Capitolo 11

Manhattan, New York City - 25 Settembre 2012 

E così, oggi, il domani di ieri, mi ritrovai con questa busta in mano, a ripensare come avesse potuto qualcuno consegnarmela senza che me ne ricordassi, o meglio, accorgessi. Ripercorsi mentalmente tutti gli spostamenti che avevo fatto durante la giornata, ma continuavo ad avere un buco nero nel cervello. Ma, da quel che ne so, ancora non soffro di vuoti di memoria, quelli lasciamoli a quando avrò novanta anni e sarò decrepita, su una sedia a dondolo, a fissare il vuoto totale.

Ancora non mi spiegavo come fosse possibile, ma la mia preoccupazione fu sorpassata dalla curiosità di questa offerta di lavoro, e soprattutto, dalla possibilità di poter essere indipendente dalla mia famiglia. Se in futuro riuscissi a mettere qualcosa da parte, avrei l'occasioni prima o poi di poter abbandonare mio padre una volta per tutte, ed essere libera da tutte le sue regole restrittive. Anche se i soldi non erano mai stati un problema, sapevo che tutte le mie spese venivano controllate e che se fosse mancato inspiegabilmente anche un solo centesimo, mi avrebbe chiesto spiegazioni. Spiegazioni che non potevo dare, a meno che non volessi essere rinchiusa per sempre in un convento sperduto sulle montagne. E, forse, fu anche per questo che non dissi niente a nessuno, nemmeno a Candice, perché meno persone lo sapevano, più sarebbe stato facile mantenere il segreto. Seppur non avessi mai pianificato una sorta di ''fuga'', sapevo che se me ne fosse mai stata data l'occasione, l'avrei colta al volo.

Avevo anche provato a cercare invano questa 'U.S.A.' ma non mi usciva fuori nulla di remotamente utile nella mia ricerca (se non si considera utile il sapere gli infiniti significati di questo acronimo, oltre a quello di Stati Uniti d'America, o che potesse anche significare ''Under Satan's Authority'', si intende). Non trovando nulla, dovetti quindi rispolverare le tecniche di stalking apprese negli anni da Candice, la quale poteva essere considerata una vera e propria professionista. Scherzo. Semplicemente decisi di cercare su Google Maps l'indirizzo che vi era riportato sulla lettera. La strada esisteva e, apparentemente, anche il numero civico. Ma non saltava fuori nessuna azienda o negozio. Però, una volta trascinato l'omino giallo sul mio punto di interesse, e venir catapultata direttamente in mezzo alla strada, col mouse feci girare l'immagine, e mi ritrovai davanti una biblioteca. Non aveva né nome né insegna, se non che dalle sue vetrine si potevano chiaramente intravedere scaffali pieni di libri. O forse era una sottospecie di archivio? Fatto sta che era così piccola e così vecchia, che forse era per questo che era irrintracciabile su internet, e utilizzava ancora le lettere al posto delle email. Una cosa però ancora non mi tornava, no, anzi, un'altra cosa, non mi tornava. Perché avevano scritto proprio a me, tra tutti? 

Decisi però di mettere da parte i miei pregiudizi e le mie preoccupazioni e di tentare la sorte presentandomi all'incontro. Fu così che quel pomeriggio, alle 15 circa, mi ritrovai ad inventare qualche scusa per Candy sul perché dovessi uscire a quest'ora e, soprattutto, dove e con chi.

Dopo una quindicina di minuti, mi ritrovai davanti alla vetrina del negozio. Mi presi qualche secondo prima di entrare, per osservare bene il luogo. I vetri anneriti e tinti dal passare del tempo, l'aspetto esteriore scuro e quasi lugubre, le davano l'apparenza di un negozio d'epoca gotica, quando in realtà, anche solo il pensiero era inverosimile, in quanto New York era stata fondata 'solo' qualche secolo più avanti.  Feci un bel respiro, e con un po' di coraggio, spinsi la porta.

Come Alice, mi sentii cadere nella tana del Bianconiglio ma, nel mio caso, fu più come saltarci dentro volutamente.

