8. Coinquilino (P)
[14.06.2020 ~ capitolo revisionato ✔]
Alex non si era ancora ripresa, quindi per il momento la lasciai lì. Se al termine della cena non si fosse ancora svegliata, l'avrei riportata nella sua Casa.
Il sole tramontava dietro il padiglione della mensa mentre i ragazzi del campo si avvicinavano, lasciando le rispettive case. Restammo al riparo di una colonna di marmo e li guardammo entrare in fila. Annabeth era ancora piuttosto scossa, ma promise che avremmo parlato più tardi. Poi raggiunse i suoi fratelli della casa di Atena –una dozzina di ragazzi e ragazze con i capelli biondi e gli occhi grigi come i suoi. Non era la più grande, ma aveva passato al Campo più estati di tutti. Si capiva dalla sua collana: c'era una perla per ogni estate, e lei ne aveva sei, come Alex. Nessuno metteva in dubbio il suo diritto di condurre la fila.
Poi veniva Clarisse, a capo della casa di Ares. Aveva un braccio appeso al collo e un brutto livido sulla guancia, ma a parte questo lo scontro con i tori di bronzo non sembrava averla turbata minimamente. Qualcuno le aveva attaccato un foglietto sulla schiena con su scritto "MUUU!", ma nessuno della sua casa si era preso la briga di avvisarla.
Dopo i figli di Ares arrivò la casa di Efesto –sei ragazzi guidati da Charles Beckendorf, un enorme quindicenne afroamericano con cui Alex si era allenata spesso l'anno prima. Aveva le mani grandi come guantoni da baseball, la faccia indurita e gli occhi piccoli a furia di stare nella fucina tutto il giorno. Non era male quando lo conoscevi, ma nessuno lo chiamava mai Charlie, Chuck o Charles. In genere lo chiamavano Beckendorf -o "Beck", come era solita chiamarlo Alex. Dicevano che fosse capace di fabbricare qualunque cosa. Tu gli davi un pezzo di metallo e lui ne tirava fuori una spada affilatissima, un guerriero robot o una vaschetta per gli uccelli per il giardino di tua nonna. Tutto quello che volevi.
Seguirono le altre case: Demetra, Apollo, Afrodite, Dioniso. Le naiadi ci raggiunsero dal lago delle canoe. Le ninfe si staccarono dagli alberi. Dal prato arrivò una dozzina di satiri e io ebbi una fitta al cuore ripensando a Grover.
Dopo l'ingresso dei satiri, la casa di Ermes chiuse le fila. Era sempre la casa più grande. L'estate prima era capeggiata da Luke, ma ora era guidata da Travis e Connor Stoll. Non erano gemelli, ma si somigliavano così tanto che non importava a nessuno: tutti li chiamavano "i gemelli", e a loro sembrava non importare minimamente. Non riuscivo mai a distinguerli: erano tutti e due alti e magri, con una zazzera di capelli castani sempre davanti agli occhi. Portavano la maglietta arancione con la scritta "CAMPO MEZZOSANGUE" fuori dai pantaloni corti e larghi, e avevano i lineamenti elfici di tutti i figli di Ermes: sopracciglia inarcate, sorriso sarcastico e uno scintillio negli occhi ogni volta che ti guardavano, come se stessero per infilarti un petardo dentro la maglietta.
