Capitolo 1
A voler essere franchi, essendo io il Narratore, dovrei iniziare questa storia con un bel "C'era una volta"; non è forse tradizione? Ma ho detto che sarò franco: lo trovo un po' démodé. Partiamo dal clima berlinese e siamo precisi con l'anno. È il 1942, quando Adolf Hitler se ne esce con "Chiunque voglia studiare la pittura del XIX secolo, prima o poi troverà necessario andare alla galleria di Linz, perché solo lì sarà possibile trovare collezioni complete". Dunque fa freddo, ma sono tutti abituati ad alzare il mento e gareggiare di fronte al Reich, per mostrarsi più ariani degli altri, con indosso cappotti di lana o pelle imbottita. Invero la Germania sta congelando. Meno trentadue gradi e camini accesi, geloni, sciarpe; eppure nessuno lo dice. Ci sono famiglie a bene, qui, che preferiscono tagliarsi la lingua piuttosto che fare brutta figura con il vicinato. Perfino genitori che vendono i propri figli, per non vederli crescere diversi, perché tanto possono farne ancora; e ne faranno ancora, non appena i tempi saranno propizi. Parliamo di loro oggi: un nucleo piccolo, insignificante, che abita nel quartiere dei granai.
Il capofamiglia è un uomo dalla barba irta e folta, ormai puntellata di vermicelli bianchi come neve tra i rovi di una favola per bambini; gli occhi infossati, funghi porcini, e le guance scavate in un picco pallido, quasi affamato. «Se vuole, è liberissimo di prendersela», dice.
Di fronte a lui, il volto scosso della figlia mezzana, una ragazzina tredicenne dai bei capelli lunghi. Spalanca la bocca e reprime un urlo, con le mani al viso, a coprire guance, zigomi e fronte. Pensa qualcosa di drammatico, non ben definito, che arriva fino all'Apocalisse; ma che ne sa lei dell'Apocalisse? E che ne sa, il tale che le siede accanto, di quello che le passa per la testa? "Niente", è la risposta che vale per entrambi.
Da fuori partono un po' di schiamazzi stile "Che vuole, adesso?", "No, la smetta!", "La palla è del bambino", "Mamma, mamma", "Fermi tutti"; tra le quattro mura, invece, il silenzio e poi il ronzio di un moschino.
«Questo non è il posto adatto a lei». A parlare è il nazista: palmo inguantato fermo sul tavolo, dita che si sollevano e calano e picchiettano, una alla volta, sulla superficie lucida e ovale. «Converrà con me, e saprà anche che questa è una gentilezza». È ancora seduto, ma ha fretta di alzarsi e sente la sedia bruciargli i pantaloni della divisa.
«Non ne dubito». Ma a chi importa se lo è? Non abbiamo forse detto che i tempi sono quelli che sono, e che di figli se ne possono fare altri? «Può prendersela», il padre della mezzana fa un gesto noncurante con la mano, «se le serve in casa, non c'è nemmeno bisogno che la paghi».
Lei drizza la schiena e abbassa le braccia. Ha le palpebre arrossate, le ciglia che a malapena trattengono le lacrime. Ingoia ogni opposizione, ma solo perché sa di aver perso ogni diritto dopo essere nata femmina in una famiglia ortodossa.
«Bene», perché io non pago ebrei: così si dice Roswin, il nazista; ratti che dovrebbero essere onorati nel sedermi accanto. Si tira in piedi e liscia la stoffa su fianchi e cosce, per spolverare ciò che di giudaico ha trasmesso loro l'imbottitura verde oliva. «Possiamo andare»: il discorso è chiuso, perciò si sistema il cappello in testa e fa cenno alla mezzana, per essere seguito fino alla porta.
«Posso prendere i miei effetti», azzarda, trovandosi come in bilico sul ciglio di un burrone. Gli occhi del padre addosso, che la fulminano, e quelli della madre che, gonfi, non hanno nemmeno il coraggio di cercarne il profilo tra i singhiozzi ovattati in pugno.
Roswin passa indice e pollice sul bordo della visiera nera. Labbra schiuse, lingua che carezza il palato e un secco: «Non serve».
Lontano dal quartiere dei granai ci sono corbezzoli tagliati e ben delineati dai giardinieri, quelli che si presentano solo nel fine settimana, ma anche arbusti bassi, invisibili nella notte, laddove la poca luce della strada raggiunge appena i cancelli e i confini delle villette. Ecco, siamo qui, di fronte a una di queste. Roswin Krämer, con i guanti ancora indosso, le mani ben strette sulla cintola e la fibbia tirata a morte sull'imbottito Hugo Boss; la mezzana senza nome, che batte i denti, perché non si è portata via niente, se non il cappotto che era appeso dietro la porta di casa. E lo abbiamo già detto che fa freddo a Berlino, no? Soprattutto la notte, aggiungo io da Narratore.
