21. Sorpresa e Contatto

Credeva sarebbe stato più semplice raccogliere prove sull'etica impari ostentata da Smith nell'allontanare un proprio dipendente unicamente su base discriminatoria. Invece, complice il proprio licenziamento volontario, si era rivelata un'impresa ardua se non impossibile. Non aveva i mezzi per portare a termine quel compito, non da solo almeno. Bravura e tenacia non erano sufficienti in quella lotta tra Davide e Golia, Levi ne era perfettamente consapevole, ma ciò non lo avrebbe distolto dal proprio proposito: voleva che Eren avesse giustizia, così come lui aveva lottato in nome di Carla e tutti gli Omega che venivano denigrati ed ostracizzati in quelli che, per antonomasia e pura presa di posizione, erano territori Alpha; lo faceva per lui e per i figli che portava in grembo, affinché un domani fossero consapevoli che nascere come il primo non fosse una disgrazia e rivelarsi quest'ultimo una benedizione; lo faceva per accoglierli in un mondo più equo e per dimostrare loro – ma soprattutto a sé stesso – che il padre fosse un uomo integro, e che tenesse alla propria famiglia più di ogni cosa.

Levi si stropicciò gli occhi al di sotto delle lenti dalla montatura sottile, andando poi a sfogliare il resto degli incartamenti in suo possesso, con il verde intenso delle iridi di Eren a far da sfondo nella sua mente affollata da pensieri e preoccupazioni.

Sperava che stesse bene, pregava che non lo odiasse ma soprattutto, supplicava di riuscire a sopravvivere al dolore che provava nel saperlo così ferito e distante.

* * * * *

Era trascorso un intero mese dal giorno in cui era stato nell'ufficio di Smith. Dall'ultima volta che aveva visto Eren con i propri occhi e non attraverso i ricordi vividi della memoria, e udito la sua voce incrinata piuttosto che la sua risata allegra e contagiosa, lieta infestatrice delle sue notti agitate.

Gli mancava, in un modo talmente straziante da sentirsi devastato oltre ogni logica immaginazione.

Si aggirava per casa come un vagabondo, la camicia stropicciata e le occhiaie ben visibili anche a lunga distanza. Bevve il caffè senza gustarlo, attendendo che la caffeina raggiungesse ogni zona remota del suo cervello risvegliandolo da un torpore inutile e sgradito. Non aveva tempo per dormire. Non aveva la forza di sognare, non quando gli pareva di percepire il suo dolce profumo, le sue mani bollenti accarezzarlo e sentire il proprio nome fluire attraverso labbra che era certo non avrebbe più sfiorato.

Il telefono squillò ed il corvino si mosse come un automa, portandolo all'orecchio.

«Pronto?»

Sapeva perfettamente che era impossibile si trattasse di Eren, ma la delusione lo colse ugualmente nell'appurare che, all'altro capo, la voce appartenesse a Petra.

«Hai intenzione di farti desiderare ancora per molto?»

«E tu di darmi il tormento?»

La donna rise, spostandosi una ciocca dietro l'orecchio adornato da un piccolo diamante. «Se può favorire la mia causa...»

«Petra...» Levi sbuffò, emotivamente esausto. «Non prenderla sul personale se ti dico che l'idea di metter piede in uno studio legale, ora come ora, mi disgusta.»

Non era una bugia, ma neanche la completa verità; se soltanto Eren lo avesse voluto – anche la semplice tolleranza sarebbe stata sufficiente –, gli sarebbero spuntate le ali ai piedi al pensiero di poterlo incontrare. Attraverso l'amica sapeva per certo che fosse in salute: "ha un colorito splendido", oppure "mangia con costanza pasti salutari, anche se ogni tanto ingoia un cioccolatino di nascosto...", e ancora "ha delle curve che farebbero invidia a chiunque". Eppure il desiderio di constatare che tutto ciò fosse vero lo corrodeva come il più tossico dei veleni, consumandolo irrimediabilmente. Si era tuttavia ripromesso di non incrinare un suo possibile ritrovato equilibrio, dopo il licenziamento dalla Smith & Zackley, e si astenne dall'esprimere ad alta voce quel bisogno logorante.

