5 - L'ultimo respiro

Prima che il terrore e il panico divorino ogni mia parte, una mano mi afferra forte e decisa. Vengo trascinata ferocemente fuori dalla stanza, e non riesco a sopportare il movimento. Ho i conati di vomito anche nel buco del... be', lo sapete, no?

La mano di Erwood mi stringe il braccio così forte che sembra che non ce la faccia anche lui, ma poi mi ritrovo fuori, all'aria aperta, sotto un cielo coperto di nuvole colorate dalla luna. Sento il viso scottare come un termosifone e le orecchie incendiarsi come fiammiferi. Il cuore mi pulsa come un animale feroce dentro una gabbia e il mio petto è sul punto di fare le valige ed andarsene.

Quando Erwood mi prende in braccio con un solo rapido movimento riesco a sentire le urla lontane di Danielius e Dusnatt.

«Andiamo! Qui esplode tutto!»

Queste parole mi trapano il cervello e fanno spazio nelle mie orecchie per la seconda esplosione. Stavolta le braccia del mio migliore amico mi tengono così stretta che nessuno dei due casca a terra, ma sento che alle nostre spalle Danielius e Dusnatt sono stati costretti a mettersi giù, e ora si stanno rialzando... credo con qualche ferita, perché gemono e lanciano parolacce a ogni passo. Sono ancora troppo stordita per analizzare quello che sta succedendo. So solo che sono nelle braccia del mio migliore amico e che sto scappando da qualcosa di veramente brutto, orrendo. Il mio corpo balza su e giù tra le sue braccia. Sono come addormentata, raggomitolata sul suo petto, e lui non smette di correre, gli occhi rivolti diritti a sé, i lineamenti sfumati di qualcosa che non riesco a decifrare, forse perché ho la vista appannata o forse perché anche la mia mente è appannata. È tutto appannato. Potrei essere considerata come un pezzo di vetro accanto a due innamorati che si sbaciucchiano.

Le strade sono del tutto deserte. Non c'è un'anima viva. Sembra che la notte abbia strappato la vita a questo posto.

Un susseguirsi di suoni che non ho mai sentito in diciassette anni mi riempie le orecchie. Acqua scossa insieme a qualcosa di denso che sbatte contro qualcosa altro, anch'esso denso, bisbigli che sembrano parlare una lingua degli inferi e piccole urla stridule. Il risultato? Un rumore che farebbe rizzare i peli anche al Joker di Heath Ledger, o magari a quello di Jared Leto.

Erwood aumenta di velocità e io vengo stretta ancora di più, mentre scappiamo da chissà cosa. E verso chissà dove. Ho paura, non lo posso negare, ma un senso di curiosità mi bolle nel petto, forte. Credo che avrò bisogno di molte risposte a tutto ciò, perché, e questo mi pare abbastanza scontato, è un po' tutto troppo surreale.

Altre esplosioni fanno capolino dietro le nostre teste e il tremito incontrollabile che prima mi stava dominando la pelle sembra stia dominando perfino l'aria. Piccoli, taglienti pezzetti di pietra ci si scagliano contro e vedo Erwood girarsi. Quando poi mi guarda, vedo nei suoi occhi L'urlo di Munch, ma sembra mantenere la calma e portarmi in salvo. Non voglio sapere cosa si cela alle nostre spalle. L'odore nauseabondo di fumo e di fragola persiste nell'aria resa frizzante da un piccolo lago salato che capisco di oltrepassare sopra un piccolo ponte. Danielius e Dusnatt ci dicono di aumentare di velocità. Con loro c'è pure qualcun'altro, ma questi sembra non parlare, e non capisco chi sia. In realtà, povera me, ci sto capendo qualcosa più o meno quanto Leonardo DiCaprio ne capisce di premi Oscar.

E proprio quando gli occhi mi si chiudono di nuovo, Erwood mi lascia cadere a terra, in un luogo chiuso, al riparo, che sa leggermente di detersivo per pavimento. I sussurri sono improvvisamente scomparsi, e anche l'odore di fumo e fragola, ma il cemento che sta toccando il mio corpo trema ancora, come se ci fosse un piccolo terremoto. E con un misto di sollievo e terrore, realizzo di trovarmi in quello che potrebbe essere un ristorante. Alzo gli occhi di poco per scorgere la scritta KFC appesa proprio sopra una porta di vetro, che dovrebbe essere quella principale. Sì, dovrebbe. È tutto un "dovrebbe", perché non sto capendo veramente nulla. Dietro di noi corte file di tavoli in legno finiscono sull'enorme bancone delle casse. Il tutto immerso nel buio più totale.

