XIV
Capitolo Quattordicesimo
Fluttuavo nel nulla più assoluto, in una specie di limbo immateriale. Avanzavo a balzoni morbidi ed attutiti, senza mai sfiorare la terra con i piedi. La testa mi ciondolava, premuta contro una superficie soffice e rassicurante. Ero morta davvero?
Esagerata? Può darsi, a volte sono davvero troppo pessimista.
Una volta, ricordo, mi ero tagliata un dito usando le forbici da giardinaggio di Becky, e visto che il sangue continuava a scorrere copioso avevo cominciato a dire che sarei morta dissanguata. Quella volta mi ero salvata, ma questa? Non ne ero poi così sicura.
Le tempie mi pulsavano ferocemente, e sentivo i muscoli indolenziti: morire non poteva essere così doloroso, o forse sì? Forse non ero ancora morta, ma ero lì lì per morire, ancora un attimo, un istante soltanto…
Stavo quasi per farmene una ragione, sentivo quasi le campane, quando mi accorsi di percepire sensazioni reali: l’aria aveva un profumo strano, ad esempio. Sapeva di buono e di dopobarba. E le campane? Non erano campane, era una voce.
-Andiamo, Christa, non farmi questi scherzi del cazzo.-sibilava ad un niente dal mio orecchio. Sbattei le palpebre, confusa.
Oh, mi ero sbagliata di nuovo. Ero viva.
Prima ancora che potessi capire dove mi trovassi, incrociai un paio di occhi. I suoi occhi. Sorrise, ma sembrava ancora molto preoccupato.
-Tutto bene?-si era fermato.
Solo allora mi accorsi che non camminavo sulle mie gambe: mi stringeva tra le sue braccia, e teneva la mia testa premuta contro il suo petto. Feci per liberarmi dalla sua stretta, infastidita, ma la testa ancora mi girava. Avevo le vertigini, e la nausea mi era tornata: lasciai che mi guidasse ancora per qualche metro.
L’infermiera era una donna rotondetta sulla quarantina, con i capelli rossicci ed i denti brillanti: aveva un sorriso inquietante, ma sembrava gentile, con quegli occhietti piccoli e le guance paffute. Mi venne voglia di fidarmi.
Quando da piccola stavo male, mi accoccolavo tra le braccia di mio padre, con una tazza di tè bollente in mano, ed insieme guardavamo i talk show in televisione. Avevo dei ricordi stupendi di quei pomeriggi d’inverno in cui lui era tutto per me, me soltanto, e mio fratello se ne stava chiuso in camera da solo a studiare, per ingraziarsi nostra madre.
Sorrisi, coccolata dal ricordo del calore di mio padre e del suo odore.
-Come posso aiutarvi?-chiese la donna, riportandomi con i piedi per terra. Aveva uno sguardo carico di apprensione, come se fosse successo qualcosa di terribile, come se mi avesse appena portata lì grondante di sangue.
-E’ svenuta, l’ho trovata sulla rampa di scale dietro…-indicò qualcosa dietro di sé, poi mise le mani in tasca, ed evitò il mio sguardo.
La donna, visibilmente sollevata, si avvicinò per toccarmi la fronte e lessi la targhetta che aveva appuntata sul camice: Mrs Fincher.
Fincher.
Fincher non so, mi stava antipatico. Finch-Fincher. Mi faceva venire in mente le unghie laccate di Roxanne, le estension di Mandi e Shandi, o al limite gli occhialetti spigolosi della segretaria, ma non riuscivo per nulla a farlo combaciare con la donna rotonda e gioviale che mi stava misurando la febbre con un termometro a contatto.
-38.5°? Oh, tesoro, nulla di grave, hai solo un po’ di febbre. Aspirina per il mal di testa ed un po’ di riposo. Non ti serve altro.-nemmeno mia madre sarebbe stata così gentile.
Lanciai uno sguardo ad Harry, mentre l’infermiera metteva mano alla sua personale scorta di farmaci nella teca a vetro sulla parete di fronte a me. Lui mi guardava a denti stretti, con un’espressione illeggibile.