«Levi, stai affrontando una cosa più grande di te. Alla Reiss avresti tutto il supporto necessario per lottare contro quel razzista dalle sopracciglia abnormi ad armi pari: mezzi adeguati, associati che penderebbero dalle tue labbra al solo pronunciare del tuo nome, e–»

L'altro la interruppe bruscamente, tentando di frenare il fiume in piena che lo stava investendo sotto forma di lusinghe e tutto ciò che in un momento simile lo potesse in qualche modo allettare. «Stai sprecando tempo e fiato. Non verrò a lavorare per la Reiss, non... non è il posto per me.»

Calò un silenzio fin troppo lungo, considerata la filippica che aveva preceduto una simile stasi, e Levi inarcò un sopracciglio. Sentiva il respiro regolare della donna attraverso l'altoparlante, perciò era da escludere che fosse caduta la linea.

«Petra...?»

«Scusa se ti ho infastidito, Levi. Vorrei solo che tu fossi felice. Adesso vado, ho molte cose da fare. Ti saluto.»

L'Alpha fissò lo schermo del cellulare, stranito per quella conclusione tanto affrettata. Decise di non darvi troppo peso – ricordava bene le responsabilità che aveva un socio senior – e si apprestò a svolgere l'unica attività a cui si dedicava da settimane. Inforcò gli occhiali e sfogliò per l'ennesima volta uno degli infiniti fascicoli disseminati per il salotto, cercando anche un minimo dettaglio che gli fosse sfuggito da poter impugnare in un'aula di tribunale.

* * * * *

«Puoi venire fuori, ora, Eren.»

Al giovane Omega il viso arrossì per l'imbarazzo, e fece un passo avanti, fermandosi sulla soglia socchiusa.

«Chiedo scusa, io... Non era mia intenzione origliare... Però... Però...»

«Vieni, accomodati.»

Eren deglutì. Spinse la porta ed entrò, andando a sedersi su una delle sedie di fronte alla scrivania. Tra le braccia stringeva ancora la cartella che intendeva portare a Petra, quando aveva sentito...

«Ti prego di calmarti, Eren, e potremo parlare...»

Eren prese un profondo respiro e ricacciò al loro posto le emozioni di rabbia, gelosia e possesso che aveva provato ed emanato al solo ricordo del suo nome pronunciato da un'altra Omega. Nascosta dietro alla cartelletta, una mano andò ad appoggiarsi sulla pancia che di settimana in settimana non faceva che crescere sempre un po' di più.

«Chiedo scusa.»

«Non c'è problema. Voglio che ci sia molta trasparenza e sincerità nel mio studio... E nell'ultimo mese mi è stato davvero difficile lavorare, senza pensare che ciò che da sempre chiedo ai miei collaboratori, non lo stavo rispettando io stessa...»

«Signora Ral, lei non è tenuta a–»

«Per favore, Eren , ti ho già detto che puoi chiamarmi Petra un milione di volte. E sai, ti dirò di più... Sono stanca di tutto questo teatrino.» La donna si alzò in piedi, andò a chiudere per bene la porta, poi tornò verso la scrivania; invece di sedersi sulla propria sedia, occupò quella accanto al giovane e sospirò. «Ascolta, Levi Ackerman è un rivale ed amico da così tanti anni che non li conto nemmeno più. E quando mi ha parlato della situazione–»

«Levi le ha–... Voglio dire, ti ha spiegato tutto?»

«Non proprio tutto, ma quello che ha taciuto a parole l'ho potuto intuire da sola. Sono brava a leggere le persone... La ragione per cui ho potuto mandarti quella lettera d'assunzione così in fretta è che Levi mi ha comunicato in anticipo del vostro licenziamento, ed io non avevo intenzione di farmi scappare due come voi.»

«Noi? Levi lavora qui? Che cosa ha detto? E cosa vuol dire che sta affrontando qualcosa più grande di lui?»

Petra lo guardò con un luccichio divertito negli occhi.

