4. Sacrificio, parte 1 (P)


Era quasi buio quando individuammo il nostro bersaglio.

La Principessa Andromeda scintillava all'orizzonte, un'enorme nave da crociera illuminata di giallo e bianco. Da lontano si sarebbe potuta scambiare tranquillamente per una qualsiasi nave da turismo piuttosto che il quartier generale del Signore dei Titani; poi, non appena ti avvicinavi, notavi la grande polena -una fanciulla dai capelli scuri vestita con un chitone greco e in catene- con il viso distorto dall'orrore, come se percepisse il tanfo di tutti i mostri che era costretta a trasportare.

Mi si attorcigliarono le budella. Ero quasi morto due volte sulla Principessa Andromeda. Adesso puntava dritta su New York. «Sai cosa fare?» urlò Beckendorf per farsi sentire nel vento.

Confermai con un cenno. Avevamo fatto delle esercitazioni nelle darsene del New Jersey, usando navi abbandonate come bersaglio. Sapevo che avevamo poco tempo a disposizione. Ma sapevo anche che era la nostra migliore occasione per fermare l'invasione di Crono prima ancora che cominciasse. «Blackjack» dissi «depositaci sul ponte inferiore di poppa»

"Agli ordini, capo" rispose lui "cavolo, quanto odio quella nave..."

Avrebbe sicuramente preferito farsi intrecciare la criniera come un Mio Mini Pony piuttosto che tornare su quella nave, lo sapevo bene. «Non ci aspettare» gli ordinai.

"Ma, capo..."

«Fidati di me. Ne usciremo da soli»

Blackjack piegò le ali e si calò in picchiata come una cometa nera. Il vento mi fischiava nelle orecchie. Vidi dei mostri che pattugliavano i ponti superiori –dracene, segugi infernali, giganti e telchini– ma sfrecciavamo così in fretta che nessuno di loro dette l'allarme.

Piombammo sulla poppa della nave e Blackjack distese le ali, atterrando leggero sul ponte inferiore. Quando scesi mi girava un po' la testa. "Buona fortuna, capo" disse Blackjack "vedi di non farti ridurre in polpette di cavallo!"

Il mio vecchio amico volò via nella notte. Io mi sfilai la penna di tasca, tolsi il cappuccio e Vortice si distese in tutta la sua lunghezza. Beckendorf invece tirò fuori un foglietto di carta. Pensavo fosse una mappa, invece poi mi accorsi che era una fotografia. La fissò nella luce fioca: era il volto sorridente di Silena. Pensai ad Alex e il petto mi fece così male che dovetti massaggiarmelo. Le mie dita scattarono al ciondolo a forma di saetta che portavo al collo: un suo regalo per il mio quindicesimo compleanno. Era piacevolmente tiepido al contatto, segno che era viva e stava bene. Aveva partecipato ad un mucchio di missioni nell'ultimo anno, e grazie agli dei il ciondolo non era mai diventato gelido (quello voleva dire che le era capitato qualcosa di molto brutto). Il calore era solo mutato di intensità, ma non era mai sparito. «Riusciremo a tornare al Campo» promisi «le rivedremo, Beckendorf»

Per un secondo vidi la preoccupazione nei suoi occhi. Poi il suo solito sorriso spavaldo ricomparve. «Ci puoi scommettere» disse «tornerò sempre da Silena, Percy. Senza contare, poi, che se non dovessi riportarti indietro tutto intero Alex mi strangolerebbe»

«Non prima di aver strangolato me» borbottai cupo.

«Puoi dirlo forte, idiota» disse lui dandomi un colpetto sulla schiena «dai, andiamo a far esplodere Crono in un milione di pezzi»

Beckendorf faceva strada. Seguimmo uno stretto corridoio fino alle scale di servizio, come nelle esercitazioni, ma ci bloccammo subito quando udimmo dei rumori sopra le nostre teste. «Non mi importa di quel che dice il tuo naso!» ringhiò una voce metà umana e metà canina: un telchino. «L'ultima volta che hai sentito odore di mezzosangue si trattava di un sandwich al prosciutto!»

«I sandwich al prosciutto sono buoni» ringhiò una seconda voce «ma questo è odore di mezzosangue, lo giuro. Sono a bordo!»

