schiena: un coccodrillo, che lancia occhiate di sguincio a Yehoudith, con i denti esposti in un ghigno tirato da orecchio a orecchio. «Sarà interessante vederti dipingere una tela rossa».

Lei vacilla, prima di rispondere, e si chiede se dietro quelle poche pennellate ci sia nascosto qualcos'altro. Come può considerare arte una crosta del mio colore preferito? Pizzica, con i denti, la pelle secca delle labbra e tira via una pellicina. Il sapore ferroso del sangue le scivola sulla punta della lingua fino a smuoverle lo stomaco, che si ribalta in palizzate aguzze di disgusto. «Questo le basta?», non mi fido, e perché dovrei?

Roswin si acquieta e i passi si bloccano alle sue spalle. «Frettolosa-Gitte», l'apostrofa ancora, con una risata trattenuta a malapena tra i denti.

Il cuore le schizza impazzito oltre la gola e per poco non lo vomita lì in terra, nella soffitta, con il rischio di farsi prendere a manganellate; o, ancora peggio, di beccarsi una pallottola in fronte. Continua a succhiare la ferita, a respirare con affanno e a impedire al suo corpo ogni movimento, perché sennò mi uccide; eppure sente i muscoli che stridono come quelle corde sotto l'archetto che ha rotto a nove anni.

I guanti di Roswin le carezzano veementi gli avambracci, il cappotto di lana, e poi il collo esposto; Yehoudith sussulta, gli occhi nocciola pieni di lacrime e terrore: pensa di poter essere strangolata da un momento all'altro.

Si dice ecco, questa è la mia ora; ma non sa bene come mettersi a pregare, perché non ha mai davvero considerato l'ipotesi di morire tanto giovane, nonostante la gente attorno a lei sia stata decimata nel corso degli anni. Quando la pelle nera s'incastra, goffa, tra i capelli, smette di respirare. Mi farà lo scalpo: ecco cosa pensa Yehoudith; tuttavia

Roswin non se ne accorge, o meglio non ci bada, e la tratta come una bambola vuota. Incastra le ciocche cineree in una lunga treccia e poi, di netto, la trancia alla base con il coltello. Pare sordo al mugolio di dolore di Yehoudith. «Li laverò e li porterò di nuovo qui».

Si volta svelta, una mano alla base della nuca, laddove resta un caschetto corto e disarmonico. Bocca spalancata, sguardo vitreo: Yehoudith non riesce a parlare; ora, più che mai, non capisce cosa sta succedendo in questa soffitta. «Cosa...», prova a dire, ma viene subito interrotta.

«Anche tu devi lavarti», Roswin gesticola e, naso arricciato, la guarda da capo a piedi, «non voglio che insozzi casa mia con l'odore del quartiere dei granai».

Ma lei è sorda, quasi non capisce l'offesa. «I miei capelli...».

«Sono parte del dipinto, Gitte», spiega, quasi per cortesia, «capelli d'artista ebrea», e solleva il mento, torna a sorridere soddisfatto. Li guarda nella penombra, li soppesa sul palmo inguantato e, mentre li solleva, pare agitarli come un coniglio ucciso a caccia.

E niente, ragazzi, che dire? Questo capitolo mi ha fatta lavoricchiare un pochino, perché ho passato una settimana infernale, a dolermi per l'anca, e non sapevo come diavolo scrivere: seduta, sdraiata, io boh? Ho fatto punture di Toradol che vi prego fermatevi, Voltaren pure, ma niente di niente, mi hanno rimbalzato tipo pallina a batti muro. Alla fine mi sono detta che ho un karma orrendo. Alla fine metà capitolo l'ho scritto in piedi.

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