«Siete proprio un caso disperato, entrambi voi... Ascolta Eren, ora ti racconterò tutto ma in cambio, quando lo vedrai, dovrai convincerlo a fare la cosa giusta, mettere da parte l'orgoglio e tornare a stare nel luogo in cui appartiene, uno studio legale ed un'aula di tribunale.»

Eren aggrottò le sopracciglia, e cercò di ignorare il nodo nello stomaco che si era formato e subito stretto, all'idea di incontrarlo di nuovo.

«Cosa ti fa pensare che vedrò Levi?»

«Perché non potrai farne più a meno.»

* * * * *

La luce del giorno andava affievolendosi con costante lentezza, gettando il salone in uno stato di tiepida penombra. Le pareti si tingevano di colori caldi, meno vivaci di secondo in secondo, e le tende si muovevano appena mosse da un vento debole e affatto fresco.

Levi non prestò attenzione a nulla di tutto questo: non si curò del bruciore che tormentava i suoi occhi, secchi per le troppe ore passate a leggere documenti che oramai recitava a memoria come una litania, o delle spalle indolenzite e curve per la stanchezza. La sua mente era concentrata sull'obiettivo irraggiungibile che si era prefissato, il cuore altrove, rimasto ingabbiato tra dita che un tempo aveva considerato delicate ma che adesso lo stringevano quasi crudeli.

Eren gli mancava.

La sua assenza era insita in ogni respiro che prendeva, in ciascun passo che compiva, trasudava persino dall'intonaco delle mura come se la sua esistenza stessa, in quella casa e quella vita, avesse contaminato tutto ciò che avesse mai visto e toccato. Era la voragine che gli squarciava il petto di secondo in secondo, cibandosi di ogni emozione che non fosse il dolore. Eppure, esso era ancor più difficile da sopportare perché irrimediabilmente intriso di amore che, se possibile, si era raddoppiato – anzi, triplicato.

Avrebbe voluto accarezzare quel ventre che fino a qualche tempo prima aveva riempito di baci e piccoli morsi, adesso culla di due germogli tanto fragili quanto preziosi. Invece, l'unica consolazione per quella lontananza era che l'Omega stesse bene, che il nuovo studio lo trattasse come meritava, riconoscendogli bravura ed impegno, e che le sue forme finalmente fossero quelle che si addicevano a un Omega in dolce attesa. Almeno secondo Petra.

Spostò le lenti da lettura dal proprio naso, strofinando le palpebre con insofferenza, la voglia di spaccare il mondo e un'impotenza mai sperimentata prima di allora.

Eren gli mancava. Gli mancava da morire.

La loro lontananza era contro natura.

Questo era ciò che l'Alpha dentro di lui non faceva che ruggire e ringhiare, quasi ferendo Levi stesso con il suo brontolio continuo. La voglia di mollare tutto e andare a prenderlo, riportarlo a casa, curarlo, cullarlo, crescere con lui quelle nuove vite, doveva continuamente metterla a tacere. Non era una sua scelta.

Certo, avrebbe lottato per poter incontrare i suoi figli, dopo la nascita, e conoscendo Eren era certo che quello non sarebbe stato un problema. Non l'avrebbe tenuto fuori dalla loro vita, ma Levi non voleva solo i bambini. Voleva il suo compagno, l'uomo che amava, l'Omega che aveva scelto come unico e solo partner di vita. E su di lui non aveva alcun controllo.

Aveva lasciato una porta aperta. Gli aveva scritto un messaggio, unico, che sapeva per certo fosse stato letto, un invito a ricordare che lui ci sarebbe sempre stato e che avrebbe sempre saputo dove trovarlo. Per qualsiasi bisogno, motivo, necessità. Desiderio.

Erano passate settimane dall'invio di quelle parole che non avevano ricevuto alcuna risposta, ma non poteva aspettarsi niente di diverso dal carattere orgoglioso del suo amato giovane guerriero. Lo avrebbe comunque volentieri preso a calci, perché era assolutamente certo che stesse soffrendo almeno quanto lui. E allora, maledizione, perché...?