I miei pensieri confusi vengono interrotti dalla mano del mio amico, che, di punto in bianco, mi copre forte la bocca. Cerco di dimenarmi, ma lui mi stringe ancora di più.

«Piccola, stai ferma! Shh! Sono qui fuori! Loro sono qui fuori! Stai zitta!»

Dopo un paio di secondi, smetto di dimenarmi, e guardo il mio amico con gli occhi immersi nella curiosità.

«Stai zitta e basta. Shh!» Mi dice come se stesse rispondendo a una domanda che gli ho posto. Solo in quel momento mi rendo conto della gravità della situazione: siamo dentro un ristorante, sdraiati dietro un pezzo di legno che sorregge un'enorme vetrata, con fuori qualcosa che potrebbe perfino ucciderci. Qualcosa che di certo non è un cespuglio di rose.

Mentre mi domando dove siano finiti Dusnatt, Danielius e altra gente che nemmeno ho visto, il pavimento sotto di noi vibra ancora di più, a causa di alcuni... passi, come se una mandria di bufali stesse correndo in mezzo alla strada verso di noi, pronta ad ammazzarci. Niente mi inquieta più di questi cavolo di tonfi, morbidi ma pesanti. Quando Erwood alza leggermente la testa, quel poco che basta per scorgere con un solo occhio l'oscurità della strada che si trova in mezzo ai bassi palazzi costituiti da case e negozi, lo imito, impiegando circa cinque secondi per mettere a fuoco il tutto.

Proprio come quando ho visto l'uomo sotto casa di Er, le mie pupille si dilatano come un obbiettivo di una telecamera gigante. Quelli che potrebbero essere dieci uomini nudi corrono a passi pesanti, velocissimi, proprio verso il punto dove ci troviamo io ed Erwood. Ma hanno qualcosa che ricorderò per tutta la mia esistenza: ali. Ali piccole, nere e coperte di striature rossastre, come vene di un tossico dipendente. Ali che hanno la forma di un triangolo allungato, le punte scheggiate e scorticate, sbrindellate, come se fossero state intagliate con delle accette di legno. E i corpi degli uomini sono a loro volta neri, ma non di un nero semplice. Un nero che sa di bruciato, come se la pelle fosse stata immersa in un liquido bollente e poi fatta bruciare attentamente per ore e ore. Le creature - sì, ho il coraggio di chiamarle così, cosa diamine possono essere altrimenti? - potrebbero apparire del tutto nere, se non fosse per le grosse, pulsanti vene grigiastre che percorrono loro quasi tutto il corpo, principalmente sul petto, un groviglio di fili grigio scuro. Ora stanno correndo verso di noi, più veloci della luce, i muscoli che rimbalzano a ogni movimento - non vado avanti nel spiegare cosa rimbalza loro in mezzo alle gambe -. Sembrano dei mostri creati in digitale.

Il pavimento sotto di noi trema come a casa di Dusnatt pochi minuti fa, e il respiro del mio amico sembra immondo. E il mio... non lo so. Ho il naso che sembra quello di Liam Neeson.

«Mettiti giù!» Erwood allunga la mano verso la mia testa e spinge con forza in basso, e io mi sento un po' sollevata, perché lì sopra non avrei concluso nulla, se non di arricchire la paura in petto. Spero solo che non ci abbiano visto entrare qui dentro. Ma stavano correndo verso di noi. O forse questo è quello che mi sono immaginata. O forse ancora stavano correndo dritti. La strada di Peckham Road non è tanto larga, e poi è costeggiata da basse casette in stile vittoriano. Chiunque corra diritto, può sembrare che corra anche ai lati della strada.

Rimaniamo sdraiati di nuovo per una dozzina di secondi, finché i passi cessano, e a quel punto sento il sangue scaldarsi. Non riesco più a sentire le gambe, e nemmeno il bacino, come se mi fossero stati strappati via dal corpo. Il mio respiro e quello del mio migliore amico sono gli unici rumori che si avvertono nell'aria del KFC. Non so cosa quelle creature alate stiano facendo, e nemmeno dove siano andate. Spero solo che siano il più lontano possibile. Magari hanno spiccato il volo, chissà.