-Ecco qui! Massimo due al giorno, finchè la febbre non scende.-disse Mrs Fincher, rivolta più al riccio che a me.-Possibilmente a stomaco pieno.
Solo al pensiero del cibo lo stomaco mi fece una capriola. Mm, meglio di no, grazie tante, ma sta volta mi sa che passo.
Mi misi a sedere, e mi alzai, un po’ più sicura sulle gambe. Vidi l’infermiera porgere due flaconi ad Harry, che li infilò rapidamente nella tasca del blazer. Poi lo salutò con un sorriso tirato, come se le fosse appena venuto in mentre qualcosa, un dettaglio che aveva trascurato.
Appena fummo soli nel corridoio, Harry scoppiò a ridere.
Dopo un po’ cominciò a diventare inquietante, era piegato in due, si teneva la pancia, non la smetteva più. Aveva le lacrime agli occhi. Un po’ confusa gli chiesi cosa ci fosse di così divertente.
Mi guardò con gli occhi colmi di una tristezza profonda, placando lentamente la risata:-Niente, Christa, niente. È solo che, permetti, è dannatamente ridicolo che sia io a dovermi prendere cura di te!
Nel tragitto verso la mia stanza non tornammo più sull’argomento, nonostante quella frase mi avesse messo addosso un’inquietudine spaventosa. Chi si sarebbe dovuto prendere cura di me? Zayn? Louis?
La camera, per fortuna, era deserta; guardai l’orologio: segnava le dieci e venticinque, e Shandi probabilmente era in camera di Liam a pomiciare.
Mi distesi sul letto lentamente, sfilandomi le scarpe, serrando le palpebre per scacciare il mal di testa feroce.
-Non funziona, sai?-disse Harry, chiudendosi la porta alle spalle e sedendosi sul bordo del mio letto.
-Eh?
-Stringere gli occhi non aiuta affatto. Prova piuttosto a tenerli chiusi e a rilassarti un p…
-Io faccio quello che mi pare e piace, capito?!-sbottai seccata, e mi premetti il cuscino sulla faccia.
Detestavo Harry perché era come mio fratello: un egocentrico, narcisista, bastardo maniaco del controllo. Come poteva pretendere di sapere cosa fosse meglio per me? Chi era lui? Perché stava lì con me? Ma, soprattutto, chi gliel’aveva chiesto?
Quando mi tolsi il cuscino dalla faccia, Harry era in piedi vicino alla scrivania, e trafficava con un bicchiere e una bottiglietta d’acqua. Si girò verso di me, gettando la pillola effervescente nell’acqua.
-Dai, bevi questo.-strinsi le labbra.
-No, non credo.-incrociai le labbra e mi girai di lato.
-Chista, non fare la bambina!-aggrottò le sopracciglia infastidito, porgendomi con veemenza il bicchiere.
-Non mi va, ho detto! NON. MI. VA.-urlai, per tutta risposta.
Per chi mi aveva presa? Per una bambina? Sapevo prendermi cura di me stessa anche da sola. Non mi serviva lo stupido aiuto di uno stupido ragazzo con una stupida vita insulsa in una stupida scuola insensata. Ero Jamila, io. Non avevo bisogno di nessuno. Non ne avevo mai avuto, e non ne avrei mai avuto.
Fece per dire qualcos’altro, ma vista la mia espressione battagliera pensò bene di lasciar perdere, e posò il bicchiere sul comodino.
-Bene, dato che “Non-le-va”, signorina, cosa posso fare per lei?- il suo finto tono servile mi urtò i nervi in maniera epocale.-Vuole che le rimbocchi le coperte, che le aggiusti il cuscino, che le faccia da spalla su cui piangere, da punchin’ ball su cui sfogarsi?
Non ci vidi più.
-Voglio che tu vada via!-gli gridai contro, con le lacrime agli occhi.-Va’ via accidenti! Esci dalla mia vita!
Harry annuì piano, e si alzò, portando in alto le mani. Si tolse fuori un flacone dal blazer e lo sbatté rumorosamente sul tavolo. Prese il bicchiere e lo vuotò per terra, afferrò un foglietto e lo accartocciò, lanciandolo verso il cestino. Lo mancò, e si mise le mani dietro la testa imprecando.
