3 - Sibili costanti
Mi do un pizzicotto sulla guancia con le dita unte di glitter, giusto per avere un'ulteriore conferma sul fatto che non stia sognando. L'uomo bieco è ancora lì, ed io sono ancora qui, di fronte la finestra, col naso praticamente appiccicato al vetro appannato dal mio respiro affannato. Sento il cuore pompare più sangue del dovuto e i nervi che si contraggono insieme ai muscoli. Solamente ora mi rendo conto che ho la lingua congelata e appiccicata al palato, e che non sarò in grado di smuoverla per un po'.
Io e lui rimaniamo immobili, fissandoci l'uno con l'altra, io terrorizzata, lui... non lo so. Cosa sta facendo in mezzo alla strada fissandomi? Perché ha quella postura alta ma così bizzarra ai miei occhi? Come possono i suoi occhi brillare di rosso? Cosa vuole da me? So che se mi spostassi da dove sono ora non riuscirei a vivere neanche un secondo senza voltarmi, perché ora quei sottili, unti capelli lunghi fino alle spalle e il viso scialbo che gli fa risaltare gli occhi come sangue su carta mi stanno facendo ricoprire il corpo da brividi. Ed è così discinto...
Ma la domanda che mi sta picchiettando sugli angoli del cervello è: chi è quell'uomo? Può essere uno scherzo, una trovata divertente da parte del mio migliore amico, Adrianna travestita per spaventarmi. Ma no... Adrianna non è così alta, Erwood è al bagno e quegli occhi rossi luccicanti sotto la mezza luna sono la cosa che mi inquieta di più.
Un verso tra il gemito e il terrore mi sfugge dalla bocca quando una mano mi tocca l'avambraccio. Il mio istinto è subito quello di strisciare via, nascondermi, sparire da tutto e da tutti. Ma è solamente Erwood, che ha finito di lavarsi, ed ora splende come gli occhi rossi di quell'uomo in nero. Veste un pantalone grigio attillato che lascia un pezzetto delle sue caviglie scoperto. Le scarpe nere come la pece che porta ai piedi brillano sotto la luce del lampadario sopra di noi e la sua giacca color celestino copre una camicia a quadri bianca e nera. Credo sia un vestito che comprò ad un negozio di roba usata.
Faccio di tutto per non farmi vedere spaventata. Scuoto la testa e gli mostro uno dei miei migliori sorrisi, anche se i brividi percorrono ancora tutto il mio corpo, soprattutto lungo le braccia e la schiena: è come se fosse in preda al panico, ma non il viso, che sta cercando di non far sospettare nulla ad Erwood. In realtà, non so nemmeno perché debba nascondergli una cosa del genere. Forse sono solo troppo spaventata e paranoica per fare cose del tipo parlare.
"Allora? Sei pronta mon amour?" Mi sussurra lui dandomi un bacio sulla guancia. Mi sciolgo davanti a quel gesto. Mentre gli rispondo con un cenno della testa, guardo con la coda dell'occhio sinistro fuori dalla finestra: l'uomo non c'è più. Forse è stato soltanto uno scherzo, ma qualcosa mi suggerisce che non lo è stato, che c'è qualcosa di più sinistro dietro questa faccenda. E che io non ne uscirò tranquilla. Erwood l'ha visto?
Mi devo calmare. Forse me lo sono soltanto immaginato.
Scendiamo le scale rapidamente e salutiamo Adrianna, che è seduta sul divano col padre di Erwood, un uomo sulla quarantina di nome Lambeth. Non è simpatico come la moglie, ma è un uomo straordinario, perché sa trovarti qualsiasi cosa tu voglia. E non sto parlando di cose materiali. Anche lui ha i capelli ricci, ma corti e dorati, ed ha un mento così appuntito che temo quasi fosse un rasoio quando lo bacio sulla guancia.
"State attenti e tornate non più tardi delle due. Sapete che oggi è sabato sera e girano certi ubriaconi..."
