2 - Le iridi di Satana
Alzo lo sguardo col cuore in gola, e mi perdo negli occhi color senape del mio migliore amico, mentre lui mi dà un bacio sulla guancia.
Cavolo! È solamente lui! Maledetto idiota. Odio quando mi fa scherzi del genere, ma adoro quando mi bacia sulla guancia, e lui adora quando lo guardo sorridendo. Dice sempre che ho delle "belle, carnose e succulenti labbra color cremisi".
«Cosa ci fa una bella fanciulla a quest'ora in un territorio non suo?» Ride stringendomi in un abbraccio. Non ci vediamo da circa due settimane. Il bus dietro di noi sparisce, lasciando un alone di fumo nerastro sulla piccola folla appena scesa, che guarda me il mio amico con aria confusa e divertita. Lo rimprovero per circa un minuto di non farmi prendere mai più infarti, poi riprendiamo la conversazione.
«Non era un certo Erwood Cascino ad avermi detto che io e lui avremmo passato un giorno intero insieme e poi saremmo andati ad una festa?»
Sì, una festa. Qui possiamo permetterci delle feste. Ma una volta l'anno. Ecco perché sono sempre epiche.
Io ve l'avevo detto che ce la caviamo sempre, noi del sud!
«Oh, sì, quel Cascino» Mi dice lui prendendomi per mano e guidandomi verso l'altra parte della strada prima di pulirsi le mani su un fazzoletto di carta e facendo scivolare il coltellino in tasca. «Me ne hanno parlato abbastanza bene.»
«Garbato e modesto. Non credi?» Dalla mia bocca escono nuvolette compatte che si disperdono nell'aria subito dopo un paio di secondi.
«Solamente fiducioso e riconoscente del mio io.»
«Che finezza, Er! Cosa hai mangiato a colazione? Latte e nervi di Pascoli?» Sorrido e, attraversando la strada, mi rendo conto che il cielo si è oscurato del tutto. Pochi minuti fa era del tutto azzurro!
«Odio la poesia, lo sai, Dumbetta.»
«Non ci vediamo da quindici giorni a già cominci? Io non sono Dumbetta! Il fatto che ho le orecchie più grandi delle tue non vuol dire che io assomigli a Dumbo!» Lo incalzo tirandogli il codino biondo che porta raccolto in un elastico color acquamarina. Lui mi schiaffeggia la mano delicatamente. Odia quando la gente gli tocca i capelli.
«Infatti sei una sbronzetta! Mi è arrivata voce di qualche bottiglia di Whisky ingerita con una nonchalance assurda. Non è così?» Sul suo sguardo fa la comparsa un pizzico di rimprovero. Sembra un po' arrabbiato, ma poi i suoi duri lineamenti si sciolgono. «Hai bevuto senza di me? Come hai osato!?»
Scoppio in una risata, e la gomma alla cannella mi scivola di bocca.
«Ho bevuto solamente un bicchierino con il falso giapponese. Soltanto uno, te lo giuro. Stasera farò la stessa cosa.» Confesso mentre svoltiamo a sinistra. Stiamo andando a casa di Erwood, dove sua madre ci preparerà una ricca colazione a base di frutta. Guardo su, se prima il cielo sembrava tempera azzurra, ora è tempera nera sfumata con un po' di grigio.
«Il tempo sembra peggiorare. Sono quattro giorni che continua a fare così.» Erwood cambia di colpo discorso. Ha ragione, il tempo pare che ci stia prendendo per i fondelli. La mattina presto sembra annunciare la migliore giornata di tutti i tempi, mentre poche ore dopo la peggiore della storia. E questa cosa sta andando avanti da quattro giorni.
«Rimarremo rintanati dentro la tua cameretta?» Gli chiedo mentre scorgo lo Shard, uno dei grattacieli più alti di Londra, sparire tra le nuvole. Sono stati costruiti, tutti nella Macchia del Nord, tantissimi grattacieli ultimamente.
«Ricordati che siamo migliori amici, niente di più.» Mi sussurra lui mentre si sfrega le mani e mi guarda con uno sguardo serio che potrebbe ingannare anche un koala.
«Rimanere nella tua cameretta non vuol dire oltrepassare il filo dell'amicizia, se sapremmo comportaci bene. Magari possiamo vederci qualche film di Tarantino o di Nolan» Chiudo gli occhi, accigliata. "Che ne dici di Kill Bill? O magari Pulp Fiction!"
«Bella trovata, Dumbetta.»
Non so mai quando mi prende in giro o no, ma lui ha un senso dell'umorismo incredibile, e sa tirare fuori contorti doppi sensi anche quando si parla di un neonato. Ogni volta che parla sembra studiare le parole con accuratezza. E lui è mio. Solamente mio. Di nessun'altra. Sa perdere la pazienza molto facilmente: è un pazzoide assurdo. La mia mente è talmente assorbita dalle sue parole che non mi accorgo che siamo già arrivati. Lui abita a circa un chilometro dalla fermata del bus, in una villetta a schiera color camoscio.