Quando anche l'ultimo ragazzo fu entrato accompagnai Tyson al centro del padiglione. Le conversazioni si interruppero. Le teste si voltarono. «E questo qui chi lo ha invitato?» mormorò qualcuno della casa di Apollo. Mi voltai per fulminarlo con lo sguardo, ma non riuscii a capire chi avesse parlato. Dal tavolo principale una voce nota biascicò: «Bene, bene, guarda un po' chi si rivede: Peter Johnson. Ora sì che sono al colmo della felicità»
Strinsi i denti. «Percy Jackson... signore»
Il signor D sorseggiò la sua Diet Coke. «Sì. Be', come dicono i giovani di questi tempi: vabbè»
Il direttore del Campo portava la sua solita camicia hawaiana leopardata, un paio di bermuda e delle scarpe da tennis con i calzini neri. Con quel pancione e la faccia paonazza, sembrava un turista di Las Vegas che aveva fatto tardi al casinò. Alle sue spalle un satiro dall'aria piuttosto nervosa pelava degli acini d'uva, passandoglieli poi uno alla volta. Accanto a lui, dove solitamente sedeva Chirone (o stava in piedi nella sua forma di centauro), c'era qualcuno che non avevo mai visto prima: un uomo pallido e magrissimo, vestito con una logora tuta arancione da detenuto. Sul taschino c'era il numero 0001. Aveva delle ombre blu sotto gli occhi, le unghie sporche e i capelli grigi tagliati male, come se qualcuno si fosse divertito ad accorciarglieli col tagliaerba. Mi fissò; il suo sguardo mi innervosì immediatamente. Sembrava... boh, squilibrato. Furioso, frustrato e affamato tutto in una volta sola. «Questo ragazzo» gli spiegò Dioniso «devi tenerlo d'occhio. È il figlio di Poseidone»
«Ah!» fece il detenuto «Quello». Dal tono era evidente che i due avessero già discusso a lungo di me. «Ma non erano due, i figli dei Tre Pezzi Grossi? Dov'è l'altra?»
«Già. Non vedo quella piantagrane da nessuna parte» fece il signor D, scrutando i dintorni «dì un po', Johnson, che ne hai fatto di Grace?»
«E' nella stanza di Chirone» risposi «è svenuta dopo aver visto il pino»
Il signor D storse la bocca. Poi si rivolse al satiro che gli passava l'uva e gli bisbigliò qualcosa. Quello, terrorizzato, trottò veloce verso la Casa Grande. «Ad ogni modo, io sono Tantalo» si presentò il detenuto con un sorriso gelido «in missione speciale qui finché il mio signore Dioniso non deciderà diversamente. Quanto a te, Perseus Jackson... vedi di non causare altri guai»
«Guai?» chiesi, inarcando le sopracciglia.
Dioniso schioccò le dita. Un giornale comparve sul tavolo: la prima pagina del "New York Post" di quel giorno. C'era la mia foto dell'annuario della Meriwether accanto a quella di Alex. Faticai a decifrare il titolo, ma intuii piuttosto bene quello che diceva -qualcosa tipo: "Tredicenni impazziti danno fuoco alla palestra". «Sì, guai» confermò Tantalo «ne hai causati parecchi l'estate scorsa, mi sembra di capire»
Ero troppo arrabbiato per parlare. Adesso era colpa mia se gli dei si erano quasi fatti trascinare in una guerra civile? Per la dea. Desiderai che Alex fosse sveglia e fosse lì: ci avrebbe messo mezzo secondo a mandare a gambe all'aria quell'idiota.
Un satiro si avvicinò tutto tremante e posò un vassoio di carne grigliata davanti a Tantalo. Il nuovo direttore delle attività si leccò le labbra. Guardò il suo calice vuoto e disse: «Chinotto, riserva speciale del '67». Il bicchiere si riempì di liquido frizzante. Tantalo tese la mano con esitazione, come se avesse paura che il bicchiere scottasse.
«Coraggio, vecchio mio» lo incitò Dioniso, con uno strano scintillio negli occhi. «Forse adesso funzionerà»
Tantalo fece per afferrarlo, ma il bicchiere se la svignò prima che lui lo sfiorasse. Alcune gocce di chinotto si rovesciarono e lui cercò di intingervi le dita, ma quelle rotolarono via come mercurio prima che lui riuscisse a toccarle. Ringhiò e si voltò verso il vassoio della grigliata. Afferrò una forchetta e cercò di infilzare una braciola, ma il vassoio scivolò lungo il tavolo e volò oltre il bordo, finendo dritto nei carboni del braciere. «Maledizione!» mugugnò.
«Ah, be'» esclamò Dioniso, la voce carica di finta compassione «forse fra qualche altro giorno. Credimi, vecchio mio, lavorare in questo Campo sarà un supplizio sufficiente. Sono sicuro che la tua vecchia maledizione alla fine scomparirà»
«Alla fine» mugugnò Tantalo, fissando la Diet Coke di Dioniso «hai idea di quanto ti si secchi la gola dopo tremila anni?»