Lei se ne sta lì, con le braccia al petto e le dita convulse sulla lana degli avambracci, a tirare le maglie strette e a pensare perché è dovuto succedere a me?
Lui, invece, fa il vago e fissa il nulla oltre il cancello; o forse non fa il vago: è veramente vago. «Il nome». Infila la chiave nella toppa e la gira un paio di volte. Voce tonante, che alla mezzana gratta dietro il costato e quasi scivola giù nello stomaco come un veleno.
«Il...», si ammutolisce; e perché ripetere come un pappagallo? Quante storie conosce, lei, dove il protagonista, o la protagonista, se ne sta lì a fare lo stupido? Nemmeno una, a parte quella di Cappuccetto Rosso, che finisce mangiata dal lupo. Certo non vuole fare la sua fine; e quale cacciatore libererebbe un'ebrea a casa di un nazista? Dunque deglutisce e rizza la schiena a occhi grandi. «Yehoudith».
Il cancello freddo si spalanca dietro la pressione del palmo di Roswin. Gnik, un cigolio. Poi è il primo passo nel viale spazzato dalla neve, il velo che si scioglie, debole, sotto la suola. Giudea. Segue il secondo, il terzo. «Entra, Gitte», mastica nel trascinarsela dietro per una spalla.
Yehoudith, sopracciglia folte e quasi unite, abbandona la presa sull'avambraccio e si sbilancia in avanti. Punta un piede in terra, raggiunge la prima orma e schiude le labbra. Chi sarebbe Gitte? Non riesce a dirlo, perché lui la precede:
«Giudea», e sbuffa, «i tuoi genitori ci hanno visto lungo», si ferma per fissarla dritto dritto negli occhi, «ma non mi sarei aspettato niente di diverso da gente come voi».
«Cosa intende dire?».
Le è a un palmo dal naso, quando tende le labbra a metà: palpebre basse, ciglia chiare e occhi profondi come la Foresta Nera. «Dimmi, Gitte, tredici anni fa lo sapevano già che noi ariani avremmo dovuto identificare e classificare i giudei?».
I denti stretti e le labbra come serpenti in cesto, che premono tra loro. Se le morde, tace, e arrossisce di vergogna prima di porre a se stessa la classica domanda che tutto il quartiere dei granai fa alle spalle dei nazisti: cosa c'è di sbagliato nell'essere ebrei?; ma ecco che smette subito, perché suona molto come "Padre, cosa c'è di sbagliato nell'essere donna?" e perché mi direbbe la stessa cosa: "È sbagliato e basta, se non sai mantenere il tuo posto".
«Sei diventata muta tutto d'un tratto?».
«No, signore».
«E allora rispondi».
«Non posso, signore».
«Certo che puoi», si ritira di un passo e solleva le sopracciglia, «devi, se sono io a insistere»; dalle narici, una nuvola bianca: è respiro caldo come fumo di un camino acceso, elegante uff appena dipinto nel quadrato di sua proprietà.
Yehoudith, però, non è certo qui a badare a queste fesserie. Abituata a eseguire il letterale, a evitare rogne, perché mai dovrebbe notare il poetico svolazzare di condensa nazista? No, non è distratta dalla sua bellezza celtica, anche detta ariana dal Reich, e la sola idea di accoppiarsi figurativamente con qualcuno le fa venire i brividi; il fatto è che, per una volta si ritrova in testa un grosso non lo so. «Non posso, perché non la conosco proprio la risposta, signore».
I nervi di Roswin saltano la corda, schizzano nella Hitler-Jugend; e bisogna dire che sono anche piuttosto allenati. Ma, per paradosso, a ogni "signore", invecchiano di un anno. Si lascia andare a uno tsk, poi dice: «Sturmbannführer», la spintona in avanti, lungo il viale lastricato, infine si volta e chiudere il cancello a doppia mandata. «Non sono un signore qualunque», precisa, «sono il maggiore Krämer».
Mi chiedo se siano questi i momenti in cui le persone dovrebbero avere paura. "Non osare mai più guardarmi in faccia, quando ti rivolgi a me". Frasi da re del XV secolo, ma anche quelle di mio padre: un padrone troppo attaccato alle sacre scritture. Annuisce. «Va bene, maggiore Krämer». Cosa cambia, se a usarle è lui, o un nazista? Abbassa il mento contro il collo fine. Occhi a terra, dove la punta delle scarpe in cuoio marrone sdrucciola. Torna a stringersi nel cappotto, tra un brivido e l'altro, e cerca il giusto equilibrio, raschia gl'incisivi poco sotto il confine del petalo inferiore. Sapore di sangue sul palato: succhia saliva e ferro, nel tempo di qualche secondo che le rintocca al polso.