«Non muoverti. Non fare rumore» Mi sussurra Erwood stringendomi contro di se, siamo accucciati sotto il pezzo di legno. Sento il suo cuore battere, ma il viso sembra abbastanza calmo, anche se dovrebbe far trapelare espressioni terrorizzate, come il mio.

Di colpo, mi vengono in mente le parole di Lambeth, il padre di Erwood. "Non fate tardi, sapete che oggi è sabato sera e girano certi ubriaconi...". Se avessi saputo, gli avrei risposto "Signor Lambeth, non si preoccupi, verremo solamente fatti esplodere e rincorrere da una mandria di demoni".

Vorrei stiracchiare le labbra in un sorriso, ma non ci riesco.

Sono terrorizzata. Non riesco a realizzare.

Mi stringo più forte all'unica anima accanto a me e divoro più aria possibile. Solo ora sento l'odore di erba sul suo collo. La domanda mi sfugge in un borbottio quasi subito.

«Erwood, ma tu sei fatto?»

Lui si stacca leggermente da me e mi guarda negli occhi. Poi dice: «Piccola, se fossi fatto avrei trovato un posto sicuro il bordo del marciapiede.»

«Ah, capisco.»

«Capisci cosa?»

«Che se tu fossi stato fatto avresti trovato un posto sicuro per noi due il bordo di un marciapiede.»

«E perché?» Continua lui, distogliendo gli occhi dai miei e stringendomi ancora più forte. Ma io so che ora sta sghignazzando.

«Perché cosa, Er?»

«Perché trovi che l'avrei trovato un posto sicuro?»

«Perché saresti stato fatto.» Gli spiego paziente.

«Quindi se fossi stato fatto ce ne saremmo andati sul ciglio del marciapiede, no?» Mi domanda ancora. Mi pare che mi stia prendendo leggermente per i fondelli.

«Sì, lo hai detto tu.» Gli dico.

«L'ho detto io?»

«Senti, se non ti stai zitto ti arriva una dentata in fronte.»

«Ne saresti capace?» Ora lo sento veramente ridere.

«Certo che ne sarei capace. Ora, per tua informazione, se continuiamo a bisbigliare come api che lo stanno facendo sono sicura che verrano altri tizi come quelli là di prima.»

«Ottima osservazione. Hai un cervello davvero doc.»

«Grazie mille, Er.»

«Prego» Con questo, cala un silenzio che nemmeno un sordo riuscirà mai a sentire. All'inizio il silenzio è così profondo che assomiglia a un ronzio, producendomi un fischio nelle orecchie. Poi diventa quasi insopportabile, perché pare che i nostri respiri e battiti del cuore si siano spenti, soffocati dall'attesa. I miei occhi sono abbacinati dalla luce.

Non sappiamo dove siano finiti i nostri amici, e non sappiamo dove siano quegli uomini neri alati ricoperti da vene grigio scuro. Non sappiamo cosa fare, perché quello che è successo potrebbe riaccadere in men che non si dica. Un odore, un'esplosione, del fumo, delle creature...

Il mio corpo viene del tutto sollevato in aria e lanciato su un tavolo incastrato nel pavimento. Sbatto il fondoschiena così forte sullo spigolo che mi sembra che l'osso sacro si sia rotto. Sento le urla di Erwood spaccare qualsiasi cosa in questo posto e delle mani afferrarmi il viso a sbatterlo ripetutamente sul legno del tavolo. La mie gambe sono a penzoloni e la mie schiena appoggiata del tutto sul piano quadrato. Non so il perché, ma la vista mi si appanna di nuovo, e l'unica cosa che riesco a fare bene è sentire. Rumori di pugni, di cose scagliate all'aria e sbattute contro altre cose, urla, liquidi che si rovesciano a terra. E non voglio nemmeno minimamente concretizzare l'idea di quali liquidi possano essere. Non riesco nemmeno a provare emozioni, perché sembro veramente fatta o ubriaca. Il tanfo di fumo e fragola mi riempie di nuovo le narici, e un forte senso di nausea comincia a controllare ogni parte di me. Venire strattonata a destra e a sinistra e odorare fumo e fragola non è proprio un bel mix, se ci pensate.

«BRUTTO FIGLIO DI PUTTANA, MI HAI QUASI ROTTO IL NASO!»

Il berciare di Erwood ora è come un segnale d'allarme per le altre creature, che cominciano ad arrivare dal nulla come mosche attratte dalla merda.

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