La solida porta di vetro, una volta aperta fece scattare l'usuale campanella che avvisava l'entrata di un nuovo cliente. La mia attenzione venne però catturata immediatamente dagli alti soffitti, di cui certamente non se ne intuiva la presenza dall'esterno. L'enorme ambiente era riempito da alti e massicci scaffali di legno scuro, colmi fino all'orlo da volumi e volumi di libri. L'unica differenza era che questi non erano i soliti libri di oggi o di qualche decennio fa. No, erano sicuramente molto più vecchi, quasi antichi. Mi diressi ad uno degli scaffali ed accarezzai le varie copertine: pelle, tessuto, di nuovo pelle, percorrendole come una tastiera di un pianoforte, in trance. Alzai lo sguardo e, sulle pareti di un intenso Blu Persia, vidi alcuni dipinti che, a giudicare dallo stile, sembrava risalissero al sedicesimo secolo. Prosegui più avanti, in cerca di un bancone del ricevimento o qualcosa di simile, quando, voltandomi a sinistra per dare uno sguardo, vidi un'area con tavolini e piccoli sofà, e alle pareti, ancora altri quadri, i quali sembravano tutti molto preziosi. Mi balenò quindi il pensiero che forse ero stata consigliata dalla mia università per un qualche tipo di lavoro di catalogazione di opere d'arte o restauro, anche se quel tipo di corso non iniziava fino al terzo anno e ..

«Ciao! Posso aiutarti?» I miei pensieri furono interrotti da una voce squillante e certamente femminile. Abbassai lo sguardo e, di fronte a me, vidi una bassa ragazza con una folta chioma bionda legata in una coda, ed un sorriso così terribilmente smagliante, che quasi mi mise in soggezione. 

«Ehm... sì, sono.. » Le parole non mi uscivano di bocca, bella prima impressione che stai dando Dakota. Grandioso!

«Aah, Dakota Ferguson giusto?» mi chiese lei mantenendo comunque il suo sorriso. Se stava fingendo di non aver notato il mio momento di imbarazzo totale, lo stava facendo magnificamente. Oppure semplicemente era tutto solo nella mia testa. Decisi però di non continuare a fissarla come un ebete, ma di risponderle affermativamente.

«Si, esatto, sono io!» le sorrisi e frugai nella borsa in cerca della busta «Mi è stato chiesto di consegnare anche questo» tirai fuori la lettera e gliela consegnai. Lei la adocchio ma non la prese, anzi, mi mise una mano dietro alla schiena e delicatamente mi invitò a seguirla.

«Oh perfetto, seguimi pure e intanto ti darò qualche istruzione». Ci dirigemmo verso quello che sembrava il fondo della biblioteca, dopo aver superato circa una decina di file di scaffali. All'incirca alla fine, ci fermammo davanti ad una delle sezioni, nessuna delle quali era numerata, rendendo probabilmente la ricerca di un libro molto più difficile. I miei pensieri furono interrotti nuovamente dalla voce della ragazza di cui ancora non avevo appreso il nome.

«Eccoci qui, non sarò io a farti il colloquio, ma una delle responsabili dell'agenzia» 

Agenzia?! Lei continuò a parlare, mentre ci spostavamo ed entravamo in una delle sezioni della biblioteca e, poco prima della fine, si infilò in una rientranza negli scaffali che, probabilmente, se non se ne conosceva l'esistenza, la si sarebbe sorvolata passando oltre. Si fermò davanti ad una delle scaffalature e, facendo pressione sul fianco, essa ruotò su se stessa, lasciando spazio per un passaggio, come quelle che si vedono negli antichi passaggi segreti dei castelli. Guardai la scena davanti a me meravigliata e un po' incredula, non riuscivo a metabolizzare il fatto che questo posto avesse una porta così strabiliante. Entrammo in questo piccolo stanzino, e, di fronte a noi trovammo un ascensore. E in quell'istante ebbi un po' paura, pensando di essere capitata in uno di quei posti segreti dove ti attirano con l'inganno per poi farti a pezzetti. Ma il sorriso di lei, che mi sembrava così genuino e innocente, un po' mi rincuorò.

«Ti stanno aspettando al piano inferiore. Io purtroppo non posso accompagnarti. Ti chiedo gentilmente di appoggiare la mano su questo schermo» disse lei indicando il piccolo monitor accanto all'ascensore «Ti rileverà l'impronta con una veloce scansione. E' l'unico modo per poter accedere agli uffici. Non ti spaventare eh, è solo che qui siamo molto tecnologicamente... attenti, diciamo». 