Lo squillo del telefono arrivò a turbare l'agitata quiete dei suoi pensieri che aveva lasciato liberi di correre durante la breve pausa che si era concesso. Non sapeva perché continuava a rimuginarci. Perché continuava a farsi male. Era più forte di lui.

Afferrò l'oggetto, posandovi stancamente lo sguardo per poi sgranare gli occhi, smettere di respirare, cessare qualunque funzione il suo corpo compisse al di fuori di sperare.

Attese qualche istante prima di rispondere per non sembrare troppo disperato – anche se non gli importava granché di esserlo –, ma non troppo per paura di perdere un'occasione che nelle rare ore di riposo non faceva che sognare. Sapeva esattamente quanti giorni, ore, secondi erano trascorsi dall'ultima volta che aveva sentito la sua voce, inspirato il suo profumo, visto le sue lacrime di rabbia e disperazione.

Portò il ricevitore all'orecchio, teso come non era stato neanche la prima volta che aveva messo piede in un'aula di tribunale. Era tutto diverso, stavolta. Nessun intermediario, nessuna giuria. Lui era l'unico a poter esprimere una sentenza, giudice e boia, salvatore o carnefice.

«... Pronto?»

«Levi... Sono Eren.»

La sua voce era esattamente come la ricordava. Anche se non era un pensiero razionale e sensato l'idea che fosse potuta cambiare, in fondo erano passate poche settimane, non anni. No, a quelli sicuramente non sarebbe sopravvissuto.

«Ehm, ti disturbo? Stai lavorando...?»

«Sì, cioè... Sto lavorando ma no, non disturbi affatto...»

I suoi piedi si mossero, guidandolo attraverso il salone senza una meta precisa. Si passò una mano tra i capelli in disordine, poi si poggiò a una parete come in cerca di qualcosa di concreto che potesse fisicamente sostenerlo. Non era certo che il suo corpo esausto lo avrebbe retto a lungo.

La domanda che fremeva porgli rimase incollata al palato, terrorizzato di poter spezzare qualunque motivazione avesse spinto Eren a telefonargli. Deglutì, raccogliendo tutto il coraggio che la sua parte Alpha fosse in grado di fornirgli, ora che l'uomo si sentiva inerme e inadatto.

«Come... Come stai? Come state...?»

«Bene. Stiamo bene» rispose.

L'Alpha non riusciva a sentire nulla, attraverso la linea, a parte la sua voce. Nulla che gli potesse dare un indizio su dove si trovasse, su cosa stesse facendo. C'era solo silenzio, interrotto dalle sue parole e respiri regolari.

«Io ho un nuovo lavoro... Ma questo tu lo sai già.»

Levi si irrigidì, completamente ghiacciato da quelle parole. Era impossibile che Petra lo avesse tradito, mettendolo al corrente di tutto. Forse era un bluff, dopotutto faceva parte del loro mestiere mentire per svelare la verità.

«In realtà no, non lo sapevo. Sono contento per te. Ti... Ti trovi bene?»

«Levi, so tutto. Petra me l'ha detto» ribatté Eren, e dal tono Levi riusciva a immaginare perfettamente la sua espressione, gli occhi alzati al cielo, le guance che si gonfiavano per sbuffare. «Puoi evitare di far finta di niente. Non sei affatto convincente, tra l'altro.»

Cazzo.

«Allora puoi riferirle che la prossima conversazione che avremo non sarà troppo piacevole...» Si lasciò scivolare al suolo, non aveva più alcun senso continuare quella farsa. «È per questo che mi hai chiamato?»

«Mh-mh... Volevo ringraziarti... Questo lavoro mi ha davvero aiutato a rimettermi in piedi, dopo la davvero poco cortese lettera di licenziamento di Smith...» proseguí l'Omega, con più calma. «Ed anche perché so che ti ha offerto un posto allo studio e non voglio che lo rifiuti a causa mia... Levi... So che cosa stai facendo. E voglio aiutare.»