"Non ti preoccupare, papà" lo interrompe il figlio sorridendo. Adrianna ci saluta entrambi con un occhiolino, Lambeth la imita, e noi usciamo dalla casa. Il mio primo pensiero va all'uomo che prima mi stava fissando. Non è ancora ricomparso, e forse è meglio così. Non voglio dirlo ad Erwood, anche perché questa sera vogliamo solo divertirci alla festa a casa di Dusnatt e non pensare a uomini scheletrici alti due metri. Ma durante il tragitto verso la fermata del bus non faccio altro che voltarmi, sicura di aver sentito qualche rumore di passi lenti e decisi. Stringo più forte il mio amico, che mi sta appiccicato da quando siamo usciti di casa. Il profumo della madre si sta arrendendo davanti alla pioggerella che ora scende lenta, e difatti non lo sento più. Gli stivaletti neri che mi ha dato Adrianna sembrano respingere l'acqua. Una cosa che odio della mia città non è tanto la pioggia, ma la fastidiosità in cui scende quest'ultima: piccole gocce, apparentemente lente, ma che poi ti solleticano il viso come piccole zanzare. Oh... ma a cosa sto pensando? Alla pioggia di Londra? Ma che vada ad evaporare! È solo che, quando sono spaventata o succede qualcosa di brutto, cerco di pensare a qualcos'altro, magari di divertente: questo, di solito, è un metodo che uso per allontanare le brutte emozioni.
"Perché non ti sei portata una borsetta?" Mi chiede di colpo.
"Perché io odio le borse. Lo sai. Sono troppo... fastidiose" Gli rispondo scuotendo la testa cercando di liberarmi delle goccioline d'acqua.
Quando arriviamo alla fermata in cui ci siamo incontrati stamattina ci accucciamo sotto il riparo di ferro ricoperto di poster pubblicitari e aspettiamo il bus. Quasi improvvisamente una macchia rossa in lontananza fa più rumore di quanto dovrebbe e in meno di trenta secondi ci troviamo dentro il bus numero centotrenta sei, che ci porterà a casa del nostro mitico amico Dusnatt, un tizio che pure l'uomo più triste al mondo vorrebbe conoscere. Quando arriviamo di fronte casa sua - lui, al contrario di Erwood, vive in una casa molto isolata dalle altre - ci apre all'istante, con un sorriso che sembra quello di un pedofilo. I suoi occhi marroni sfumati di viola saettano sul mio corpo - forse ancora tremante - e sui vestiti di Erwood. Mentre si scosta il ciuffo di capelli tinti di viola con uno scatto brusco della testa, parla.
"Mancavate solo voi due!"
La sua voce decisa e forte mi fa perfino sobbalzare. Stringe la mano ad Erwood e poi mi saluta con due rapidi baci sulle guance, poi, dopo appena averci fatto entrare, sparisce dalla nostra vista, con la scusa di dover preparare delle cose. Un esplosione di odori mi invade le narici. Posso percepire l'odore di salato e di alcol, di chiuso e di sapone.
"Dai, andiamo" Erwood mi da una spintarella e percorriamo il corridoio di moquette della casa di Dusnatt. Sono venuta qui una decina di volte, per feste e per passare un po' di tempo insieme. L'ho sempre apprezzata, questa casa, anche perché venire qui equivale al divertimento. Oddio, detta così suona un po' male.
Forse l'ho immaginato, forse è il chiacchiericcio che proviene oltre il corridoio o il vento che cessa improvvisamente che mi ha fatto capire qualcos'altro, perché io l'ho sentito. Il mio nome. Bisbigliato. Da qualcuno. Alle mie spalle.
Mi volto di scatto, sorprendendo Erwood. Ma non vedo altro che la porta principale da cui siamo entrati pochi istanti fa.
"Cosa c'è?" Sento dirmi da lui.
Io lo guardo come se mi stesse dicendo la cosa più sconvolgente al mondo. Poi i miei muscoli si rilassano. O forse no, perché il mio cervello, e non so come, riesce a collegare il bisbiglio appena udito con l'uomo che mi stava fissando mentre mi truccavo. Sempre se quella fosse stata realtà. Ho tantissimi dubbi. Dubbi su tutto. Ma cosa diavolo mi sta succedendo? Sento la pelle d'oca anche sul seno.
