Capitolo 13
~ Cris ~
«Guarda Cris» Jessy accanto a me richiama la mia attenzione e mi indica una stupenda cascata a pochi passi da noi, che fluisce in un lago d'acqua cristallina sfociando in un fiume che costeggia il villaggio. È spettacolare e ho un caldo addosso pazzesco, spero sinceramente che quell'acqua sia gelida.
I bambini ci conducono fino alla riva del grande lago dove vi sono poggiate delle foglie concave usate come ciotole, contengono una sostanza gelatinosa, Anna si pone sul ciglio del lago, alza la mano sinistra, muove le dita e si tuffa dentro, Cesare e Jessy la seguono subito.
Io tentenno, lei riemerge e mi incita: «Dai tuffati Cris.»
Sollevo il braccio sinistro, muovo le dita e mi tuffo. L'acqua non è gelida, ma tiepida.
Anna prende da una di quelle foglie la sostanza gelatinosa e si cosparge il corpo, il viso e i capelli e mi dice entusiasta: «Provala, è molto meglio del nostro sapone, ti sentirai rinascere.»
Lo faccio e già al contatto con le dita la sento freddissima, la spalmo sul corpo e sul viso, sentendo una freschezza pazzesca poi torno in acqua a nuotare e lasciarmi coccolare dalle leggere onde provocate dalla cascata.
Quando usciamo dall'acqua delle donne ci portano dei gusci di noce di cocco con dentro un fluido, «Prendilo e passalo su tutto il corpo e anche sui capelli, rende la pelle morbida e allontana gli insetti per tutta la notte» mi spiega Cesare.
Lo faccio, spalmandomi quella sorta di olio dappertutto, è una sensazione fresca e ha un buon odore.
«Come si dice Grazie?» chiedo a Cesare.
«Bururù» risponde lui, almeno so cosa dire tutte le volte che mi daranno qualcosa.
Così guardo la donna davanti a me, che regge tra le sue mani la mia ciotola con l'olio e la ringrazio sorridendo.
«Vari lamaku.» risponde lei ricambiando il mio sorriso.
Poco distanti da noi sistemano sotto un albero un tappeto intrecciato e ricoprono il grande tronco dell'albero con un altro, ma questo è diverso da quello messo per terra, è pieno di lunghe frange aggrovigliate fra loro, sembrano fatte di paglia. Alcune donne poggiano sulle rocce lì vicino, delle ciotole fatte con le foglie e un recipiente di legno.
Anna mi fa cenno di seguirla, lo faccio insieme a Jessy e Cesare, ci sediamo rilassandoci del tutto, poggio le spalle sulla paglia ed è morbidissima, stranamente non punge, non sembra nemmeno paglia.
Anna mi guarda e mi chiede con tono affettuoso: «Va meglio adesso? Ti senti più a tuo agio?»
«Sì, è una sensazione strana, ma sto bene.»
Ghibu si avvicina a noi e chiede ad Anna: «Cris du ruma, Tesò?»
«Beja, Cris du ruma nagala» risponde lei prendendo la mia mano e portandola unita alla sua al centro del suo petto.
«Cosa ti chiesto?» le chiedo curiosa.
«Mi ha chiesto se sei mia figlia e gli ho risposto che sei figlia del mio cuore.» Arrossisco ringraziandola e lei mi versa qualcosa dal recipiente di legno nella ciotola di foglia, «Bevi questo, è molto simile al nostro tè alla menta, è molto rinfrescante.»
Bevo e le chiedo: «Cosa faremo in questi giorni?»
«Domani puoi tranquillamente andare in giro e fotografare chi vuoi, ricordati di non fischiare o fare versi con la bocca, qui ogni suono ha un significato e spesso è un richiamo per gli animali.» mi ricorda molto premurosa.
Vedo Ghibu sorridermi e le chiedo: «Perché Ghibu ha pensato che sono tua figlia?»
«Per il modo in cui ti guardo, con affetto materno. I kubut comunicano molto con lo sguardo e notano molto il modo con cui si guardano le persone fra loro.»
«Praticamente non gli si può nascondere nulla.»
«Già, e per loro non è strano che io ti guardi in questo modo. I figli dei Kubut sono del cona kubut, ovvero del popolo, sono figli di tutti, chi li ha partoriti può scegliere se essere il suo Tesò, ovvero punto di riferimento e genitore del bambino oppure affidarlo ad altri Tesò del popolo, che li adotteranno come figli del loro cuore. Qui alla vita viene dato un valore molto più alto rispetto al nostro mondo. Ogni nuova vita che nasce è una gioia per tutto il popolo, non solo per chi lo ha partorito e i loro parenti. Un kubut non uccide un altro kubut. Qui basta dare uno schiaffo a qualcuno per essere esiliati nella foresta.»
«Esiliati?»
«Sì, vengono lasciati da soli e i cacciatori vegliano su di loro.»
Non so ancora quali siano le usanze di questo popolo, ma ne sono rapita. Qui vi è una serenità surreale.
