Giorno 3
Sofia
La vita in Germania è diversa. Tutto è più ordinato, più preciso, più puntuale. E' come se nessuno avesse tempo per perdere tempo. Dal lavoro non si esce con un solo minuto di ritardo, né tantomeno ci si può immaginare di arrivare in ritardo. Tutti sono metodici, scrupolosi, attenti - come Immanuel Kant nel fiore dei suoi anni, insomma.
Forse è proprio per questo motivo che, dopo due anni di permanenza fissa a Stoccarda, la sola idea del caos, del dinamismo italiano mi spaventa. Intorno a me, ogni cosa ha il suo ritmo: c'è chi corre disperatamente col piede sull'acceleratore, chi spinge con calma una carrozzina e chi, ancora, si dilunga in camminate fin troppo rilassanti - soltanto per accumulare ritardo.
E poi c'è lui, esattamente di fronte a me. Sorseggia il suo caffè macchiato lentamente, indugia per qualche secondo sulla tazzina, mentre i suoi occhi vagano al di fuori del bar. Non deve aver dormito molto, questa notte - in realtà, qualcosa mi dice che non è più abituato a profonde dormite.
Mi perdo, ancora una volta. Mi perdo, ancora dopo anni, dopo una vita, a guardarlo come se, in realtà, non fosse passato nemmeno un giorno.
Giorgio è cresciuto, il suo aspetto fisico è inevitabilmente mutato - anche se in maniera quasi impercettibile. Solo un occhio attento - come, d'altronde, è il mio - potrebbe accorgersi di quel filo di barba bionda in più che gli cosparge il viso, delle mani più mature, dei capelli che, ormai, sembrano aver quasi totalmente abbandonato il biondo, per lasciare spazio ad un castano chiaro in perfetto contrasto con i suoi occhi - che, invece, sono sempre azzurri come il più pulito dei mari.
"E' strano" dice Giorgio, mentre appoggia la tazzina ormai vuota al tavolino e, dopo aver intrecciato le sue mani sotto al mento, punta le sue iridi cristalline su di me. Non gli chiedo nulla, il mio sguardo basta a far sì che vada avanti a parlare.
"Sei l'ultima persona con cui avrei pensato di prendere un caffè, un giorno" ridacchia, e sembra perdersi tra i suoi pensieri. Parla con naturalezza, come se un tempo fossimo stati amici. Ma, ne siamo consapevoli entrambi, in questa vita io e lui non potremo mai essere amici.
"Qualche anno fa, probabilmente, se ti avessi chiesto di prendere un caffè insieme, mi avresti additata come - sospiro scenicamente - molestatrice seriale? Esiste il termine?" gli occhi di Giorgio si spalancano di sorpresa, e così restano per qualche istante. Gli istanti che precedono l'apocalisse. Come un fulmine a ciel sereno, il mio interlocutore scoppia a ridere ed i suoi occhi si riducono a minuscole fessure, mentre la bocca si spalanca in maniera poco elegante.
"Oddio, lo sapevo! Tu mi odi ancora! No, non guardarmi così. Hai lo stesso sguardo da serial killer che avevi ogni volta che ti parlavo" io rimango atterrita dalle sue parole, mentre Giorgio continua a ridersela di gusto come davanti ad un esilarante spettacolo comico.
Le sue parole, tuttavia, mi fanno capire quanto lui abbia sempre erroneamente interpretato i miei sguardi. Probabilmente, non sono mancate le volte in cui l'ho scrutato con uno sguardo truce - in momenti di rabbia -, però la maggior parte delle volte il mio era uno sguardo timoroso, disorientato e, ahimè, innamorato. Per quanto si può essere innamorati al liceo, ovviamente.
La me di cinque anni fa avrebbe fatto i salti di gioia soltanto al pensiero di ricevere un invito da parte di Giorgio - il suo Giorgio - per un semplice caffè. Avrebbe chiamato tutta la rubrica, avrebbe chiesto consigli su un forum online al femminile, sarebbe stata ore a crogiolarsi davanti all'armadio, per apparire il più carina possibile.
Però, le cose cambiano. Mi chiedo se aver incontrato, dopo anni, la persona che mi ha, contemporaneamente, migliorato e rovinato la vita durante l'adolescenza sia stato volere del caso o, più idealisticamente, del destino.
"Penso che tu fossi un po' stupido al liceo, allora. Mi auguro che tu non lo sia ancora..." gli rispondo, stavolta lasciando che l'accenno di un sorriso compaia sulle mie labbra. Giorgio scuote la testa, ma il sorriso non l'abbandona per un istante. In realtà, non ho mai creduto che fosse stupido, anzi, tutto il contrario. Lo consideravo fin troppo intelligente rispetto alla media degli altri adolescenti maschi. Allora, mi piaceva il fatto che sapesse parlare con naturalezza di qualsiasi cosa, senza cadere in ridicoli cliché. Credo di aver persino sostenuto una conversazione sulla filosofia - il mio unico e vero grande amore -, una volta, con lui.
"Col tempo si peggiora soltanto" comincia a picchiettare violentemente, con le dita, sulla superficie del tavolino. Avrei tante domande da fargli, di quelle che ti prepari per una vita, nell'attesa di rincontrare le persone che, un tempo, per te erano importanti. E vorrei parlargli anche dei miei successi, del perché ora sono di nuovo in Italia, del fatto che la Sofia impacciata del liceo, ormai, non esiste più.