«Bah! Peccato che il tuo cervello non lo sia!»

Continuarono a litigare e Beckendorf mi indicò il piano di sotto. Scendemmo facendo meno rumore possibile. Due piani più in basso, le voci dei telchini cominciarono ad affievolirsi. Alla fine arrivammo di fronte a un boccaporto di metallo.

Beckendorf mimò con le labbra: "Sala macchine". Era chiusa a chiave, ma lui tirò fuori delle tenaglie dalla borsa e spezzò la serratura come se fosse di burro. Dentro, ronzava e ribolliva una fila di turbine gialle grandi quanto silos di frumento. Manometri e terminali di computer rivestivano la parete opposta. Un telchino era piegato su una console, ma era così preso dal suo lavoro che non si accorse di noi. Era alto un metro e mezzo circa, con la pelliccia lucida e nera di una foca e le zampe corte e tozze. Aveva la testa di un dobermann, ma le mani artigliate erano quasi umane. Ringhiava e borbottava battendo sulla tastiera. Forse stava chattando con gli amici su Facebrut.

Feci un passo avanti e lui si irrigidì, probabilmente fiutando qualcosa di storto. Cercò di gettarsi su un grosso pulsante d'allarme rosso, perciò gli bloccai la strada. Il mostro sibilò e mi si scagliò contro, ma un solo fendente di Vortice bastò a polverizzarlo. «Fuori uno» esclamò Beckendorf «sotto con gli altri cinquemila!»

Mi passò al volo un barattolo di liquido denso e verde: fuoco greco, una delle sostanze magiche più pericolose al mondo. Poi mi lanciò un altro strumento fondamentale di tutti gli eroi semidivini: nastro isolante. «Fissalo alla console» mi ordinò «io penso alle turbine»

Ci mettemmo al lavoro. La stanza era umida e bollente, nel giro di pochi secondi eravamo zuppi di sudore. La nave continuava a procedere senza fretta. Con questa storia che sono il figlio di Poseidone, in mare ho un senso dell'orientamento perfetto. Non chiedetemi come, ma ero in grado di dire che eravamo a 40,19 gradi di latitudine nord e 71,90 gradi di longitudine ovest, e che andavamo a una velocità di diciotto nodi, il che significava che la nave sarebbe arrivata nel porto di New York entro l'alba. Quella era la nostra unica possibilità di fermarla.

Avevo appena fissato il secondo barattolo di fuoco greco sui pannelli di controllo quando udii un forte calpestio su gradini di metallo. Le creature che stavano scendendo le scale erano talmente tante che riuscivo a sentirle nonostante il frastuono dei motori. Non era un buon segno. Guardai Beckendorf negli occhi. «Quanto tempo ci serve?»

«Troppo». Si diede un colpetto sull'orologio, che era il nostro detonatore a distanza. «Devo ancora collegare il ricevitore e innescare le cariche. Altri dieci minuti minimo»

A giudicare dal rumore dei passi, avevamo all'incirca dieci secondi. «Li distraggo io» conclusi «ci vediamo nel punto di ritrovo stabilito»

«Percy...»

«Augurami buona fortuna»

Mi guardò come se volesse controbattere. Il piano originario era di entrare e uscire senza essere visti. Ma adesso eravamo costretti a improvvisare. «Buona fortuna» disse infine «vedi di non farti ammazzare»

Mi precipitai fuori. Una mezza dozzina di telchini scendeva le scale con passo pesante. Li falciai con Vortice senza neanche dar loro il tempo di uggiolare. Continuai a salire e superai un altro telchino, che dallo spavento lasciò cadere il suo cestino del pranzo. Lo risparmiai, in parte perché mi piaceva il suo cestino, in parte perché potesse dare l'allarme e magari spingere i suoi amici a inseguire me anziché precipitarsi in sala macchine. Spalancai la porta del ponte numero sei e continuai a correre.

Sono sicuro che un tempo l'atrio fosse molto chic, ma nel corso degli ultimi tre anni di occupazione mostruosa la carta da parati la moquette e le porte della sala erano state artigliate e imbrattate di bava, così sembrava quasi di stare dentro la gola di un drago. La prima volta che ero salito sulla Principessa Andromeda, Luke teneva ancora a bordo dei turisti istupiditi per salvare le apparenze; la Foschia impediva loro di capire che si trovavano su una nave infestata di mostri. Ora non ne vedevo da nessuna parte. Non volevo neanche pensare a che fine avessero fatto, ma dubitavo che li avessero lasciati andare a casa con le vincite del bingo.