Poco prima di varcare la soglia si girò e mi guardò, deluso ed arrabbiato:-Grazie Harry, non dovevi disturbarti a raccogliermi ed a portarmi in infermeria, Harry. Grazie per essermi stato vicino e tutto quanto, Harry. Proprio non dovevi. Non c’è di che, Christa, non c’è di che.-e si sbatté la porta alle spalle.
Irata lanciai il cuscino contro la parete, ed il bicchiere vuoto lo seguì ben presto, andando in pezzi sul pavimento. Mi distesi con il cuore in gola, e le tempie pulsanti. Mi tolsi l’impiccio della gonna e delle calze, e lasciai che le lacrime rigassero il mio volto.
Il mal di testa mi era esploso in tutta la sua potenza. Chiusi gli occhi e provai piano a rilassarmi. Dopo dieci minuti in silenzio andava già meglio. Lanciai l’abat-jour contro il muro per la frustrazione. Non poteva essere, aveva pure ragione!
Lo odiavo. Lo odiavo. Lo odiavo con tutta me stessa. Esisteva al mondo qualcuno di più insopportabile? Jad sembrava un angelo, in confronto.
Osservai l’orologio, erano più o meno le undici, e di Shandi non c’era ancora l’ombra.
Indecisa sul da farsi, restai distesa un altro po’, poi mi alzai piano e corsi a prendere un altro bicchiere, evitando i cocci del primo.
Mentre lo riempivo d’acqua, la mia attenzione fu catturata dal bigliettino accartocciato vicino al cestino. Posai il bicchiere e mi accovacciai lì vicino. Lo presi in mano e lo dispiegai per leggerne il contenuto:
“Per qualsiasi cosa, sottolineo, qualsiasi cosa, chiamami e verrò da te in un lampo. Io ci sono, Harry” ed a seguire il suo numero di telefono.
Rilessi quelle due frasi più volte, con qualcosa che premeva vicino allo stomaco. Senso di colpa? Dopo la scenata che avevo fatto serviva a ben poco sentirmi in colpa.
Presi il flacone delle pillole effervescenti e ne disciolsi una nell’acqua, girandola con un bastoncino di plastica. Infilai il bigliettino nel cassetto e mi misi a letto. Mentre sorseggiavo la mia aspirina, con la coda dell’occhio mi ritrovai a leggere le indicazioni sul flacone.
L’ultimo sorso mi andò di traverso: non era un’aspirina.
Quello che avevo appena preso era un sonnifero.
Prima di scivolare nell’incoscienza mi chiesi cosa ci facesse Harry con un sonnifero.
...
Al mi risveglio le forze mi mancavano totalmente: non era stato quello che si suol dire un sonno ristoratore, anzi, a me pareva d essere alla fine di una lunga ed estenuante giornata di lavoro sotto il sole.
Della sera precedente avevo molte lacune, ricordi piuttosto nebbiosi, inconsistenti, più che altro sensazioni. L’unica cosa che ricordavo con lucidità era il flacone di sonnifero. Allungai il braccio e lo afferrai, come per assicurarmi di non averlo sognato. Le pillole erano lì: venti cerchietti rotondi.
L’orologio segnava le dodici, ed a quanto pareva Shandi non aveva passato la notte lì. Avevo dormito dodici ore, quella roba doveva essere forte sul serio.
Presi il telefono: sedici chiamate perse. Due di mamma, una di Niall, due di Scarlett…undici di Zayn.
Il mio sguardo corse al cassetto del comodino, dove sapevo esserci il numero di Harry. Avevo paura di chiamarlo, avevo una brutta sensazione, come se fosse successo qualcosa di sgradevole tra noi, e non faticavo a crederci, vista la sgradevolezza della persona stessa di Harry.
Valutai un attimo le mie opzioni.
Potevo chiamarlo, dirgli dello scambio, magari litigarci, avere le mie pillole e stare bene.
Oppure potevo ignorarlo, stare a letto e soffrire per giorni.
Composi il numero. Mi rispose al terzo squillo.