Faccio la mia prima cena con i kubut e da quello che vedo sul fuoco credo che stiamo mangiando quel grosso animale che ho visto uccidere questa mattina, stranamente è molto gustoso, c'è sopra qualcosa di giallastro a rendere la carne molto saporita. Dopo cena un ragazzo ci porta una strana cannuccia e un piccolo contenitore cilindrico con un foro alla base. Vedo Cesare mettere nel foro la cannuccia e mi rendo conto che è una pipa quella che ho tra le mani.
Mettono al centro del tavolo una grossa ciotola di pietra con dentro qualcosa che produce del fumo. Cesare non esita a mettere dentro la sua pipa e riempirla, Anna mi guarda e mi chiede: «Vuoi fumare?»
«Dipende da cosa è quella roba» le rispondo scettica.
«È un'erba simile alla marjuana, ma molto più leggera e più buona al gusto, favorisce la digestione e aiuta a rilassarsi per la notte, non avrai allucinazioni o reazioni strane, ti sentirai solo più rilassata, ma sarai sempre in grado di camminare con le tue gambe e ragionare.»
«Ok allora posso provarla» le rispondo riempiendo la mia pipa. Lo fa anche lei e dopo mi fa cenno di tornare sotto l'albero dove ci siamo sedute dopo il bagno.
Cesare e Jessy si allontanano, andando verso la grotta, guardo Anna e le dico scherzando: «Credo ci toccherà andare a dormire sul tardi.»
Lei sorride e risponde: «Concordo, anche se tra l'erba e la stanchezza, Cesare avrà un'autonomia massima di cinque minuti.»
Scoppio a ridere, mi siedo rilassandomi e inizio a fumare la mia pipa. Non conosco il sapore della marjuana, ma questo è davvero buono, non somiglia al tabacco, non brucia né pizzica sulla lingua né alla gola, ha un sapore avvolgente che non conosco e non so definire, ma decisamente è molto piacevole.
«Fai dei respiri leggeri, ispira e tienilo dentro un po' prima di buttarlo fuori» mi consiglia Anna.
Lo faccio poggiando le spalle e la testa al tronco ricoperto dalla morbida paglia.
«C'è una temperatura così gradevole, non sento più nemmeno di essere nuda e all'aperto, potrei dormire anche qui.»
Lei scoppia ridere. «Ti vedo già rotolare giù fino al lago, sai che bel risveglio avresti se ci finissi dentro?» Rido con lei di cuore.
«Hai ragione, grazie per avermelo ricordato.»
«Finalmente ti vedo ridere davvero per la prima volta.» Mi fa notare con un tono affettuoso.
«Già è da un mese che non lo facevo» le rispondo sentendo i miei pensieri tornare.
«Non rattristarti adesso.»
«Non è tristezza, ma nostalgia. È tutto il giorno che guardandomi intorno penso a quanto piacerebbe a Roby questo posto.»
«C'è una cosa che mi è poco chiara.» afferma fissando il lago.
«Cosa?»
«Dici di non averla tradita, ma quando parli di lei sento nella tua voce un tentennamento. Come se nascondessi un senso di colpa che vuoi nascondere forse anche a te stessa.» Le sue parole mi spiazzano. Mi sento in colpa, è vero. Lei volge lo sguardo su me, «Ti senti in colpa per esserti allontanata da lei?»
«Forse, o forse ho solo paura che non so se mi lascerà tornare, per adesso sento come se qualcosa si fosse rotto dentro di me, ma non è ciò che provo per lei, ma la speranza di poter tornare.»
«Cris il detto dice: "finché c'è vita c'è speranza", quindi tu ancora ne hai tanta» mi dice rattristandosi,
«Mi spiace, non volevo rattristarti.» le dico istintivamente, non so cosa in questo discorso abbia reso cupo il suo viso.
«Non sei stata tu, ma la consapevolezza che la mia speranza non c'è più, se non nel ricordo che ho nel cuore.» Mi parla con un tono basso quasi tremante, non capisco cosa l'ha rattristata tanto. Aspira profondamente dalla pipa, e poi rilassata butta fuori il fumo. «Quando due anni fa l'elicottero è caduto qui vicino, con me non c'era solo Cesare, ma anche mio marito, Gianni, lui aveva delle ferite molto gravi. Era il pilota e rimase incastrato tra il sedile e la plancia, io e Cesare riuscimmo a tirarlo fuori con molta fatica. Ero disperata, sapevo che da lì a poco lo avrei perso, non potevo fare nulla, eravamo da soli in mezzo alla foresta. La radio non funzionava e quando ho iniziato a sentire la melodia dei Kubut non sapevo che pensare. I cacciatori dopo averci osservato per un po', forse vedendoci disarmati, sono corsi in nostro aiuto. Ci hanno portato qui al villaggio e Ghibu si è preso subito cura di Gianni. Dopo averlo spogliato, lavò le sue ferite e io vedevo solo il sangue venire fuori dalla sua gamba. Ghibu tamponò subito la ferita con una grossa palla di canapa imbevuta con una loro medicina. Gianni in pochi istanti smise di perdere sangue e superò la notte, non potevamo portarlo in un ospedale, non avrebbe retto il viaggio, era molto debole, ma riuscì a vivere altri venticinque giorni qui con me. Sono stati per me un grande regalo. Ghibu mi fece capire che insieme al suo sangue era andata via anche gran parte della sua vita e più di ciò che aveva fatto per far reggere ancora un po' il suo corpo, non poteva fare.