«Lei è quello spirito dei Campi della Pena!» esclamai «Quello condannato a stare in un lago con un albero da frutto sopra la testa, senza poter né bere né mangiare»
Tantalo mi rispose con disprezzo. «Sei un ragazzo studioso, eh?»
«Deve aver commesso un crimine orrendo, in vita» commentai, un po' impressionato «cos'ha fatto?»
Tantalo socchiuse gli occhi. Alle sue spalle, i satiri scuotevano vigorosamente la testa, cercando di avvertirmi. «Ti terrò d'occhio, Percy Jackson» minacciò Tantalo «non voglio problemi nel mio Campo»
«Il suo campo ha già dei problemi... signore»
«Oh, siediti, Johnson» sospirò Dioniso «credo che il tuo sia quel tavolo laggiù... quello dove non si vuole mai sedere nessuno»
Avevo la faccia in fiamme, ma mi guardai bene dal rispondergli a tono. Dioniso era un marmocchio troppo cresciuto, ma era un marmocchio troppo cresciuto immortale e potentissimo. «Andiamo, Tyson» dissi.
«Oh, no» obiettò Tantalo «il mostro resta qui. Dobbiamo decidere cosa farne»
«L'unico mostro che vedo sei tu» intervenne seccata la voce di Alex alla mia sinistra. Mi voltai: come al solito non l'avevo sentita avvicinarsi. Era un po' spettinata e aveva gli occhi gonfi, unico indizio che doveva aver pianto. Tuttavia sembrava furiosa più che triste.
Tantalo la guardò, scoprendo i denti giallastri. «Immagino che questa sia la mocciosa con la bocca troppo larga di cui mi avevi parlato» disse ringhiando al signor D.
Un tuono piuttosto violento scosse l'intera vallata. Tutti, tranne Alex e il signor D, sobbalzarono e trasalirono spaventati. Alex incrociò le braccia e guardò il dio del vino. «Sì, Tantalo...» disse annoiato «è lei. Ma come hai sentito, a suo padre non piace che venga insultata»
«Che vuoi che me ne importi se-»
Ma non fece in tempo a finire la frase. Un altro tuono, più violento del primo, gli fece chiudere la bocca di scatto. «Lui» disse Alex soddisfatta, indicando il nostro amico ciclope «si chiama Tyson, e ha salvato il Campo. Ha preso a pugni quei tori di bronzo. Se non fosse intervenuto avrebbero raso al suolo tutto quanto»
«Già» sospirò Tantalo, che nel frattempo si era un po' ripreso «sarebbe stato un vero peccato. Andate a sedervi, mentre noi decidiamo il fato di questa... be'... ehm...». Parve ritirarsi un po' sotto l'occhiataccia di Alex. Deglutì. «Di questo Tyson» si corresse infine.
Tyson mi guardò con un'espressione colma di paura nel suo unico grande occhio, ma io sapevo di non poter disubbidire a un ordine diretto dei direttori del Campo. Non apertamente, almeno. «Saremo quaggiù, campione» promisi «non ti preoccupare. Ti troveremo un buon posto per dormire stanotte»
Tyson annuí. «Ti credo. Voi siete miei amici» disse, il che mi fece sentire ancora più in colpa.
Strascicai i piedi fino al tavolo di Poseidone e mi accasciai sulla panca. Alex prese posto davanti a me, ma a parte Tantalo nessuno parve farci caso. Ormai era normale, per noi, sederci l'uno al tavolo dell'altro. E immaginavo che Alex non volesse starsene seduta da sola.
Una ninfa del bosco ci portò un vassoio di pizza dell'Olimpo alle olive e peperoni, ma non avevo fame. Mi avevano quasi ucciso due volte, quel giorno. Ero riuscito a concludere l'anno scolastico con un disastro totale. Il Campo Mezzosangue era in guai seri e Chirone mi aveva detto di non prendere nessuna iniziativa. Non scoppiavo dalla voglia di ringraziare, ma portai con Alex la cena al braciere di bronzo, come d'abitudine, e ne gettai un po' alle fiamme. «Poseidone» mormorai «accetta la mia offerta». "E mandami un po' d'aiuto, già che ci sei" pregai in silenzio. "Ti scongiuro". Il fumo della pizza in fiamme si trasformò in qualcosa di fragrante –il profumo di una limpida brezza marina mescolato a quello dei fiori selvatici– ma non avevo idea se significasse che mio padre mi stesse davvero ascoltando. Alex gettò una grossa fetta di pizza nelle fiamme, ma non aprì bocca. Mi chiesi se avesse pregato Zeus.