Con un gesto della mano, mi invitò a premere il palmo sulla superficie dello schermo. Una volta appoggiato sul vetro freddo, sentii un ronzio, ed un tratto di luce laser illuminò lo schermo, scendendo giù in basso, lasciando una sensazione di caldo sulla mia mano, mentre la scannerizzava. Lo schermo fece un piccolo suono e di conseguenza le porte dell'ascensore si aprirono automaticamente. Entrai nel vasto spazio, mentre lei, allungando un braccio dall'esterno, premette un tasto con la freccia rivolta verso il basso. Mentre le porte si richiudevano, mi fece un ultimo dei suoi sorrisi incoraggianti, ma non mi rasserenò affatto in quanto, proprio qualche istante più tardi, l'ascensore iniziò a muoversi in direzione del sottosuolo. E mi sentii sprofondare ancora di più nella tana del Bianconiglio.

Una volta arrivata a destinazione, le porte si aprirono e davanti a me mi trovai in una grande area lounge. Dispersi nel grande spazio vi erano molteplici tavolini e sofà, identici a quelli che vi erano di sopra, ma al contempo con uno scopo completamente opposto. Il soffitto e i pavimenti erano di legno massiccio e, proprio come sopra, vi erano pareti blu scure, che incupivano l'ambiente, illuminato soltanto da antichi lampadari appesi al soffitto. Non vi erano infatti altre fonti di luce, in quanto, probabilmente, eravamo ad una decina di metri sotto il sottosuolo. O almeno mi sembrava. Dall'enorme stanza si diramavano molteplici corridoi e, per un breve secondo, mi chiesi quali tipi di uffici avrebbe mai avuto bisogno una semplice biblioteca. Probabilmente nemmeno l'archivio Vaticano era così attrezzato.

Mi girai dalla parte opposta e, di fronte a me, trovai una signora sulla quarantina, vestita con un tailleur elegante e uno sguardo di ferro. 'Evviva!', pensai internamente, chiedendomi perché le persone al potere dovessero avere sempre uno sguardo così serio, inquisitorio e di superiorità, non potevano essere semplicemente 'il boss simpatico'? No, Dakota, quelli esistono solo sulle serie tv di MTV. Feci per parlare, ma lei mi batté di qualche istante.

«Dakota Ferguson. Piacere di conoscerla. Io sono Margaret Hammer». Mi allungò la mano, che io strinsi sorridendo.

«Piacere mio. Vedo che sa già il mio nome» le dissi in tono amichevole, ma lei non fece una piega. Nessun muscolo sulla sua faccia sembrava intenzionato ad accennare un benché minimo sorriso, o anche un semplice cambiamento di espressione. Il che era comunque positivo, almeno non l'avevo nemmeno infastidita. Oppure era semplicemente brava a mascherare le sue espressioni.

«Prego, se mi vuole seguire» mi disse lei, incamminandosi verso uno dei corridoi principali, che sembravano leggermente più vecchi rispetto agli altri. 

«Hai con te la lettera corretto?» Mi chiese lei, al che annuì e gliela allungai, la prese in mano e con nonchalance, camminando, la gettò in un cestino di metallo, che subito si incendio, lasciando uscire un piccolo rivolo di fumo. Inceneritori portatili, ne avevo già visti negli uffici pubblici di mio padre, li utilizzavano per bruciare all'istante documenti scomodi, ma mai ne avevo visto uno in una biblioteca, dove qualsiasi cosa è infiammabile.

Ci inoltrammo nel corridoio e seguii Margaret. Proseguimmo per un centinaio di metri circa, circondate dal silenzio spezzato solamente dal ticchettio dei tacchi della signora, il quale riverberava in tutto lo spazio. Lei si fermò poco più avanti e aprì una delle massicce porte di legno, probabilmente mogano, a giudicare dal colore. Nella mia breve vita di figlia di un senatore, ne avevo viste parecchie di porte di legno chiuse, porte così massicce che non potevo nemmeno udire i bisbigli e le conversazioni segrete che vi avvenivano dall'altra parte. 

«Accomodati pure Dakota» mi disse lei dopo essere entrata e avermi fatto gesto di accomodarmi su una delle sedie. 

Dopo essermi seduta, mi fece alcune delle ''solite'' domande per rompere il ghiaccio in un colloquio di lavoro (o almeno, credo siano le tipiche, non che ne abbia mai fatto altri colloqui, sia chiaro). Oltre a chiedermi informazioni personali e dati personali del tipo dove ero nata, che scuola avevo fatto e i miei interessi, arrivò la fatidica domanda che tanto avevo sperato non arrivasse.