Non era esattamente quel che si aspettava. Credeva lo avrebbe rimproverato per essersi ulteriormente intromesso nella sua vita, dopo avergli fatto perdere il lavoro. Non si era mai pentito della decisione presa, né mai lo avrebbe fatto, ma il senso di colpa per quel fallimento lo tormentava giorno e notte. Sospirò, la gola secca e lo stomaco sottosopra.

«Sto bene dove sono, Eren. Non mi serve aiuto. L'unica cosa di cui ho bisogno, è sapere che ti stai prendendo cura di te stesso e di loro. Mi basta questo... O almeno, me lo farò bastare.»

Ci fu una pausa di silenzio, lunga abbastanza da far temere all'Alpha che la linea fosse in qualche modo disturbata. Poi, dall'altra parte della linea, Eren tornò a parlare.

«Non vuoi più lavorare con me» disse.

«Non è questo, Eren, io...»

Per un istante, un traditore istante la voce gli tremò mostrando quanto fragile fosse. Eppure doveva essere forte, farsi carico di un peso che non era certo di poter sopportare: la distanza.

«Io non posso lavorare con te. Non così. Vederti tutti i giorni in ufficio, respirare il tuo profumo sapendo di non poterti toccare, nemmeno sfiorare, io... Non potrei sopportarlo. È oltre i miei limiti, Eren...»

«È ancora quello che vuoi?»

«Come?»

Quella domanda lo colse così impreparato da farlo esitare. Soprattutto perché la risposta era scontata.

«Dici di non potere, ma lo vuoi? Levi, se bussassi alla tua porta... Apriresti?»

«Sì, Eren. Aprirei, la strapperei dai cardini se necessario...!»

Faceva così male dirlo e non poterlo fare, che non sentì nemmeno le proprie dita tirare con forza le ciocche corvine o i denti stridere gli uni contro gli altri, per bloccare il latrato sofferente a cui Alpha e uomo desideravano dar voce.

Dall'altra parte della linea un suono lo raggiunse, e lo lasciò stordito per un attimo.

Eren aveva appena riso...? Aveva sentito bene?

Toc-Toc-Toc

Quel suono arrivava dalla sua porta d'ingresso.

Si mosse ancor prima di pensare, di comprendere realmente cosa stesse facendo e perché. Col telefono ancora nel palmo della mano, accanto all'orecchio, colmò i pochi metri che lo separavano dall'uscio, una strana ansia a pervaderlo ed il cuore che batteva a mille all'ora senza alcuna spiegazione logica.

Non doveva illudersi, volare in alto, perché cadere rovinosamente al suolo avrebbe fatto male il doppio. Allora cos'era quella sensazione che lo trascinava lì di peso, attirandolo al pari di una calamita verso qualcosa che non poteva vedere ma che i suoi sensi, tesi e vibranti a un silenzioso richiamo, percepivano come l'indiscusso centro del suo universo...?

La mano libera afferrò la maniglia, facendo scattare la serratura e tirandola con più energia di quanto fosse realmente necessario, spostando così l'aria che lo colpì in viso, potente come una frustata, insieme a ciò che trascinava con sé perché, ancor prima di poter posare gli occhi su qualunque cosa, questa gli entrò dentro attraverso le narici, incollandosi alla gola per poi scendere nei polmoni e fermarsi esattamente lì, nel petto, rimasto immobile per un istante: una zaffata dolce e vagamente speziata lo avvolse, accerchiandolo senza lasciargli alcuna via di fuga e se fosse stato quello il suo ultimo respiro, sarebbe certamente stata la più bella delle morti.

Le iridi di Levi si sgranarono, ingoiando la pupilla mentre il suo campo visivo si ampliava millimetro dopo millimetro, di pari passo con la porta che nella sua stretta ferrea si spalancava, mostrandogli la figura che sostava sul pianerottolo. Schiuse le labbra senza però emettere alcun suono, la lingua completamente attaccata al palato e un peso incastrato tra le costole che pareva farle scricchiolare. O forse erano davvero i cardini della porta, vista la veemenza con cui l'aveva tirata.

«Ciao. Di nuovo...»

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