Gianni si innamorò di questo popolo, anche lui aveva fatto i miei studi, adorava conoscere nuove culture. Prima di andarsene mi fece promettere di proteggere questo popolo, mi disse "Non portare la civiltà in paradiso o diverrà un inferno."» Si ferma per fumare, i suoi occhi non sono più lucidi, ma solo pieni di una grande nostalgia, come i miei. «Gianni mi ha sempre chiamata Tesò, perché è il diminutivo romanesco di tesoro. Qui Tesò significava genitore e da allora Cesare prese a chiamarmi così, mi aiutò molto, mi fece sentire meno la mancanza di suo padre» lo dice con una tenerezza infinita, i suoi occhi sono pieni di nostalgia.
«Lo hai lasciato qui?» le chiedo sottovoce. Non ho mai pensato a chiederle di suo marito, quando sono arrivata a Roma ero troppo presa dai miei casini per accorgermi che quella figura mancava accanto a lei.
«Sì, questo è il suo albero, lui vive nelle sue radici, ha avuto un funerale Kubut. È lo spirito che sentiremo cantare tra un po', quando il vento muoverà le foglie e passerà tra quella fessura che vedi lì in alto.» Mi indica il grande ramo in alto, dove vi è un pezzo di corteccia molto spesso staccato dal tronco e poi mi spiega, «I kubut per ogni nuova vita che viene concepita danno un seme alla madre. Lei con le sue mani, deve seminarlo e prendersene cura per i nove mesi della gestazione, l'albero che nascerà è legato alla nuova vita che lei porta in grembo e quando questa, si spera in età più che adulta, si spegnerà, verrà sepolto ai piedi del suo albero. Dopo due giorni dalla sua sepoltura una parte di corteccia dell'albero si stacca, creando una fessura simile a quella che ti ho mostrato poco fa e ogni sera, quando i venti scendono sulla foresta, passando da quella fessura lasciano cantare lo spirito che lo nutre.» Lo racconta credendoci davvero, la guardo incredula e lei capendo la mia espressione aggiunge, «Anch'io ero scettica, rimasi seduta qui per due notti fissando il tronco in alto, e fui scioccata quando vidi quella corteccia aprirsi da sola e sentii un suono grosso, molto simile alla voce di Gianni. Sentirai tra un po': la notte qui tutti gli alberi cantano, ma non fa paura, sono gli spiriti che danno il cambio agli angeli che cantano per loro durante il giorno.»
«Intendi i cacciatori?»
«Sì, i kubut sono una tribù pacifica, non hanno armi e non fanno guerre, si limitano a tenere lontani gli eventuali intrusi siano essi animali o umani, spaventandoli con suoni e a volte facendo cose strane da far pensare realmente ai mal capitati di trovarsi in una foresta infestata da spiriti. Chi si avvicina troppo al loro territorio viene colpito, tramite una cerbottana, da uno spillo sottile, imbevuto in un sonnifero molto forte, e il mal capitato si risveglia dove ci ha lasciato la macchina senza capire come ci è arrivato.»
«Pacifici ma ingegnosi, e molto astuti.»
«Sì, molto. Ci siamo inchinati di fronte ai cacciatori, perché loro sono la figura più importante dei kubut, loro provvedono a proteggere e nutrire il popolo. Chi sceglie di diventare cacciatore rinuncia al contatto con il resto del popolo, lasciando i propri figli ai tesò del villaggio» mi risponde e inizio a sentire il fruscio delle foglie.
«Sta iniziando, rilassati, fuma con calma, abbandonati ai tuoi pensieri, lasciali scivolare dal tuo cuore alla tua anima e rivivili, nutrendoti di loro. Trai da loro la gioia che ti serve per vivere domani e così ogni notte finché lei non tornerà da te» mi suggerisce stringendomi la mano.
Ci poggiamo entrambe al tronco, mi rilasso fumando, gustando quel sapore che coccola il mio gusto, inizio a sentire i vari suoni provenire dagli alberi e mi abbandono ai miei pensieri. Chiudo gli occhi e trovo subito quelli di Roby, sempre lì presenti nella mia mente. Il suo sorriso, i suoi capelli che sfiorano il mio viso, ne sento il profumo, il contatto delle sue labbra sul mio collo. Rivivo quei giorni intensi con lei, ancora e ancora. Sì, di questo vivrò finché non potrò tornare da lei, del suo ricordo, perché non voglio dimenticare mai quella gioia, lei è l'unico ricordo che ho e che voglio conservare per sempre.
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