«Ferguson.. come l'ex senatore. Sei sua figlia corretto?» mi chiese lei, un po' come affermazione e un po' come domanda, come se volesse essere sicura al 100% che avesse la giusta persona davanti. 

«Sì, sono io in carne ed ossa!» dissi io con un sorriso finto sulle labbra e forse con un po' troppo entusiasmo. Sicuramente un detective o una spia avrebbero colto immediatamente la mia ironia e la mia reticenza nel parlare di questo argomento.

«E come vanno i rapporti tra di voi?»

Ehm, come scusa? No, non lo dissi ad alta voce, ma lo pensai. Ma chi è che fa una domanda del genere? A meno che suddetta persona non sia il tuo psicanalista, si intende. Alzai lo sguardo e vidi che lei mi guardava negli occhi. Con uno sguardo urgente, come se fosse davvero interessata ad avere una risposta alla sua domanda totalmente inappropriata.

Ripensai alla glaciale indifferenza che mio padre mi aveva riservato per tutta la mia esistenza. Al suo sguardo di sdegno misto a cattiveria, che il suo viso sembrava sempre indossare quando i media non lo stavano riprendendo. Non era mai stato un vero e proprio padre, solo qualcuno da cui avevo ereditato un cognome e che mi faceva vivere in casa propria. Così, con in mente la sua immagine, mi uscì automaticamente un: «Non siamo esattamente così legati come sembra».

«Bene» dissee lei. Okay, ora, le opzioni erano due. O non mi stava ascoltando, però mi stava fissando dritto negli occhi, quindi dubito. Oppure era pazza. Andiamo, chi dice ''bene'' quando una persona gli ha appena comunicato che i suoi rapporti con il padre sono schifosi, se non praticamente inesistenti? Nessuno. Non processai a pieno però, perché con la coda dell'occhio vidi che si sistemò sulla sedia, ed aprì la bocca.

«Dunque, arriviamo al sodo. Come avrai potuto dedurre, non siamo una biblioteca» No, non lo avevo dedotto. Certo, una biblioteca strana, ma pur sempre una biblioteca. «Ti abbiamo chiamato perché sì, effettivamente, ti abbiamo trovato di nostro interesse. U.S.A. è acronimo per Unione Segreta degli Alleati. Si, so a cosa stai pensando, il nome è un po' sciocco, ma diciamo che è stato scelto in tempi diversi» No, non era per niente quello a cui stavo pensando. Men che meno il nome mi suonava familiare, per me poteva essere benissimo una setta satanica. E per un secondo la mia mente si ritrovò a pensare su dove diavolo mi fossi cacciata, e se fossi davvero appena entrata di mia spontanea volontà in un club di fanatici.

«Se invece il nome non ti dice nulla» continuò lei. Ecco, infatti. «Allora ti spiegherò brevemente chi siamo» Intrecciò le dita delle mani, appoggiandole delicatamente sul tavolo e, con un sorriso sulle labbra, iniziò a raccontare, senza fermarsi un secondo a prendere un respiro.

«Immagino che tu abbia già sentito parlare, specialmente considerando la figura di tuo padre, di Servizi Segreti, CIA, FBI o NSA... ecco, diciamo che noi siamo qualcosa di simile. In realtà ci piace pensare di essere molto meglio, unici perlopiù. Una tra le prime agenzie ufficiali, fu creata durante la seconda guerra mondiale, con l'Ufficio per i Servizi Strategici, che purtroppo però , a fine guerra venne sciolto, anche per volontà di Roosvelt. Per fortuna arrivò Truman, che diede il via libera e fondò il CIG, o meglio conosciuta ora come CIA. Inoltre nel 1949, venne approvato l'Atto di Segretezza. Ciò rese possibile l'idea di segretezza a cui tutti aspiravamo. Essa, infatti, permise di non dover dichiarare pubblicamente il personale, i salari ed il proprio operato. Fu come una piccola rivolta interna» 

«Da qui, il governo lasciò le redini dell'agenzia, e proprio perché esso non esercitò maggior controllo, si crearono diverse fazioni, diversi modi di pensare. Così, ci suddividemmo, anche se non fisicamente, in diverse ramificazioni. Lo sanno tutti che, il popolo, senza un re, è perso. E noi eravamo proprio così. Devi immaginare che eravamo appena usciti da una guerra che aveva devastato mezzo mondo, e ci stavamo per imbarcare in un'altra guerra, quella fredda. Dove le differenze si facevano più sottili. Noi siamo nati proprio grazie ad essa. Tutti, infatti, erano troppo impegnati a badare ad una guerra che non sarebbe mai scoppiata.