"Allora, alla fine ti sei messa a filosofare sul serio o hai cambiato campo magari, che ne so, dandoti alla cucina?" spalanco gli occhi, piacevolmente sorpresa. Non ha dimenticato la mia passione, la mia ambizione primaria. Giorgio si sistema il colletto della camicia azzurra - della stessa tonalità dei suoi occhi - mentre attende una mia risposta. Una risposta che, non vedevo l'ora di dargli. Forse perché, ancora, ci tengo a dimostrargli come la mia vita, alla fine, si sia realizzata - sebbene io non abbia mai avuto lui.
"Ho studiato filosofia e storia a Venezia, dove mi sono laureata ormai quasi due anni fa. Ora vivo in Germania, a Stoccarda. Ho deciso di proseguire lì gli studi, con un dottorato in filosofia del diritto. La Germania mi ha sempre affascinata, come d'altronde la filosofia tedesca" Giorgio mi ascolta, sorride impercettibilmente, ma sembra assorto nei suoi pensieri, come se ora si trovasse da un'altra parte, all'interno della sua testa. E' sempre stato un mistero per me, cinque anni avrei voluto infiltrarmi all'interno della sua testa e comprendere i suoi pensieri. Lo vorrei ancora.
"E perché sei qua ora?" ed eccola la domanda fatidica. Quella che, più di tutte, attendevo. Eppure, ora non vorrei rispondere. Sento le lancette dell'orologio cominciare a ticchettare un po' più forte, il suo sguardo farsi più intenso, il mio cuore cominciare a battere più veloce. Devo tornare a contatto con la realtà.
"Un progetto sul territorio veneto, un lavoro che sto intraprendendo con una cara amica - abbasso lo sguardo, mi prendo qualche istante di pausa - resterò qua per ventisette giorni. Ventiquattro, ormai" annuisco, senza capirne il motivo. Gli occhi di Giorgio mi perforano come delle lame affilate.
Nel corso degli anni, mi sono chiesta tante volte come sarebbe stato rivederlo, come sarebbe stato rincrociare, anche per quale minuto, la vita di quello che è stato il unico amore adolescenziale. Tante, troppe volte mi sono ritrovata a fantasticare su di noi, su me e Giorgio, che c'incontravamo in una calda giornata d'agosto, mentre io passeggiavo con il mio fidanzato - di cui ero pazzamente innamorata - ed un bulldog francese al guinzaglio. In quei momenti, immaginavo di raccontargli la mia vita con uno sguardo fiero, sperando, in fondo, di scaturire in lui un po' di invidia e - perché no - un po' di rimorso. Tante volte ho sognato lo sguardo pentito, rammaricato di Giorgio, per avermi lasciata uscire dalla sua vita.
Eppure, oggi, l'unica che prova rammarico sono io. Non c'è alcun fantomatico fidanzato da sfoggiare, né tantomeno un bulldog francese. Ci sono soltanto io, e lui seduto di fronte a me. E, per qualche istante, credo che non sia cambiato nulla. Credo di esser tornata indietro nel tempo, a quando solo incrociarlo per il corridoio poteva cambiare l'esito della mia giornata. Solo che oggi, al contrario di allora, sento il ticchettio dell'orologio, percepisco il tempo scorrere.
"Dal mio lavoro ho imparato che ventiquattro giorni sono un tempo sufficiente per vivere, ma anche per morire - sorride appena, si tormenta la manica della camicia - non hai idea di quante cose possano succedere in ventiquattro giorni" la luce di un diamante è opaca, se messa a confronto con quella dei suoi occhi. Mi chiedo cosa nascondano quegli occhi. Non vedo più il sarcasmo, la presunzione di un tempo.
Il mio cellulare prende a squillare insistentemente, mentre il nome di Andy compare sullo schermo. Riesco a raffigurarmi la mia amica in preda ad un attacco d'ansia, rinchiusa all'interno della nostra camera d'albergo, mentre si rende conto che io sono scomparsa, senza lasciarle nemmeno un biglietto, né un messaggio.
"Mi auguro di non dover ricapitare in pronto soccorso, in ventiquattro giorni - ridacchio, mentre rifiuto la telefonata - ma ora credo di dover andare. Mi ha fatto piacere rivederti ancora, in fondo" mi alzo in piedi, mentre recupero la mia borsa abbandonata a terra da troppo tempo. Giorgio mi segue, si alza impacciatamente ed infila le mani dentro le tasche dei jeans. Non gli ho chiesto se faccia ancora sport, ma dal suo fisico sembrerebbe di sì: è ancora asciutto e atletico come un tempo - se non si considerano le spalle decisamente più larghe.
"Ventiquattro giorni sono lunghi, te l'ho già detto. Promettimi che ci rivedremo ancora" e mentre mi sto dirigendo verso l'uscita, ciò che esce dalla sua bocca mi lascia senza fiato, mi spiazza totalmente. Mi volto appena, timorosa di ciò che potrei vedere. Sembra quasi che mi stia supplicando.
Inevitabilmente, i ricordi si fanno vivi, come proiettati sul muro alle spalle di Giorgio. Cinque anni fa, fui io ad implorarlo di vederci ancora. Lui mi rispose che le promesse sono per i deboli, mentre i forti si affidano al destino. Non gli credetti.
"Giorgio, le promesse sono per i deboli. I forti si affidano al destino. Chissà, magari questa volta mi sarà favorevole" gli sorrido, prima di abbandonare definitivamente il locale, con il suo sguardo ancora puntato addosso.
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