Arrivai sulla passeggiata, un grande centro commerciale che occupava l'intero cuore della nave, e mi fermai di botto. In mezzo alla corte c'era una fontana. E, acquattato nella fontana, c'era un granchio gigante. E non dico "gigante" nel senso di grosso granchio commestibile di quelli da buffet. Dico "gigante" nel senso di "più grande della fontana". Il mostro si ergeva tre metri sopra il livello dell'acqua. Il guscio era screziato di blu e verde, le chele erano più lunghe di me. Mi puntò addosso i suoi occhietti maligni e luccicanti e vidi che nella sua espressione c'era intelligenza... e odio. Essere il figlio di Poseidone non mi avrebbe fatto guadagnare molti punti con Mister Chela. Sibilò, mentre rivoli di schiuma marina gli colavano dalla bocca. Il tanfo che esalava da quelle fauci era come quello di un bidone di bastoncini di pesce rimasto al sole per una settimana.

Scattarono gli allarmi. Presto avrei avuto parecchia compagnia e dovevo darmi una mossa. «Ehi, bestiolina!». Cominciai a spostarmi lentamente lungo il perimetro della corte. «Ora me ne vado subito, guarda, ti giro attorno così...»

Il granchio si mosse a una velocità stupefacente. Zampettò fuori dalla fontana e puntò dritto su di me, facendo scattare le chele. Io mi tuffai in un negozio di souvenir, avanzando a fatica in mezzo alle magliette appese. Una chela frantumò la vetrina in mille pezzi e si mise a rovistare intorno. Io corsi di nuovo fuori, ma Mister Chela si voltò e mi seguì. «Laggiù!» gridò una voce da un balcone «Un intruso!»

Se l'obiettivo era creare un diversivo c'ero senz'altro riuscito, solo che non era lì che volevo combattere. Se mi incastravano al centro della nave ero mangime per granchi.

Il crostaceo demoniaco mi si scagliò contro. Menai un fendente e Vortice si portò via la punta di una chela. Il mostro sibilò e schiumò, ma non sembrava ferito gravemente. Mi sforzai di ricordare qualsiasi dettaglio dei miti antichi che potesse aiutarmi con quella creatura. Annabeth una volta mi aveva parlato di un granchio mostruoso... Ercole l'aveva schiacciato col piede? No, non faceva al caso mio. Quel granchio era leggermente più grande delle mie Reebok.

Poi mi venne un pensiero assurdo. Il Natale prima io e la mamma avevamo invitato Paul nel nostro vecchio bungalow a Montauk, dove andavamo da una vita. Paul mi aveva portato a pesca di granchi, e quando ne aveva tirata fuori una rete piena, mi aveva mostrato che avevano tutti un interstizio nel carapace, al centro della loro brutta pancia.

L'unico problema era arrivarci, a quella brutta pancia.

Lanciai un'occhiata alla fontana, poi al pavimento di marmo, già scivoloso per le tracce lasciate dal granchio. Tesi una mano, mi concentrai e la fontana esplose. L'acqua schizzò ovunque, innalzandosi per tre piani di altezza, e inondò i balconi e gli ascensori e le vetrine dei negozi.

Il granchio non si scompose. L'acqua gli piaceva. Venne verso di me di sghembo, sibilando e facendo scattare le chele, e io gli corsi incontro, urlando: «AAAAAAH!»

Un attimo prima dello scontro mi lasciai cadere a terra e scivolai sotto il mostro sfruttando il pavimento di marmo bagnato, come in una partita di baseball. Fu come infilarsi sotto un carro armato di sette tonnellate. Il granchio non doveva fare altro che sedersi e schiacciarmi ma, prima che si rendesse conto di quello che stava succedendo, infilzai Vortice nell'interstizio del carapace, mollai l'elsa e con una spinta sbucai dall'altra parte.