Noi, invece, ci siamo impegnati a proteggere il nostro paese. Ci siamo dedicati ad un paese che per troppo tempo era stato trascurato.Ci siamo occupati del suo sostentamento e della sua sicurezza, infiltrandoci in ogni ambito e classe sociale del paese. Abbiamo persone di ogni nazionalità, provenienza e di ogni classe sociale, che investono parte della loro vita a mantenere la loro patria un posto sicuro. Come disse Truman "dobbiamo sapere tutto quello che sta succedendo intorno a noi, per essere pronti all'azione, quando l'azione è necessaria". E dal 1963 siamo stati ufficializzati come vera e propria agenzia governativa»

La storia mi affascinava, era accattivamene, era come un brivido piacevole che ti percorre la spina dorsale. E sopratutto, era segreta. Fin da piccola, ero sempre stata esposta al pubblico. Ero stata sotto i riflettori e la mia vera vita, la mia vera me, erano sempre vissute in solitudine e segretezza. Mai adatta ai media, troppo "ribelle e anticonformista", così mi avevano citata in passato. Semplicemente perché non mi vestivo con colori pastello, o non ascoltavo Mozart, o non ero interessata in politica e business come ci si aspettava da me.

«Ma, se posso chiedere, perché me... come sapete che sono una persona "valida"?»

«Diciamo che ti abbiamo osservata e abbiamo tratto le nostre conclusioni»

«Ah, quindi eravate voi che mi stavate seguendo. Da quando sono arrivata qui a New York mi sono sentita osservata, come se qualcuno mi stesse seguendo»

«Oh tesoro, ti abbiamo seguito per anni. Non prendiamo decisioni affrettate, ma solo scelte altamente calcolate, da ogni punto di vista» Mi disse sorridendo, come se fosse completamente normale ammettere di aver stalkerato una persona per ripetuti anni della sua vita.

Ci fu un attimo di silenzio. Come a soppesare e dare realtà alle parole che erano appena state scambiate in questa stanza, che ancora fluttuavano nell'aria e riverberavano tra i solidi muri di pietra. «Quindi, Dakota, sei dei nostri?» 

«Ecco.... Sarebbe possibile pensarci?»

«Vedi Dakota, questa è un opportunità unica. Purtroppo non ti sarà offerta di nuovo. Non siamo soliti ritentare con chi ha già deciso di non voler far parte di noi» 

«E se rifiutassi?» Le chiesi, perché indubbiamente non avrebbero mai lasciato nessuno a piede libero di chi sapeva chi erano realmente. 

Lei poggiò i gomiti sulla scrivania, con le mani incrociate davanti alla bocca, come se fosse in dubbio sul dirmi quello che aveva in mente, soppesando ogni parola. Ma alla fine ammise: «Non ci fa mai piacere quando qualcuno che pensavamo adatto a noi, ci rifiuta. La prendiamo un po' come sconfitta personale, perché vuole dire che ci siamo persi qualche dettaglio della persona, fondamentale a capire se fosse adatta o meno a questo tipo di esperienza. Diciamo che probabilmente ti sveglieresti nel tuo appartamento, non ricordandoti nulla, come se fosse un nuovo giorno»

La sua risposta onesta un po' mi sconvolse. Come poteva ammettere una persona, così tranquillamente, che aveva il potere di manipolare le menti delle persone? Forse era questo a cui aveva pensato prima di parlare? La cosa in realtà un po' mi inorridiva, ma il mio lato più avventuriero era curioso di scoprire come esso fosse possibile.

E così, mi ritrovai ad annuire. 

Dopotutto, se avessi rifiutato avrebbe voluto dire aver buttato via un'opportunità irripetibile. Mentre invece, una volta accettato, avrei sempre potuto poi uscirne. 

«Okay, accetto la vostra proposta»

«Perfetto, Benvenuta!» mi sorrise lei, allungandomi la mano per stringerla.

----------

----------

----------

Come avevo promesso... ecco una nuova parte dopo tanta attesa. Purtroppo il periodo non è stato dei migliori ed il tempo di scrivere qualcosa di sensato non c'è stato. Ma ora eccomi qui :) Sentire cosa ne pensate mi fa sempre piacere, ed inoltre: mettete tra i preferiti! 

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top