Tornammo al nostro posto. Non pensavo che le cose potessero andare peggio di così, ma poi lei mi rivolse una domanda che speravo mi facesse più avanti: «Dov'è Chirone?»
Strinsi le labbra, combattuto. Non sapevo se fosse una buona idea dirle tutto proprio lì, ma non potevo nemmeno lasciare che restasse all'oscuro. Così, mentre mangiavamo -almeno, mentre lei mangiava, visto che io non avevo più fame- le spiegai che se ne era dovuto andare.
Sorprendentemente non fece una sola piega. Mi ascoltò con attenzione; poi si pulì le mani nel tovagliolo e prese a fissare il braciere delle offerte agli dei con aria assente. «Alex» la chiamai, ma lei non diede segno di avermi sentito. Allungai così una mano e le toccai un braccio.
Lei girò la testa a guardarmi. «Sto bene» disse un po' troppo in fretta.
Scossi la testa. «Non farlo»
«Che cosa?»
«Quella cosa» le dissi, indicandola con un dito «quella in cui dici di star bene anche se non è vero e non mi dici cosa accidenti ti passa per la testa»
La vidi sospirare. Le sue spalle si curvarono appena un po' di più. Aprì la bocca per rispondermi, ma Tantalo ordinò proprio in quel momento a uno dei satiri di suonare la conchiglia per gli annunci. Come se non mi stesse già abbastanza antipatico. «Sì, bene» iniziò quando le conversazioni si spensero «un altro pasto sublime! O cosí mi dicono». Mentre parlava, avvicinò impercettibilmente la mano al suo piatto, di nuovo pieno, sperando di passare inosservato. Ma il cibo se ne accorse lo stesso e sfrecciò via lungo il tavolo non appena la mano arrivò a una decina di centimetri di distanza. «E in occasione del mio primo giorno di autorità vorrei dire quale piacevole forma di punizione sia trovarmi qui. Nel corso dell'estate spero di torturare... ehm, di interagire con ognuno di voi, ragazzi. Sembrate talmente buoni che vi mangerei tutti»
Dioniso batté educatamente le mani, innescando l'applauso poco entusiasta dei satiri. Tyson era ancora in piedi davanti alla loro tavola, con l'aria imbarazzata, ma ogni volta che cercava di uscire dalla ribalta, Tantalo lo tratteneva. «E ora, qualche novità! Istituiamo la corsa delle bighe!»
Un mormorio proruppe su tutti i tavoli: eccitazione, paura, incredulità. «Quel tipo è fuori di testa» borbottò sorpresa Alex.
«Lo so» continuò Tantalo, alzando la voce «lo so che la corsa fu abolita anni fa a causa di... ah, problemi tecnici»
«Tre morti e ventisei mutilazioni» gridò qualcuno al tavolo di Apollo.
«Sì, sì!» esultò Tantalo «ma so che gioirete tutti con me per il ritorno di questa tradizione del Campo. Ogni mese gli aurighi vincitori conquisteranno una corona d'alloro. Le squadre possono iscriversi domattina! La prima corsa sarà fra tre giorni. Sarete dispensati dalla maggior parte delle normali attività per preparare le bighe e scegliere i cavalli. Oh, dimenticavo... la Casa della squadra vincitrice non avrà turni di servizio per tutto il mese della vittoria!»
Le conversazioni esplosero eccitate: niente turni per un mese? Niente pulizia delle stalle? Diceva sul serio? Poi si levò un'obiezione dall'ultima persona che mi sarei aspettato al mondo. «Ma, signore!» protestò Clarisse. Sembrava nervosa, però si alzò a parlare dal tavolo di Ares. Alcuni ragazzi risero sotto i baffi quando videro il foglietto attaccato sulla sua schiena. «E il servizio pattuglia? Cioè, se molliamo tutto per preparare le bighe-»
«Ah, l'eroina del giorno» esclamò Tantalo «la prode Clarissa, che ha sconfitto i tori di bronzo tutta da sola!»