Il mostro fu scosso da un brivido e sibilò. I suoi occhi si dissolsero. Il guscio divenne incandescente mentre le viscere evaporavano. Il carapace vuoto crollò rumorosamente a terra in un gigantesco mucchio informe.

Non avevo tempo per ammirare il mio operato. Corsi verso le scale più vicine, mentre tutt'intorno mostri e semidei gridavano ordini e si armavano. Io ero a mani vuote. Vortice mi sarebbe riapparsa in tasca prima o poi, ma per il momento era conficcata da qualche parte sotto le spoglie del granchio, e io non avevo il tempo di recuperarla.

Sul ponte numero otto, nell'atrio dell'ascensore, mi imbattei in un paio di dracene. Erano armate di lance e reti da gladiatore, e sapevo per esperienza che erano capaci di usarle bene. «Cosss'è quesssto?» disse una «Uno sssplendido regalino per Crono!»

Non avevo nessuna voglia di giocare con i serpenti, ma per fortuna di fronte a me c'era un piedistallo con un modellino della nave, di quelli con su scritto VOI SIETE QUI. Lo staccai dalla base e lo scaraventai addosso alla prima dracena. La colpii in piena faccia, e quella affondò insieme alla nave. Scavalcandola con un salto, afferrai la lancia dell'altra creatura e la allontanai con una spinta. Mentre la dracena sbatteva contro l'ascensore, io continuai a correre verso la prua. «Prendetelo!» strillò.

Dei segugi infernali latrarono. Una freccia lanciata da non so dove mi passò a pochi centimetri dalla faccia e si conficcò nella parete di mogano delle scale. Non mi importava, finché riuscivo a tenere i mostri alla larga dalla sala macchine e a garantire più tempo a Beckendorf.

Mentre correvo su per le scale, un ragazzino si precipitò giù. Sembrava si fosse appena svegliato. Indossava solo la metà dell'armatura. Sfoderò la spada e gridò: «Per Crono!», ma sembrava più spaventato che arrabbiato. Non avrà avuto più di dodici anni, all'incirca la stessa età che avevo io quando ero arrivato per la prima volta al Campo Mezzosangue.

Quel pensiero mi rattristò. Gli stavano facendo il lavaggio del cervello, aizzandolo contro gli dei perché era un mezzosangue. Crono lo stava usando, eppure lui pensava che il nemico fossi io. Non avevo nessuna intenzione di fargli del male. Non mi servivano armi per batterlo. Mi feci avanti schivando il suo affondo, gli afferrai il polso e lo sbattei contro il muro. La spada cadde a terra. Poi feci un piccolo fuori programma. Probabilmente era una cosa stupida, e di certo avrebbe messo a repentaglio la missione, però non riuscii a trattenermi. «Se vuoi vivere» gli dissi «vattene da questa nave, subito. Dillo anche agli altri semidei». Poi lo spinsi giù dalle scale.

Continuai a salire. Brutti ricordi: un corridoio che passava accanto al bar. Io, Annabeth, Alex e Tyson eravamo stati proprio lì tre anni prima.

Mi precipitai fuori, sul ponte principale. Oltre il mascone di sinistra il cielo si stava scurendo, passando dal viola al nero. Una piscina riluceva fra due torri di vetro con balconi e terrazze ristorante. Tutta la parte superiore della nave sembrava misteriosamente deserta. Non dovevo fare altro che arrivare a poppa; poi avrei potuto imboccare le scale che scendevano all'eliporto, il nostro punto di ritrovo d'emergenza. Con un po' di fortuna Beckendorf mi avrebbe raggiunto lì. Ci saremmo tuffati in mare. I miei poteri in acqua ci avrebbero protetto entrambi, e avremmo fatto detonare le cariche a debita distanza.

Ero a metà strada quando il suono di una voce mi pietrificò. «Sei in ritardo, Percy».

Un po' di suspence, anche se molti di voi sanno già cosa sta per succedere...
Credetemi, ho odiato scrivere questi capitoli. Ma davvero tanto.

Cosa ne pensate della reazione di Beck? Ci è andato già troppo leggero? Fatemi sapere!

Ci vediamo martedì 18 con il prossimo aggiornamento: la seconda parte del piano di Beck e Percy... e Alex decide che è ora di sentire la Grande Profezia :3 (PREPARATE I FAZZOLETTI ♥)

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