"Niente" Sussurro con voce roca, un sibilo che si perde nel rumore della musica che ora sembra rimbombare da tutte le pareti. Il mio amico rimane a fissarmi per qualche istante, provando a dire qualcosa, ma poi mi guida verso la fine del corridoio, prima di spalancare una porta verniciata di bianco. L'enorme sala dalle pareti gialle di casa di Dusnatt mi si presenta davanti, intasa di persone. Posso giurare di aver visto qualche decina di paia d'occhi puntati su di me, mentre i miei guizzano verso dei tavolini, dove vedo un'infinità di piccoli dolci colorati e grosse patatine a forma di triangolo. Le finestre sono coperte da una spessa pellicola di polvere e vernice che tiene fuori quasi tutta la luce esterna. La cosa che mi sorprende di più, a differenza di tutte le feste in cui sono stata, è la quantità di alcol che splende sotto ciascun tavolo. Una ventina di bottiglie dai colori stravaganti catturano la mia attenzione quando Dusnatt ricompare di fronte a noi, con una piccola bustina trasparente in mano. Dentro la busta, riconosco subito "la roba". E tutti noi sappiamo di quale roba sto parlando.
Sento la felicità di Erwood eruttare da tutti i suoi pori e, mentre mi offrono da bere, Dusnatt comincia a parlare. Un tipo di musica molto forte cerca di sovrastare la sua voce, ma lui ha un tono molto alto, e lo riesco a capire perfettamente.
"Questo è Skrillex! Musica di qualche annetto fa. Sentite quanto vibra la casa!"
E in effetti è vero. Sento il pavimento vibrare sotto la forza dei bassi delle casse che sono disposte accanto a una porta dall'altra parte della stanza. Forse sento le vibrazioni un po' più accentuate, e non mi chiedo nemmeno il perché. Il mio nome sussurrato al vento poco prima mi fa rizzare tutto quello che copre la mia pelle. Scorgo una mia amica parlare intensamente con un ragazzo che sembra avere venticinque anni, mentre la mia ex compagna di banco, Mariangel, una ragazza coi capelli color oro, è impegnata nel cercare di aprire una conversazione con un altro mio amico, il mitico Danielius. È con lui che mi sono presa la prima sbronza.
Dusnatt comincia a parlare delle bevande che ha comprato e dei genitori che questa sera sono andati a dormire da una coppia svedese nella parte nord-ovest della Macchia del Sud. Pare che a questa festa ci siano parecchi maturandi, ovvero coloro che hanno quindici anni. Sì, col nuovo governo qui la scuola si finisce a quindici anni. Ma ora non è il momento di parlare del "nuovo governo", anche perché Dusnatt sta ripetendo quanto lui e noi, ovvero i suoi amici, ce la caviamo nonostante la povertà del sud. A scuola si studiava solamente la geografia della Macchia del Sud e alimentazione, come se servisse a qualcosa. Ricordo i professori che parlavano di riso e oli pregiati, quando l'olio pregiato ce lo potevamo sognare soltanto con i tipi di sogni alla Inception.
"Dusnatt" lo chiamo, sorpresa dal timbro di voce che ho. Gli fisso gli occhi marroni circondati da una sfumatura violacea. I suoi lineamenti sembrano essere morbidi e duri allo stesso tempo, e la fronte, corrugata da sempre, gli dà un'aria simpatica. Ma la cosa che amo di lui è il suo naso a forma di fischietto. Il tipo di fischietto che usano gli arbitri di sport. "Come ti sei procurato tutto questo?"
Lui rifà di nuovo quel sorriso da pedofilo, le labbra chiarissime, poi spiega. "Tutti, qui dentro, hanno messo qualche ruetta. Siamo più di cento, a te ed Erwood non ho fatto pagare. Ho comprato l'alcool a buon prezzo nel magazzino di mio zio, mentre la roba... be', la roba me l'hanno regalata"
Ma io non lo sto ascoltando più. Perché le mie orecchie lo catturano di nuovo. E io voglio strapparmele, un istinto che sembra non mio.
Il bisbiglio ora sembra provenire dai miei capelli, o perfino dai timpani. Il mio stesso nome è come una droga dentro la mia testa.
Mi volto, sicura di essermelo immaginato come prima, ma questa volta c'è qualcuno. Che si sta avvicinando a me. E le sue labbra sono pronte a toccare le mie.
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