Roswin la raggiunge, forse più silenzioso di un corvo in atterraggio, con la pelle del cappotto imbottito che friziona al muoversi dell'andatura impera. «Possiamo entrare, Gitte».
Questo nome, Gitte, inizia già a darle fastidio; e mentre si carezza la collana d'oro, strattonata per la stessa spalla di poco fa, Yehoudith si chiede se lo sentirà ancora a lungo. Ma può davvero lamentarsi, se una femmina deve saper mantenere il suo posto? Probabilmente no. Ha a malapena il tempo di guardarsi attorno, lanciare un'occhiata qui e là, scovare il contorno di una cuccia di legno e un albero di cui non si scorgono i frutti; o i fiori, chissà. È sui gradini, incespica: la gonna le fruscia addosso e lei, sorpresa, le affanna dietro, per non finire faccia a terra nel portico. Schiaccia le labbra sul palato, infantile com'è, e si aggrappa alla manica di Roswin.
Lui scrolla il braccio come per scacciare una mosca, o magari una fastidiosa falena. Stupida giudea. La fa cadere giù, sulle ginocchia: e quando mai ha detto che gli servono le sue ginocchia? Ode il tonfo sul legno, l'ahi di Yehoudith. Ghigna, infila la seconda chiave nella toppa e, silenzioso, accende la luce dell'ingresso. Perché dovrebbe parlare, o mettersi a conversare con un'ebrea qualsiasi? Si è presentato, l'ha rinominata in modo decente e la sta facendo entrare in casa: il resto è secondario. Perfino il camminare svelto di Oreste e il suo zampettare veloce sul marmo non va giustificato, perché lei è solo un topo come tutti gli altri.
Ha le calze smagliate, adesso, e la pelle escoriata, il sangue che tinge un po' la gonna lunga dall'interno. Non se ne accorge, ma lo scoprirà più tardi: lo so solo io, perché sono il Narratore; dunque torniamo a noi. Si rialza, raggiunge Roswin, l'uscio dipinto a nuovo, e osserva la piccola scheggia nera. «Ha un cane», lo dice sommessa, e non lo chiede. Se lo facessi, sembrerei idiota.
«Sì».
«Le piacciono gli animali?». Solleva gli occhi, poi li abbassa al ricordo del rimprovero di suo padre, il re di casa nel quartiere dei granai.
«Lui, Oreste, piace a mia moglie».
«È davvero carino». Un passo avanti, Yehoudith che segue Roswin nell'ingresso, e neanche a dirlo: Oreste inizia ad abbaiare come un addannato. Carino non significa docile, appunta all'istante, mentre la porta le viene chiusa alle spalle in un tonfo. Dunque trasale, perché di fronte, in basso, si ritrova i piccoli denti avorio del Bassotto, che sono uniti e aperti, esposti, pieni di bava; e di fianco il braccio di Roswin, con la mano schiacciata addosso all'anta e le dita tese. Lo fissa in volto, negli occhi più tetri del Titisee in inverno, infine balbetta ciò che più le preme: «Perché ha voluto che venissi qui, maggiore Krämer?».
«Per fare arte»: detto ciò, sospinge il palmo all'indietro. Infila la chiave nella toppa, chiude casa e si ritira. Sfila il guanto nero, mostra il palmo aperto verso il basso e Oreste si accuccia sotto lo sguardo perplesso di Yehoudith.
È così che, questa volta, non ci riesce e fa il pappagallo: «Fare arte?».
«Sei sorda, Gitte?».
Scuote la testa. «No».
«Molto bene, perché ti avrei chiesto di tornare a sentire».
Benvenuti, miei cari puffini e puffine, in questa nuova, strabiliante, avvenuta. Vi dico subito che, come sempre, ci troviamo di fronte a uno dei miei esperimenti. Mai presentato un personaggio come Gitte (abbrevio solo per comodità, povera stella, ma non si dica che sono dalla parte di Roswin) e sono emozionata. Non ho la minima intenzione di farvi leggere del cliché nazi/ebrea, plus sì, è una ragazzina. Dunque, se avrete la pazienza di seguire un paio di capitoli, o avete captato qualcosa dal trailer, mi farebbe piacere sapere cosa ne pensare. Vi ha incuriosito? A regola d'arte è appena iniziata...
Lasciate una stellina e un commento, se il capitolo vi è piaciuto ⭐️
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