Clarisse sbatté le palpebre, poi arrossì. «Ehm, io non-»
«Ed è anche modesta». Tantalo sorrise. «Non c'è da preoccuparsi, mia cara! Questo è un Campo estivo. Dobbiamo divertirci, no?»
«Ma l'albero-»
«E ora» la interruppe nuovamente Tantalo mentre diversi compagni di Clarisse la tiravano a sedere «prima di procedere con il falò e con il coro, una piccola questione gestionale. Percy Jackson, Alexandra Grace e Annabeth Chase hanno ritenuto appropriato, per qualche ragione, portare qui questa... creatura». E indicò Tyson con un gesto della mano.
Un mormorio imbarazzato si diffuse tra i ragazzi del campo. Io e Alex fummo bersaglio di parecchie occhiatacce. Avrei voluto ammazzarlo. Notai dei piccoli fulmini tra le dita di Alex prima che le ritirasse sotto il tavolo, squadrando Tantalo come se volesse spedirglieli contro. «Ora, naturalmente» continuò lui «i ciclopi sono noti per essere dei mostri assetati di sangue dal cervello molto, molto piccolo. In circostanze normali, avrei liberato questa bestia nel bosco e vi avrei chiesto di cacciarla con le torce e i bastoni. Ma chissà? Forse questo ciclope non è orribile come la maggior parte dei suoi fratelli. Finché non dimostrerà di meritare la distruzione, ci serve un posto in cui tenerlo! Ho pensato alle stalle, ma i cavalli si innervosirebbero. La casa di Ermes, forse?»
Il tavolo di Ermes ammutolì. Travis e Connor furono colti da un improvviso interesse per la tovaglia. Non potevo biasimarli. La casa di Ermes era sempre piena fino all'orlo. Era impossibile farci entrare un ciclope alto due metri. «Avanti» rimbrottò Tantalo «il mostro potrebbe fare qualche piccolo lavoretto. Altri suggerimenti su una possibile cuccia per una bestia del genere?»
Alex si alzò in piedi, i fulmini che le danzavano sulle braccia, ma d'improvviso l'attenzione si spostò dalla sua esile figura a quella enorme di Tyson.
Tantalo si allontanò da lui, sorpreso. Io riuscii soltanto a fissare incredulo la brillante luce verde che stava per cambiare la mia vita: uno scintillante ologramma comparso sopra la testa di Tyson. Con una stretta di nausea allo stomaco ricordai quello che aveva detto Annabeth sui ciclopi: "Sono figli di spiriti della natura e dei... be', di un dio in particolare, di solito...". Al di sopra di Tyson roteava uno scintillante tridente verde, lo stesso simbolo che era comparso sopra la mia testa il giorno in cui Poseidone mi aveva riconosciuto come figlio.
Ci fu un attimo di silenzio sbigottito. Alex tornò normale, e si girò a guardarmi. Essere riconosciuti era un evento raro. Alcuni dei ragazzi del campo lo aspettavano invano per tutta la vita. Quando era successo a me, l'estate prima, tutti si erano inginocchiati con reverenza. Ma adesso seguivano l'esempio di Tantalo, e lui scoppiò in una sonora risata. «Bene! Adesso almeno sappiamo dove tenere la bestia. Per gli dei, in effetti vedo una certa somiglianza!»
Tutti risero, tranne Annabeth, Alex e pochi dei miei altri amici. Tyson non sembrò farci caso. Era troppo disorientato e cercava di scacciare con le mani il tridente luminoso che cominciava a svanire sopra la sua testa. Grazie al cielo l'attenzione che aveva attirato si calamitò su Tantalo, che stramazzò a terra tremando incontrollabilmente in un lampo improvviso di luce biancastra. Le risate si spensero d'improvviso. «Grace!» tuonò il signor D.
Alex si limitò a rivolgergli un sorriso freddo, ma la mia attenzione era tutta per Tyson. Era troppo innocente per capire quanto lo prendessero in giro, quanto fosse crudele la gente. Ma io avevo afferrato il concetto. Avevo un nuovo coinquilino. E avevo un mostro per fratellastro.
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