La mamma di Erwood, una giovanissima e simpaticissima donna coi capelli che farebbero invidia ad un cespuglio di more, ci apre la porta e mi saluta affettuosamente, baciandomi sulla guancia e sfilandomi il cappotto blu. È una delle mamme che tutti vorrebbero. Il suo calore mattutino mi riscalda e scioglie tutti i cattivi pensieri che fanno visita alla mia mente. A volte fingo che lei sia mia madre. In realtà, la considero una seconda mamma. Ma adesso nei suoi occhi verdastri c'è qualcosa che non riesco ad afferrare, quindi mi acciglio un po' mentre mi invita a sedermi intorno al tavolo della sala da pranzo. Anche Erwood sta cercando di decifrare l'espressione della madre, ma lei fa un saltello, che pare di gioia. La guardo ancora un po dubbiosa, ma contenta che l'espressione preoccupata da chissà cosa sia sparita.
«Allora, frutta fresca?»
La colazione che ci prepara Adrianna è una delle più sostanziose e gustose che abbia mai provato. E io ne ho provato davvero poche di colazioni. Come per esempio un bicchiere di latte e del grano secco. Ma, ultimamente, Erwood e la sua famiglia stanno ottenendo delle buone percentuali dal ricavato di un loro caro amico, e quindi stanno cominciando a fare molti più pasti di quanto dovrebbero normalmente. In questo momento, potrei dire che è una delle famiglie messe meglio qui in quest'area. Il mio stomaco si riempie fino a che, con solo una lieve pressione con la mano sulla pancia, provo la sensazione di rigurgitare tutto. Io ve l'avevo detto che ce la caviamo, noi del sud. Sì, l'ho ripetuto.
Due ore dopo ci ritroviamo al piano di sopra, nella cameretta di Erwood, una stanza che farebbe comodo a un bambino di cinque anni. Ma io la amo, questa stanza. Sulle pareti sono appicciati dei poster di donne in pose alquanto sensuali, mentre sulla scrivania c'è tutto quello di cui ha bisogno un vero fumatore. Sì, Erwood fuma. Ma io no. E non ho intenzione di farlo. Sebbene la situazione economica faccia schifo, Er può permettersi di fumare perché il fumo, almeno il tabacco in buste grandi quanto quelle dei popcorn, costa soltanto mezza ruetta.
Siamo sdraiati sul letto, la mia pancia sul suo petto e i miei occhi che fissano il cielo dalle nuvole nere oltre il vetro dell'enorme finestra accanto la scrivania.
«Stasera c'è da divertirsi.» Annuncia Erwood mentre giocherella con una cartina strappata.
«Dusnatt porterà la vostra roba, vero?»
Erwood mi rifila uno sguardo offeso.
«Che domande fai? Certo. Sennò che festa sarebbe?»
Passiamo quasi tutta la giornata a vedere spaghetti western e a raccontarci delle novità sulla Macchia del Sud. I senzatetto in questa zona aumentano col passare dei giorni (sopratutto in periferia) e i malati muoiono senza ricevere cure. Erwood mi ha raccontato anche che stanotte ha rubato di nascosto la macchina del lavoro ed è andato a distribuire frutta e cereali alla gente che dormiva nelle strade. Ha avuto la possibilità di farlo perché un giorno al Crepato i Deattori gli diedero qualche chilo di cibo in più (questo succede ogni sette mesi) e decise saggiamente di tenerselo per le emergenze. Anche lui fa il Trasportatore.
«Dopo il Giorno Vuoto sta andando tutto a rotoli...» Mi sussurra lui dispiaciuto. Ed è vero. Tutto sta andando a rotoli in questo territorio. E qualcuno deve svegliarsi prima che la situazione degeneri più di quanto non lo sia già. Ma tanto quelli del nord ci lasceranno per sempre così. Loro sono quelli che comandano e se la spassano, mentre noi subiamo. Però sono diciassette anni che vivo qui, e ci ho fatto perfettamente l'abitudine, quasi come tutti gli adolescenti che conosco. La Macchia del Nord... con tutti quei grattacieli... le luci... gli uomini potenti... la felicità di una vita passata nella ricchezza. È tutto questo dopo quel maledetto Giorno Vuoto.
Verso le dieci di sera siamo pronti per uscire. Erwood si è laccato il codino biondo e si è buttato un po' di profumo della madre un po' per tutto il corpo. Io, invece, indosso un vestitino nero niente male di Adrianna, che lei non usa più. Non ha esitato un momento e darmelo e io a ficcarmelo in un paio di secondi. Ci sto benissimo, soprattutto dopo essermi fatta una doccia nella vasca da bagno che mi hanno offerto. Di solito la doccia la faccio sempre qui, visto che a casa mia dire le parole acqua e calda insieme è come dire politici generosi.
Mi sto calcando le palpebre giusto con un po' di brillantini dei trucchi di Adrianna - non mi piace tanto truccarmi - quando mi blocco di colpo, fissando la finestra coperta di goccioline d'acqua. Erwood è in bagno, e non può vederlo. Di sicuro non me lo sto sognando, perché questo è troppo reale. E non mi sto nemmeno sbagliando, perché sono certa che mi stia guardando. Il barattolino di brillantini rossi mi cade dalla mano.
So che le mie pupille si stanno dilatando di fronte a quei due metri e passa d'altezza, i capelli lunghi fino alle spalle e il viso pallido allungato e una postura alquanto goffa e disumana. Forse anche i suoi occhi sono disumani, perché brillano di rosso.
Un uomo in nero è sotto la pioggia, nel bel mezzo della strada, ed ha lo sguardo rivolto verso di me.
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