-Sì?-aveva la voce tirata di uno che aveva dormito molto meno di me.
-Harry? Sono Christa.-mi chiuse il telefono in faccia, e rimasi immobile per un istante, chiedendomi perché lo avesse fatto.
Poi vidi i cocci, la macchia sul tappeto, l’abat-jour. Immaginai cos’era successo. Ingoiai l’orgoglio e chiamai ancora, ed ancora, ed ancora. Non rispose.
Avevo voglia di lanciare il cellulare contro il muro, di piangere, di urlare, di ucciderlo, anche. Lo avevo chiamato quindici volte. O sedici, o diciassette. Avevo smesso di contarle.
Alla fine, con gli occhi che pizzicavano, gli inviai un semplice sms, quattro parole in croce, volevo solo liberarmi di quei sonniferi, e poi non avere più nulla a che fare con lui.
“Mi hai dato la scatola sbagliata, vieniti a prendere i tuoi dannati sonniferi”
Ed aspettai.
Mi sembrò di aspettare un secolo, quando finalmente qualcuno bussò alla porta della mia stanza.
Arruffata, stanca e debole aprii piano la porta, con il mio cipiglio più acido e determinato.
Ma, ancora una volta, rimasi sorpresa. Alla porta non c’era quel bastardo cinico narcisista egocentrico di Harry Styles, ma il suo favoloso, bellissimo, atletico e simpatico amico, Mr. Louis T, per il quale, guarda caso, avevo un debole.
-Louis, che sorpresa.-mi coprii le gambe con la maglietta, con nonchalance.
Lui mi riservò il suo sorriso più luminoso, ed io mi sciolsi. Accidenti, era perfetto.
Mi lasciai cullare dall’idea che fosse venuto per sapere come stavo, perché Harry gli aveva detto che ero malata, perché non mi aveva vista a lezione, e fantasticai su quanto fosse dolce e premuroso.
La febbre doveva essermi salita, stavo delirando, parlavo come quella disperata della mia migliore amica!
-Come va?-mi chiese, e visto che non lo invitavo ad entrare si fece strada da solo, ammirano la meravigliosa vista della mia stanza, che per metà (quella di Shandi) sembrava disabitata, e per metà (la mia) presa d’assalto da bande di teppisti di strada.
-Io…-tossicchiai, gesticolando.-Sì, bene. Sì, ehm. Meglio.
Puntò i suoi occhi azzurri nei miei, si avvicinò fino a toccarmi e premette forte le sue labbra sulla mia fronte. Rimasi imbambolata, ferma come una stupida, aspettando non so cosa.
-La febbre si è abbassata.-si allontanò, e presi aria. Mi sedetti sul letto di Shandi con le gambe incrociate, e lo osservai mordersi il labbro, nervoso.
-Christa, devo essere sincero. Non sono qui per una visita di cortesia.- mandò in frantumi il mio povero cuore, ed anche il mio ego, assieme a lui. Ed io che credevo che fosse venuto per sapere come stavo!
Ah ah ah. Che illusa. Benvenuta nelle scuole private, Chista, qui sono tutti spocchiosi figli di papà che fanno ogni cosa per il proprio tornaconto.
-…mi manda Harry.-tirò fuori dalla tasca dei suoi pantaloni un flacone identico a quello che c’era sul mio comodino, e me lo porse. Indicai il sonnifero con un gesto del mento, e lui scambiò le scatole con un gesto.
Dov’era tutto il suo charme, adesso? Sembrava dannatamente serio. Quasi non riuscivo ad odiarlo.
-E’ tutto?-dissi, e Louis annuì, grave.-Puoi anche dire al tuo amichetto di andare a fanculo, allora.
*
NdA
Eccovi il capitolo 14 (?)
Non mi convince moltissimo ma la storia sta prendendo sviluppi interessanti. Ipotesi? Voglio sentirvi un po' più attivi, anche perché aumentate sempre di più!
Per coloro i quali mi leggono dal cellulare, Christa Malik sarebbe la cantante libanese 'Nina Abdel Malak', è una ragazza bellissima, a mio parere!
Un bacio e a presto pischellini (?)
Elennnn
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